l'Investitore Accorto

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Il mercato delle idee: Soluzioni alla crisi

Nonostante i molti e costosi interventi già messi in campo da banche centrali e governi, le cronache delle ultime settimane ci dicono che in molti paesi il sistema creditizio resta nell’occhio del ciclone mentre la congiuntura economica non fa che deteriorarsi. Stiamo entrando nel pieno di quella che già ora si profila come la peggiore crisi del dopoguerra. Ci sono soluzioni o dobbiamo rassegnarci a un’altra Grande Depressione, destinata a durare svariati anni? Nella rubrica Il mercato delle idee offro qualche link per orientarsi e, dato che i testi sono in lingua inglese, aggiungo una mia presentazione delle riflessioni che vi sono contenute.

La politica monetaria non basta più

In un normale ciclo economico sono le banche centrali, in sostanza, a determinare una recessione e poi a dare avvio a una nuova fase espansiva, agendo – secondo necessità, e tra inevitabili errori – sulla potente leva dei tassi d’interesse. L’attuale ciclo, però, non è per niente normale. Al cuore del sistema, in America, ma anche in altri paesi, c’è stata eccessiva accumulazione di debito da parte delle famiglie ed eccessiva creazione di credito – di pessima qualità – da parte del sistema bancario. Il risultato è che sia le famiglie che le banche devono rimettere ordine nei loro bilanci.

Tutti si ritrovano costretti a farlo allo stesso tempo, e questo è il guaio. Le famiglie tagliano le spese, aumentano i risparmi e non ne vogliono più sapere di indebitarsi. Le banche tagliano il credito e tengono per sé la liquidità che generosamente viene loro offerta dalle banche centrali. L’attività economica collassa, le aziende falliscono, i lavoratori si ritrovano disoccupati. Lo sforzo di risanamento in cui sono impegnate banche e famiglie diventa via via più difficile. E’ il terribile circolo vizioso che sempre viene innescato da un boom del credito che si trasforma in crollo, in panico e in grave crisi finanziaria. La corsa ad accaparrare liquidità fa sì che, nello sforzo di salvarsi, ognuno finisca per contribuire alla rovina di tutti. E’ capitato già diverse volte in passato.

In queste situazioni, la politica monetaria convenzionale – quella cioè affidata alla leva dei tassi – non basta più. Il costo del denaro può scendere anche a zero, com’è accaduto in America, ma la domanda di credito non si riprende. Come si dice in gergo, “il cavallo non beve.” Uno dei motivi è che quando crollano i prezzi degli asset e l’attività economica, e anche i prezzi dei beni tendono a flettere in un unico gigantesco gorgo ribassista, anche un tasso zero è insufficiente.

Una prova convincente la offre un grafico (vedi sotto) prodotto dal chief economist di Goldman Sachs, Jan Hatzius, e commentato dal neo-premio Nobel Paul Krugman sul suo blog, The Conscience of a Liberal. Si tratta di una rappresentazione della cosiddetta regola di Taylor, o Taylor rule, una semplice equazione, ideata nel 1993 dall’economista americano John Taylor, che tiene conto degli scostamenti dell’inflazione e dell’attività economica dai loro target o livelli d’equilibrio al fine di prescrivere le corrette risposte di politica monetaria. L’idea di fondo è che quando inflazione e crescita sono eccessive, i tassi dovrebbero salire in modo da agire da freno; e quando inflazione e crescita si raffreddano troppo, i tassi dovrebbero scendere in modo da agire da stimolo.

Il grafico di Hatzius mette a confronto, per il periodo dal 1987 a oggi, il tasso a breve americano (Fed funds) con il tasso che sarebbe stato prescritto come corretto dalla Taylor rule. L’andamento è molto simile, a conferma che, nella sua semplicità, la Taylor rule è un utile strumento descrittivo di come una banca centrale – in questo caso la Federal Reserve – conduce la sua politica monetaria.

Per lo stesso motivo, la Taylor rule può essere usata per cercare di anticipare il corso futuro del costo del denaro, sulla base di stime dell’inflazione e del PIL. E’ quello che Hatzius, nel suo grafico, ha fatto, spingendosi fino al 2011. Ciò che emerge è che la risposta corretta all’evoluzione prevista da Goldman Sachs per l’inflazione e il PIL americani sarebbe un taglio dei Fed funds fino a un livello negativo del 6%!

I tassi, però, non possono scendere sotto lo zero. Se accadesse, gli istituti di credito ringrazierebbero sentitamente la banca centrale e accumulerebbero la liquidità nei loro forzieri. La conclusione è che la leva dei tassi – la politica monetaria convenzionale – ha smesso di funzionare. Nella situazione in cui ci troviamo è largamente inadeguata.

E allora? Nelle parole di Krugman, “Questo è il motivo per cui abbiamo bisogno di un poderoso stimolo fiscale, di politica monetaria non convenzionale (ndr, sostegni da parte della banca centrale che vadano oltre le manovre sui tassi a breve), e di qualsiasi altra cosa riusciamo a immaginare per combattere l’attuale tracollo. In senso letterale, le regole abituali non valgono più.”

Soluzioni non convenzionali

Per capire più in dettaglio quali possano essere le soluzioni migliori per superare la crisi un’ottima lettura è di nuovo offerta da Paul Krugman: si tratta della sua lettera aperta al Presidente Obama, pubblicata su Rolling Stone lo scorso 14 gennaio. LaStampa.it ne ha tradotto un ampio stralcio. E’ un po’ lunga, ma merita lo sforzo. Ne sintetizzerò, comunque, alcuni punti: quelli relativi alle misure urgenti da adottare nel primo anno della nuova amministrazione.

– L’economia è “in caduta libera” e le prospettive sono peggiori di quanto quasi chiunque aveva anticipato.

– L’aspetto più grave è l’incessante perdita di posti di lavoro: 2 milioni nell’ultimo anno e, di recente, mezzo milione al mese. Entro la fine del 2009 ci potrebbero essere 10 milioni di disoccupati in più del normale (pari a un tasso di disoccupazione del 9%), e altri 10 milioni di sottoccupati (pari a un tasso di disoccupazione allargata del 15%): una “catastrofe”.

– La Federal Reserve non ha più spazi di manovra con i tassi. Le misure non convenzionali tese a rianimare i mercati del credito sono indispensabili “per limitare i danni”, ma non sono in grado di far ripartire l’economia. La responsabilità, ora, è tutta nelle mani del governo.

– L’ultimo presidente americano ad aver affrontato una sfida analoga fu Franklin Delano Roosevelt (FDR, nella foto sotto), negli anni ’30. In quell’esperienza ci furono successi e insuccessi: i primi vanno imitati, dai secondi bisogna imparare perché non siano ripetuti.

FDR utilizzò la finanza pubblica per salvare le banche. E questo fu un bene. Nel 1935 un terzo del sistema bancario americano era stato nazionalizzato. A differenza di quanto ha sinora fatto l’amministrazione Bush, FDR non fu per niente “timido” nell’esigere che le risorse pubbliche, messe a disposizione delle banche, fossero utilizzate al servizio del bene pubblico. Insomma, esercitò i suoi poteri perché quel denaro fosse impiegato nell’attività di credito. Altre risorse furono messe direttamente a disposizione di imprese e famiglie. E questo occorre fare anche oggi, in modo da evitare che imprese sane falliscano e da consentire alle famiglie in necessità di rinegoziare i mutui e restare nelle loro case.

– L’economia ha bisogno di sostegno diretto ai salari e alla creazione di posti di lavoro. In questo FDR sbagliò. L’azione di stimolo ci fu ma non fu sufficiente. Nel 1937, illuso forse dalla ripresa degli anni precedenti e preoccupato per il buco che si era aperto nelle finanze pubbliche, FDR si lasciò convincere a tagliare le spese e ad alzare le tasse. La conseguenza fu un’altra terribile recessione che distrusse quasi tutti i progressi fatti sino ad allora. Alla fine fu quel “gigantesco programma di lavori pubblici noto come Seconda Guerra Mondiale” che consentì all’America di lasciarsi alle spalle oltre un decennio di Grande Depressione.

– Qual è la lezione? Il governo, nei suoi piani di spesa, deve essere “coraggioso”. Si tratta di sostituire la domanda privata, che è venuta meno, con domanda pubblica. Si tratta di riportare un tasso di disoccupazione, che tende al 9%, verso un più normale 5%. E siccome, a grandi linee, ci vogliono 200 miliardi di dollari (pari a circa l’1,4% del PIL) per abbassare la disoccupazione di un punto percentuale, per ottenere una “piena ripresa” il governo dovrà essere disposto a spendere circa 800 miliardi di dollari l’anno. Sotto i 500 miliardi di dollari, l’impegno sarà senza dubbio insufficiente.

– Aumenti di spesa pubblica di questa entità, in un periodo in cui la recessione riduce le entrate fiscali, produrranno di sicuro dei buchi di bilancio “paurosi”. Ma l’alternativa dell’eccesso di cautela sarebbe peggiore.

– Come spendere? In cose che abbiano valore nel tempo: infrastrutture, efficienza energetica e miglioramenti alla rete elettrica, Internet, informatizzazione del sistema sanitario, sostegno agli stati e ai governi locali in modo che non siano costretti a ridurre le spese nel momento peggiore. E poi aiuti alle famiglie colpite più duramente dalla crisi. “Far del bene farà bene” anche all’economia, dato che i più poveri saranno anche i primi a spendere i sussidi ricevuti.

– I tagli di tasse possono essere utili, soprattutto se rivolti alle famiglie a basso e medio reddito, ma non debbono essere lo strumento principale. Sono infatti meno efficaci nel sostenere la domanda di quanto non siano, ad esempio, gli investimenti in infrastrutture.

– A queste condizioni, il 2009 resterà un anno da dimenticare, ma si potrebbe avere una ripresa dal 2010.

Un rimedio per le banche

Dovremmo avere paura della completa nazionalizzazione delle banche in difficoltà? Se lo chiede Willem Buiter, docente alla London School of Economics ed ex-chief economist della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, nel suo blog Maverecon. La risposta è no. Anzi, è proprio questa la soluzione che presenta meno controindicazioni.

Finora, argomenta Buiter, in questa crisi i governi hanno seguito due approcci. In America, l’amministrazione Bush ha scelto di intervenire con capitali pubblici a condizioni di favore. E’ successo con AIG, con Goldman Sachs, con Citigroup. Così facendo, magari si consente alle banche di tornare a fare credito, ma si premiano i corresponsabili dell’attuale sfascio e si alimenta un atteggiamento di azzardo morale (moral hazard) che finirà in futuro per incoraggiare di nuovo un’eccessiva assunzione di rischi.

In Europa, tanto in Gran Bretagna come nella zona euro, i governi hanno preferito intervenire esigendo un prezzo più salato per il loro sostegno, sia in termini di costo del capitale che di altre condizioni “punitive”, quali ad esempio la fissazione di limiti ai compensi del top management.

Il risultato è che le banche stanno cercando in tutti i modi di evitare l’intervento dei governi. E quando questo è inevitabile, adottano strategie idonee a liberarsene al più presto. La più facile – a cui sono indotte anche da altri fattori, quali l’effettiva maggiore rischiosità dell’attività di credito in una situazione di crisi – è di evitare ogni rischio e, data la generale indisponibilità di capitali privati, restare sottocapitalizzate. Molte grandi banche europee, osserva Buiter, sono degli “zombie” e non stanno facendo il loro lavoro.

A questi due approcci ne è largamente preferibile un terzo: nazionalizzare del tutto. Tra l’altro, diventerebbe molto più facile risolvere un problema spinoso, e cioè come creare delle “bad bank” a cui conferire gli asset tossici – poco liquidi e dai prezzi incerti – che gravano come zavorre sui bilanci di molti istituti. Le proposte che oggi vengono avanzate, con le banche ancora in mani private, s’incentrano sulla possibilità di stabilire un qualche “valore equo” di questi asset da trasferire a veicoli pubblici. Ma sotto la copertura di un fair value che è oggi impossibile determinare, rischiano di nascondersi sussidi per niente trasparenti.

Molto meglio, sostiene Buiter, nazionalizzare per il tempo strettamente necessario. Le banche tornerebbero da subito a fare il loro lavoro, offrendo un migliore sostegno a imprese e famiglie. Una riprivatizzazione dovrebbe solo aspettare la stabilizzazione dei mercati finanziari e una ripresa dell’economia.

Il mercato delle idee: TED spread, trend e tormenti

Rischi privi di rendimento

La rubrica Buttonwood dell’Economist, in un articolo dal titolo Yielding to none, si chiede quale sia l’elemento più eccezionale che si presenta alla vista degli investitori in avvio di 2009 e conclude che non si tratta né dell’andamento dei mercati azionari né delle quotazioni del petrolio ma piuttosto dei rendimenti dei titoli di stato. I titoli decennali del Tesoro americano, ad esempio, offrono solo il 2,3% rispetto a una media, negli ultimi due secoli, del 4,5%. Nella parte breve della curva, poi, i rendimenti sono inferiori all’1%. Al confronto, il tasso di dividendo del mercato azionario è del 3,3%. Che senso ha tutto ciò?

Gli investitori, pare ovvio, sono disperati di mettere le mani sugli asset meno rischiosi che riescano a trovare. Ma così facendo, in massa, stanno creando dei nuovi pericoli. Nell’immediato, è difficile immaginare tanto una ripresa dell’inflazione che dei tassi manovrati dalle banche centrali. La Federal Reserve ha portato i Fed funds in una forchetta tra 0% e 0,25% e annunciato di volerli congelare lì per un certo periodo di tempo. Ma in prospettiva le cose potrebbero cambiare, e di molto.

L’enorme stimolo monetario e, nei mesi a venire, anche fiscale che le autorità stanno imprimendo al sistema per scongiurare una depressione e rianimare il ciclo economico solleva non poche possibilità di una ripresa dell’inflazione nel prossimo futuro. Per gli investitori, in quel caso, il problema sarà riuscire a scappare dal mercato obbligazionario prima che lo faccia la massa: una condizione spiacevole in cui è sempre alto il rischio di finire travolti.

Insomma, i titoli di stato, che sono noti – nel gergo della finanza – come strumenti che garantiscono “rendimenti privi di rischio” si presentano oggi piuttosto come una classe d’investimento che, secondo l’arguta definizione di James Grant, offre “rischi privi di rendimento.” Un “orrendo bear market”, paventa l’Economist, appare prima o poi inevitabile.

Meno stress nel mercato del credito

L’attenzione di investitori e media, negli ultimi mesi, si è spostata dagli aspetti finanziari della crisi a quelli economici. A preoccupare, insomma, sono l’andamento della produzione, delle vendite, dell’occupazione. Resta il fatto, però, che l’origine del rapido raffreddamento della congiuntura, a cui si assiste, sta nella crisi finanziaria e nella condizione di vero e proprio collasso del sistema creditizio a cui si era giunti lo scorso autunno.

Le banche centrali, Federal Reserve in primis, si sono date da fare – anche attraverso l’utilizzo di diversi strumenti non convenzionali – per riportare un po’ d’ordine e di normalità. Senza credito, infatti, non è pensabile che l’attività economica possa riprendersi. Ma quali sono stati finora i risultati? Un prezioso aggiornamento per quel che riguarda il mercato guida, e cioè quello americano, è offerto dal blog Calculated Risk, che fa un regolare monitoraggio di diversi indicatori, come il TED spread (vedi grafico qui sotto, tratto da Bloomberg), il tasso swap a 2 anni o il tasso LIBOR.

Di che si tratta? Sono tassi o spread fra tassi (come nel caso del TED spread, dato dalla differenza tra il rendimento dei Titoli del tesoro a tre mesi e il tasso sui prestiti interbancari a tre mesi) atti a misurare le condizioni di liquidità e di rischio sui mercati del credito. Per fare un esempio, se le banche hanno timore del rischio di controparte posto da altre banche, saranno restie a prestare loro liquidità ed esigeranno dei rendimenti più alti, facendo lievitare il tasso LIBOR o il TED spread.

Come il grafico qui sotto evidenzia, la situazione negli ultimi mesi è alquanto migliorata, anche se non si è del tutto normalizzata. Il TED spread è sceso verso l’1%, in prossimità dei livelli più bassi dell’ultimo anno, dal massimo storico del 4,63% toccato il 10 ottobre. In condizioni normali, il differenziale non dovrebbe essere superiore allo 0,5%. Comunque, è evidente che la Federal Reserve – come osserva Calculated Risk – “sta facendo progressi.”

L’Europa non fa abbastanza

Eurointelligence lamenta, in un commento alla decisione di ieri della Banca Centrale Europea di tagliare i tassi di riferimento di 50 punti base al 2,0%, che l’Europa sta facendo troppo poco, sia sul versante monetario che fiscale, per fronteggiare la recessione. Il presidente della BCE, Jean Claude Trichet, ha lasciato intendere che la banca centrale si prenderà una pausa di riflessione a febbraio e che nuove mosse sui tassi non sono da mettere in conto prima di marzo. Per Eurointelligence è chiaro che la BCE non ha alcuna intenzione di inseguire la Federal Reserve nel perseguimento di una politica dei tassi zero.

La reazione dei mercati è stata quella di vendere l’euro, che ha toccato i minimi nei confronti del dollaro da cinque settimane. La valuta americana, oltre a essere preferita come safe haven (bene rifugio) nei momenti di più accentuata avversione al rischio, non dà segni di patire lo sfavorevole differenziale sui tassi. Più che a questo, infatti, gli investitori sembrano prestare attenzione alle possibilità di fuoriuscita dalla crisi economica. E la scommessa è che, quando la ripresa verrà, sarà ancora una volta l’America e non l’Europa a fare da battistrada.

Paesi ancora emergenti

Gli alti tassi di crescita dei paesi emergenti sono stati resi possibile, negli ultimi anni, anche dal boom dei consumi americani, dal facile accesso al credito e dagli alti prezzi delle materie prime. Ora che tutti e tre questi fattori sono venuti meno, saranno in grado i paesi emergenti di continuare la loro rincorsa nei confronti di quelli avanzati?

A sostenere di sì è un articolo dell’Economist della scorsa settimana, intitolato Stumble or fall, da cui è tratto il grafico sotto, che mostra la forbice apertasi in questo decennio nel contributo alla crescita globale offerto dalle economie sviluppate e da quelle emergenti.

Anche se ci sono eccezioni di rilievo, come l’Argentina o alcuni stati dell’Europa dell’Est, molti di quei paesi godono di condizioni di solidità macroeconomica invidiabili rispetto ai paesi avanzati. In particolare, tendono ad avere alti tassi di risparmio, bilance commerciali in attivo e livelli di indebitamento pubblico molto esigui. In Cina, ad esempio, il debito pubblico ammonta solo al 18% del PIL. Questo consentirà loro di dare fondo a politiche fiscali espansive e di perseguire una via d’uscita dalla crisi mediante lo stimolo ai consumi interni.

Blogger a rischio

In tempi di crisi economica capita anche che i blogger si debbano guardare dalle ire dei governi, a caccia di capri espiatori verso cui canalizzare l’insoddisfazione popolare. Lo racconta Beppe Grillo in un articolo, al tempo stesso amaro e divertente, intitolato Minerva.

Numeri, notizie e disoccupazione negli Usa

La notizia “bomba” che l’economia americana ha sofferto nel 2008 la peggiore perdita di posti di lavoro addirittura dal 1945 è risultata irresistibile, nel suo affascinante catastrofismo, a quasi tutti i mezzi di informazione. Tra quelli che mi è capitato di vedere, solo Reuters ha scelto di confinare questo aspetto delle statistiche sull’occupazione Usa, diffuse venerdì, nel secondo paragrafo, anziché nel primo, del suo dispaccio.

Per il resto, non ho trovato nessuno che non abbia scelto di enfatizzare nei titoli e in apertura d’articolo il deprimente richiamo alla Seconda Guerra Mondiale, ritenendolo il tratto più interessante e significativo rivelato dai molti numeri inclusi nel rapporto. Così ha fatto Bloomberg, e così hanno fatto, tra le testate di casa nostra, tanto Il Sole 24 Ore come il Corriere della Sera e la Repubblica, il cui corrispondente da New York, Arturo Zampaglione, ha anzi ritenuto opportuno ricreare in avvio, in poche ma precise parole, il contesto di quei tempi drammatici:

“Era dal 1945, cioè da quando i soldati cominciarono a tornare dalla guerra e vennero rallentate le commesse belliche, che l’ economia americana non eliminava tanti posti di lavoro in un anno. Nel 2008, a causa della tempesta finanziaria e della recessione, ne sono stati persi 2,6 milioni.”

Immagino che la quasi totalità dei lettori abbia avvertito un brivido lungo la schiena, fatto forse un segno della croce e si sia dimessamente preparata al peggio.

Ma che razza di notizia è questa? Alla lettura dei dispacci d’agenzia e delle corrispondenze delle nostre più prestigiose testate non ho potuto fare a meno di ricordare una famosa arguzia dello scrittore Mark Twain. In risposta a un articolo di giornale che lo dava per defunto, Twain inviò il seguente telegramma: “Notizia mia morte fortemente esagerata”.

Per spiegare il perché di questa mia reazione, partirò da un’analogia – un po’ vaga, ma che forse rende l’idea. Immaginiamo che io cominci a confessare a mia moglie e agli amici di essere preoccupato perché mio figlio Valerio, nonostante tutte le sue ottime qualità, dimostra anche di conoscere un po’ di parolacce in più dell’altro mio figlio Tiziano, e negli inevitabili litigi sa anche picchiare con più forza. Bene, se io mi comportassi così c’è da star sicuri che mia moglie e gli amici mi scruterebbero stupefatti e risponderebbero: “Beppe, ma ti sei bevuto il cervello? Tiziano ha 6 anni, Valerio ne ha 8. Valerio è più grande!”

Ecco, questo è il punto. Anche l’economia americana, dal 1945 a oggi, non ha fatto che diventare più grande, e così la sua forza lavoro. Gli ultimi 60 anni sono stati un periodo di grande espansione demografica. Dopo la guerra c’è stato il baby boom e dalla seconda metà degli anni ’60 i baby boomer hanno invaso il mercato del lavoro. Uno sguardo ai dati storici del Bureau of Labor Statistics (l’organismo americano che raccoglie le statistiche sul mercato del lavoro) consente di verificare in un attimo che la forza lavoro americana era di 82 milioni e 771 mila unità nel 1970 (forse si può risalire più indietro, fino al fatidico 1945, ma non ho voluto dedicare a questa ricerca più di qualche istante) ed è cresciuta fino a 154 milioni 287 mila unità nel 2008. In 38 anni è aumentata dell’86%. Insomma, è quasi raddoppiata!

Siccome la forza lavoro è data dalla somma di occupatidisoccupati, è normale aspettarsi che, se la forza lavoro aumenta, siano sempre di più – in termini assoluti – i posti di lavoro che vengono creati in ogni nuovo ciclo espansivo e quelli che vengono distrutti a ogni nuova recessione.

Se la base di riferimento (la forza lavoro) si modifica, e anche di molto, l’unico modo per fare raffronti sensati nel tempo è quello di esprimerli in termini percentuali e non assoluti. Il dato – enfaticamente comunicato dai media – che la perdita di posti di lavoro nel 2008 è stata, in assoluto, la più elevata dal 1945 non ci dice praticamente nulla della gravità della recessione in corso. Spacciato per sommamente significativo, il numero – privato del contesto da cui è tratto, e cioè le dimensioni della forza lavoro – è invece ingannevole.

Per fortuna, c’è anche chi ha messo riparo a questo abbaglio collettivo dell’informazione finanziaria. E’ il caso, ad esempio, del team di economisti di Northern Trust, che, in risposta all’assordante cancan dei media, ha pubblicato il seguente grafico:

Il grafico mostra l’andamento dell’occupazione negli ultimi quattro cicli dell’economia americana, in modo da renderli confrontabili. Il picco di ogni ciclo è stato fatto pari al numero indice di 100, e da lì si è proceduto a computare il livello dell’occupazione nei due anni precedenti e due anni seguenti. Per il ciclo attuale, il tracciato si ferma a 4 trimestri dopo il punto di massima espansione, dato che la recessione in corso ha preso avvio nel dicembre 2007 e gli ultimi dati (quelli diffusi venerdì) si riferiscono al dicembre 2008.

Posta la questione in termini corretti, cosa appare evidente? Per quanto riguarda il mercato del lavoro, il bistrattato 2008 (quello che i media hanno fatto passare come l’anno peggiore dal 1945) si rivela come un anno di recessione – con un calo degli occupati dell’1,45% – un po’ peggiore del primo anno del ciclo recessivo del 1991 (-1,20%), un po’ migliore di quello del 2001 (-1,53%) e molto migliore del primo anno della pesante recessione del 1981 (-2,40%).

A chi si senta disorientato, aggiungerò che il sospetto sull’assennatezza di quanto più di qualche collega ha scritto tra venerdì e sabato doveva venire confrontando l’incipit degli articoli (il catastrofico confronto col 1945) con le informazioni che seguivano. Dovunque, qualche riga più giù, si finiva per comunicare il dato davvero significativo, e cioè che il tasso di disoccupazione americano era salito a dicembre dal 6,8% al 7,2%, il livello più alto da 15 anni. Non si tratta certo di una buona notizia. Ma gli ultimi 15 anni sono stati per l’economia americana un periodo di quasi ininterrotta espansione (la mini-recessione del 2001 fu una delle più brevi del dopoguerra), e una disoccupazione del 7,2% non è una tragedia (l’Italia, negli ultimi decenni, ha spesso avuto tassi superiori, anche quando l’economia era in piena crescita).

La conferma viene da quest’altro grafico, tratto sempre da Northern Trust, dove si mostra l’andamento del tasso di disoccupazione negli Usa (linea rossa) dal 1980 a oggi. Le bande grigie indicano i periodi di recessione.

Non c’è di che rallegrarsi. Ma le cose, fermandosi agli ultimi tre decenni senza scomodare il 1945, sono spesso andate peggio.

Intendo con questo spingermi a dire che l’ultimo rapporto sull’occupazione americana non ha offerto motivi di preoccupazione? Non è così. Il catastrofismo dei media è stato fuorviante. E il raffronto con il 1945, ripeto, è privo di senso. Ma esistono, eccome, le note dolenti.

Un rapido sguardo al primo dei grafici da me riportati mostra come la pendenza della curva relativa al 2008 si sia accentuata nell’ultimo trimestre. Negli ultimi mesi, da settembre in poi, il deterioramento del mercato del lavoro americano è molto accelerato, assumendo un’intensità che non si vedeva dagli anni ‘70. Ci sarebbe stato da stupirsi del contrario, vista l’entità dello shock patito dal sistema finanziario e creditizio, che si sta ora inevitabilmente trasferendo all’economia reale. Ma non c’è dubbio che la situazione è delicata ed esige risposte urgenti di politica fiscale, cosa peraltro di cui la nuova amministrazione Obama è pienamente consapevole.

Mark Twain, che ho citato in avvio, non era un grande ammiratore degli standard della professione giornalistica. Gli capitò di affermare che “i giornalisti sono quelli che sanno distinguere i fatti dalle balle, ma poi pubblicano le balle.” Sono incline a pensare, però, che nel nostro caso il suo sarcastico detto – in altre circostanze giustificato – non colga del tutto nel segno.

Certo, tentato dalla possibilità di mettere in piedi un drammatico confronto col 1945 ogni giornalista intuirebbe subito l’allettante prospettiva di un titolo a tutta pagina che fa vendere di più. Ma sospetto che, nel nostro caso, trovandosi a che fare con una marea di numeri, alcuni miei colleghi – più avvezzi a districarsi tra le parole – abbiano finito per comportarsi in modo un po’ disarmato, come delle persone qualunque. E il risultato è stato che, abbandonandosi all’onda delle sensazioni (“le cose vanno male, anzi malissimo”), si sono trovati a raccontare balle senza averle sapute distinguere dai fatti. Quali fossero i fatti, non sono stati in grado – almeno in parte, almeno questa volta – di capirlo.

Un rimedio per il futuro potrebbe essere la lettura di un bel libro di Gerd Gigerenzer, un noto scienziato cognitivo, dal titolo Quando i numeri ingannano. Lì, tra l’altro, Gigerenzer porta svariate prove a supporto di una sconsolante affermazione: “La sempre maggiore pubblicizzazione dei dati statistici […] è legata all’ascesa delle democrazie nel mondo occidentale. […] Oggi i numeri sono pubblici, ma il pubblico in generale non li sa leggere.” Purtroppo, è così. E la diffusa, acritica evocazione dei tempi della Seconda Guerra Mondiale seguita alla pubblicazione degli ultimi dati sull’occupazione americana ne è una riprova.

Curva dei rendimenti e politica del tasso zero

Dell’utilità della curva dei rendimenti (yield curve) come strumento di previsione delle recessioni economiche ho più volte parlato nel mio blog, da ultimo nel post I Fed funds sono al 2% ma le Borse calano. Perché? In quell’articolo mostravo come una curva piatta o invertita – dove cioè i tassi sui titoli di stato a 10 anni si trovano, in modo anomalo, allo stesso livello o addirittura più bassi di quelli a tre mesi – abbia sistematicamente precorso, con un anno circa di anticipo, tutte le recessioni americane dell’ultimo mezzo secolo.

Utilizzavo, a tal fine, un grafico della Federal Reserve di Cleveland, che vado qui a riprodurre aggiornato alla metà di dicembre.

Il grafico mette a confronto la curva dei rendimenti americana (linea rossa) – rappresentata nella sua forma più essenziale, e cioè come spread, o differenziale, tra il tasso a 10 anni e quello a tre mesi – con il tasso di crescita del Pil (linea blu). Le fasce in grigio indicano le recessioni. Quando la linea rossa scende sotto lo zero vuol dire che la differenza tra i rendimenti decennali e quelli a tre mesi è diventata negativa e che la curva dei rendimenti si è pertanto invertita.

Quello che si può osservare, come scrivevo già nel mio post di luglio, è che:
a) La yield curve ha una grande variabilità. In generale, curve molto ripide, con differenziali superiori ai due punti percentuali hanno preceduto fasi di rapida espansione economica ma anche crisi inflative (negli anni ’70 e primi anni ‘80), mentre curve piatte o invertite hanno preceduto fasi di stagnazione;
b) Tutte le recessioni americane dell’ultimo mezzo secolo sono state precedute, con un anno circa di anticipo, da una curva dei rendimenti piatta o invertita;
c) Ci sono stati un paio di falsi segnali. Nel 1968, l’inversione della curva accompagnò un brusco raffreddamento della congiuntura, con tassi di crescita che passarono dall’8% al 2%, ma non vi fu recessione (anche se gli effetti di un rallentamento così drastico furono per molti versi quelli di una vera crisi economica). Nel 1998, in concomitanza con il default russo e il collasso del fondo LTCM, che fecero temere una crisi sistemica dei mercati, la curva si appiattì ma la crescita economica seguitò robusta per un altro biennio – sull’onda dell’euforico gonfiarsi della bolla dei titoli tecnologici.

Nel luglio scorso, quando scrissi I Fed funds sono al 2% ma le Borse calano, circolavano ancora molti dubbi sull’eventualità che l’economia americana fosse o stesse per cadere in recessione. Ma nel mio articolo mi spingevo ad assegnarvi un’alta probabilità, confidando anche sul provato valore predittivo della curva dei rendimenti, che aveva trascorso diversi mesi in una configurazione piatta a cavallo tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007. Come si è poi visto, quella scommessa ha pagato. E gli investitori che già dal 2007 avessero prestato attenzione ai minacciosi segnali che la yield curve diffondeva – com’è stato il caso dell’Investitore Accorto – avrebbero potuto evitare la falcidia che si è poi abbattuta su molti portafogli.

Come mai uno strumento all’apparenza così semplice come la curva dei rendimenti sia tanto efficace nel predire le recessioni è ben riassunto in uno studio di Arturo Estrella e Frederic Mishkin, pubblicato dalla Federal Reserve di New York nel 1996. I due ricercatori osservano come la parte breve della curva sia molto influenzata dalle decisioni di politica monetaria della Banca centrale, che a loro volta condizionano l’andamento dell’attività economica con un ritardo temporale di alcuni trimestri. La parte lunga della curva, d’altra parte, riflette le aspettative del mercato riguardo all’evoluzione dei tassi reali e dell’inflazione. I tassi reali attesi incorporano la percezione del mercato sul corso futuro della politica monetaria. Mentre l’inflazione attesa contiene anche un elemento di anticipazione della crescita economica, dato che crescita e inflazione tendono a essere positivamente correlate.

Una curva piatta o invertita, dunque, prende di solito forma quando la Banca Centrale alza i tassi a breve al punto da generare aspettative di più bassi tassi e più bassa inflazione in futuro. Si tratta di condizioni tipicamente associate all’instaurarsi di una recessione. E come l’esperienza insegna, il mercato – in questo – dimostra di saper leggere nel futuro con notevole acume.

Cosa ci rivela invece una curva positivamente inclinata, in cui i tassi a lunga sono più alti di quelli a breve?

Entro una certa soglia – più o meno attorno ai due punti percentuali – non ci dice nulla di particolare. Si tratta infatti di una condizione normale. Più si allontanano le scadenze, più i tassi d’interesse tendono a innalzarsi per compensare gli investitori dei maggiori rischi. E in ogni obbligazione ce ne sono diversi, come quello di insolvenza, di mercato, di liquidità, di inflazione, di reinvestimento. In un titolo particolarmente sicuro come un T-bond americano si può assumere che i rischi di insolvenza e di liquidità siano prossimi allo zero, ma restano gli altri, primo fra tutti il rischio di inflazione.

Oltre quel limite approssimativamente posto attorno ai due punti percentuali, però, è ragionevole pensare che una curva positivamente inclinata ci indichi che crescita e inflazione sono destinate a prendere forza, per gli stessi motivi per cui una curva piatta o negativamente inclinata ci ammonisce dell’approssimarsi di una recessione. Uno sguardo al grafico della Federal Reserve di Cleveland, che ho riprodotto all’inizio di questo post, pare confermarlo.

Veniamo ora al dunque. Che forma ha, di questi tempi, la curva dei rendimenti americana? Ce lo mostra il seguente grafico, che traggo da Stockcharts.

La yield curve è piuttosto ripida. I tassi a tre mesi sono praticamente a zero, mentre quelli a 10 anni si aggirano attorno al 2,35%. Lo spread è superiore al 2%. La curva, dunque, sembra dirci che il mercato sconta condizioni di crescita economica e inflazione più sostenute nei trimestri a venire.

Questa è anche l’interpretazione degli economisti della Federal Reserve di Cleveland, che sulla base di un modello che mette in relazione l’andamento della curva dei rendimenti alla crescita del PIL, hanno elaborato, a metà dicembre (quando la yield curve era un po’ più ripida di quanto non sia oggi), la previsione illustrata nel seguente grafico:

Nel corso del prossimo anno – scrivono – il PIL americano dovrebbe crescere a un tasso del 3% circa. Si tratta di una delle previsioni più ottimistiche tra quelle formulate dagli economisti americani, la cui stima di consenso – stando all’ultimo sondaggio mensile del Wall Street Journal – si ferma a un deludente tasso di crescita dello 0,0% (zero) nel quarto trimestre del 2009 rispetto al quarto trimestre del 2008.

Chi, come l’Investitore Accorto, ha dato credito – con successo – alle capacità predittive della curva dei rendimenti quando si è trattato di anticipare una recessione dovrebbe ora riporre altrettanta fiducia in questa stima di una robusta ripresa ciclica nei trimestri a venire?

Ho i miei seri dubbi. E la pulce nell’orecchio me l’ha messa Paul Krugman (nella foto in alto), il fresco premio Nobel per l’economia. Nel suo blog, The Conscience of a Liberal, Krugman osserva come la discesa dei tassi a breve americani verso la soglia minima di zero – sanzionata dalla Federal Reserve a metà dicembre – modifica alla radice il senso dei segnali inviati dalla curva dei rendimenti.

In condizioni normali, scrive Krugman, i tassi a breve possono sia scendere che salire. Il mercato, nella parte lunga della curva, è dunque libero di dare corpo alle sue aspettative, sia in un senso che nell’altro: tassi più alti se si prevede più crescita e inflazione, tassi più bassi se si sconta il contrario.

Ma ora, con i tassi a breve che hanno toccato il fondo, questa libera scommessa non può avere luogo. In ogni caso, è escluso che i tassi a breve, in futuro, scendano ancora mentre resta possibile, al contrario, che salgano. In queste condizioni, i tassi a lunga – nota Krugman – finiscono per comportarsi come il prezzo di un’opzione.

Una conferma di questa interpretazione verrebbe da quanto accadde in Giappone verso la fine degli anni ’90, quando la Banca centrale giapponese adottò una politica del tasso zero, proprio come ha fatto ora la Federal Reserve. I rendimenti decennali dei titoli di stato giapponesi oscillarono allora mediamente attorno all’1,75% – non troppo al di sotto di dove si trovano al momento negli Usa. Quello spread non fu né un segnale di ripresa né di normale crescita. Il paese, infatti, rimase a lungo in stagnazione.

“Triste a dirsi – conclude Krugman – la curva dei rendimenti non ci offre alcun conforto. Ci dice soltanto quello che già sappiamo, e cioè che la politica monetaria convenzionale (affidata alle manovre sui tassi, ndr) ha letteralmente toccato il fondo.”

Anche uno strumento prezioso come la curva dei rendimenti sembra dunque avere i suoi limiti.

Recessione e depressione, qual è la differenza?

Nel post Ma cos’è questa crisi ho cercato di spiegare perché, a mio modo di vedere, è molto improbabile che le recessioni in corso in quasi tutti i paesi avanzati – dagli Usa all’Europa al Giappone – si trasformino in una depressione economica paragonabile a quella degli anni ’30 del secolo scorso. Ai lettori sarà risultato chiaro – penso – che una depressione è un malanno parecchio più grave di una recessione. Ma quanto? Una definizione dei due concetti non l’ho data e forse più di qualcuno si sarà chiesto dove stia la differenza. Un utile articolo nell’ultimo numero del settimanale The Economist ci viene in soccorso, permettendoci di districare questa matassa.

Che una recessione sia in genere intesa come una fase di contrazione del Pil della durata di almeno due trimestri consecutivi è probabilmente noto a molti. Si tratta della definizione “volgare” del termine, utilizzata in genere dai mass media. Molti economisti, però, ne diffidano.

Il National Bureau of Economic Research, l’organismo che in America stabilisce le date dei cicli economici, preferisce ad esempio tenere conto di più indicatori economici anziché esclusivamente del Pil e guardare non solo alla durata ma anche all’estensione, in svariati settori, della diminuzione dell’attività. La sua definizione preferita è ben riassunta nel comunicato con cui il NBER ha annunciato il mese scorso che una recessione era iniziata negli Usa nel dicembre del 2007, e recita così: “Una recessione è un calo significativo dell’attività economica, diffuso attraverso l’economia, di durata superiore ad alcuni mesi, normalmente visibile nell’andamento della produzione, dell’occupazione, dei redditi reali e in altri indicatori.”

Quando la recessione diventa depressione

Tanto nella versione semplificata dei media che in quella più evoluta del NBER, cosa sia una recessione dovrebbe a questo punto essere chiaro. Quand’è invece che si comincia a parlare di depressione? Una definizione esatta, come racconta l’articolo dell’Economist, non esiste. Fino agli anni ’30 non se ne sentì il bisogno, dato che depressione era l’unico termine in uso per indicare qualsiasi episodio di contrazione dell’attività economica. Fu la cattiva nomea che questa parola acquisì negli anni ’30 a portare alla creazione del termine recessione. Da allora una distinzione precisa dei due concetti si è fatta attendere, anche perché – fortunatamente – nel dopoguerra delle crisi di portata analoga a quella degli anni ’30, nei paesi avanzati, non si sono più ripetute.

Sforzandosi di trovare un consenso tra quanti hanno cercato, in tempi recenti, di quantificare le differenze tra recessione e depressione, l’Economist arriva a definire una depressione come una riduzione dell’attività economica pari almeno al 10% del Pil e di durata non inferiore a tre anni. Quella degli anni 1929-1933, in America, fu senza dubbio una Grande Depressione, dato che durò ben 43 mesi con un crollo del Pil del 30% circa. Non si trattò peraltro della crisi economica più lunga per l’emergente potenza a stelle e strisce. L’altra Grande Depressione, quella del 1873-79, si protrasse infatti addirittura per 65 mesi.

Tra i paesi avanzati, collassi economici catalogabili come depressioni furono quelli che colpirono, a partire dal 1944, le potenze uscite poi sconfitte dalla Seconda Guerra Mondiale: Germania e Giappone, le cui economie patirono contrazioni superiori al 50%. Ma da allora in poi, come accennavo, di depressioni non s’è vista traccia tra i paesi più industrializzati, a parte una marginale eccezione: la Finlandia, che tra il 1990 e il 1993 subì una caduta del Pil pari all’11% in seguito all’implosione dell’Unione Sovietica, il suo principale partner commerciale.

Se si sta alla definizione dell’Economist, neppure la prolungata stagnazione dell’economia giapponese negli anni ’90 – il cosiddetto “decennio perduto” – sarebbe da considerare una depressione. Il periodo di più pronunciata flessione dell’attività economica, tra il 1997 e il 1999, comportò infatti un calo del Pil di appena il 3,4%.

Come si è imparato a prevenire le depressioni

Diversi fattori – osserva l’Economist – hanno contribuito a rendere meno probabile, nei paesi avanzati, il ripetersi di un evento tragico come una depressione. Il più importante, probabilmente, è il ruolo molto più rilevante assunto dai governi nell’economia. In un periodo di crisi, il settore pubblico – a differenza delle imprese private – non è costretto a tagliare costi e posti di lavoro. Anzi, la riduzione delle imposte che si accompagna al calo dell’attività economica e l’aumento della spesa per sussidi di disoccupazione offrono sostegno ai redditi.

Un’altra differenza di rilievo è data poi dall’avvento di un più flessibile sistema valutario basato sulle monete legali, o fiat money, che hanno rimpiazzato la rigida parità aurea di un tempo. Col gold standard, nelle fasi recessive tendeva anche a contrarsi l’offerta di moneta, in una perversa spirale che esacerbava lo stato di crisi. Ora, invece, le banche centrali sono libere di perseguire politiche anticicliche, riversando liquidità nel sistema economico ogni qualvolta lo ritengano opportuno e nella misura desiderata. Infine, si è capito quanto sia essenziale sostenere il sistema creditizio, impedendo i fallimenti a catena di istituti bancari, che negli anni ’30 misero in ginocchio l’economia americana.

Nonostante questi enormi progressi, che hanno contribuito a rendere meno instabile il ciclo economico, le depressioni non sono scomparse. Nei 25 principali paesi emergenti, monitorati dall’Economist, ci sono stati negli ultimi 30 anni almeno 13 casi di contrazione del Pil superiore al 10%. Ne sono stati vittima, tra gli altri, Arabia Saudita, Argentina, Cile, Venezuela, Ungheria, Polonia, Thailandia, Indonesia e Malesia. Ma la crisi più scioccante ha colpito la Russia, il cui Pil declinò del 45% tra il 1990 e il 1998.

Il grafico che segue, tratto dall’articolo dell’Economist, documenta le dodici peggiori depressioni dell’ultimo secolo e, a destra, evidenzia come il tasso annuo di crescita del Pil americano si sia andato stabilizzando a partire dalla seconda metà degli anni ’40.

La recessione del 2009: uno sguardo al consenso

Come disse il fisico Niels Bohr, “le predizioni sono molto difficili, specialmente per il futuro.” Questa massima si applica anche ai mercati finanziari. E ripetutamente, nel mio blog, ne ho portato le prove, mostrando come anche i migliori analisti siano spesso spiazzati dall’imprevedibile evolvere degli eventi. Ciò non vuol dire, d’altra parte, che ci si debba sforzare d’ignorare le opinioni di consenso. Conoscerle è utile. Non però al fine di farvi dipendere una strategia d’investimento ma, più semplicemente, per sapere quali aspettative già siano scontate nei prezzi di mercato.

Al centro delle preoccupazioni degli investitori c’è, in questa fase, la recessione che si è abbattuta su tutte le economie avanzate. Gli sguardi sono puntati sugli Usa, cuore della crisi e, al tempo stesso, dei mercati finanziari globali. Vediamo allora come si prevede che evolva la congiuntura americana.

Un ottimo sommario è stato pubblicato un paio di giorni fa dal blog Econbrowser, da cui riprendo i due grafici che seguono. Le previsioni incorporate sono tratte dall’ultimo sondaggio mensile del Wall Street Journal, condotto nella prima metà di novembre tra 55 dei più noti economisti americani.

Il primo grafico mostra l’andamento del PIL americano (linea blu) rispetto alla retta inclinata del tasso di crescita potenziale. Le barre verticali segnalano le recessioni. Le curve in rosso e in verde riflettono le previsioni di consenso pubblicate dal Wall Street Journal a novembre (rosso) e dicembre (verde). Come si vede, gli analisti nell’ultimo mese sono diventati più pessimisti e ora stimano che il PIL statunitense si contragga a un tasso annualizzato del 4,3% nel trimestre in corso, del 2,5% nel primo trimestre del 2009 e dello 0,5% nel secondo trimestre, per tornare poi a crescere moderatamente a un tasso dell’1,3% nel terzo trimestre del 2009 e del 2,0% nel quarto trimestre.

In base a queste previsioni, come si va configurando l’attuale recessione in confronto a quelle del passato? La risposta è ben visibile nel secondo grafico di Econbrowser. Sia per durata che per profondità, il consenso pensa che sarà simile a quelle del 1973-74 e del 1981-82, le due crisi economiche più pesanti del dopoguerra. Naturalmente, c’è chi pensa che le cose andranno anche peggio, come il team di analisti di Deutsche Bank (linea verde), le cui previsioni si trovano nel quartile dei più pessimisti tra quanti sondati dal WSJ.

Una recessione americana lunga 19 mesi, come oggi ci si aspetta, sarebbe un affare molto serio in base agli standard del dopoguerra, un periodo in cui le cicliche fasi di contrazione del Pil sono durate in media 10 mesi. A risalire più indietro nel tempo, si trova però di peggio. Nel 1902, 1910 e 1913 ci furono recessioni che si protrassero per oltre 20 mesi, mentre la crisi del ’29 vide l’economia contrarsi addirittura per 43 mesi di fila, come documenta quest’ultimo grafico, tratto da Bespoke Investment Group. La retta discendente evidenzia come la tendenza, nel tempo, sia stata verso recessioni di più breve durata – a testimonianza, si può presumere, di una migliorata capacità di gestire gli alti e bassi del ciclo sia da parte delle autorità che delle aziende. Una perizia che nell’America dell’era Bush, purtroppo, ha fatto difetto.

Ma cos’è questa crisi?

Si parla troppo e troppo a sproposito del ’29. Appena qualcuno accenna alla parola “crisi”, subito il pensiero corre lì. Molti investitori vivono oggi in questa paralizzante condizione, una sorta di riflesso pavloviano, un cortocircuito che infiamma la mente ma le impedisce di riflettere. Possibile che non ci siano altri modi per cercare di capire cos’è questa crisi, germinata in America dal collasso dei mutui subprime? Ne suggerirò uno, la lettura di un classico di storia dell’economia: Manias, Panics and Crashes di Charles Kindleberger.

Pubblicato la prima volta nel 1978, il libro (mai tradotto in italiano, com’è purtroppo il caso di molti testi fondamentali per la formazione di un investitore) è giunto nel 2005 a una quinta edizione, rivista in modo da includere la crisi messicana del 1994-95 e quella asiatica del 1997-98 al rosario di crash finanziari presi in esame dall’autore.

Kindleberger di gravi episodi di bolle speculative (Manias) seguite da crisi di panico (Panics) e crash di mercato (Crashes) ne elenca ben 39, dal 1622 alla fine del Novecento. In media, uno almeno ogni decennio. E si potrebbe risalire più indietro, fino alla famosa bancarotta dei Bardi e Peruzzi nella Firenze della metà del XIV secolo.

Sin dal primo emergere di un’organizzazione capitalistica dell’economia, le crisi finanziarie sono dunque state una costante. Scrive Kindleberger: “Si può dimostrare che, nel corso della storia, gli eccessi speculativi, definiti concisamente come ‘manie’, e il senso di ripulsa generato da tali eccessi sotto forma di crolli e attacchi di panico, sono stati, se non inevitabili, per lo meno comuni.”

Di comune hanno anche avuto la facile inclinazione all’uso dei superlativi da parte degli osservatori e interpreti contemporanei che le hanno raccontate. “La storia – scrive Kindleberger, in tono vagamente divertito – è piena di affermazioni iperboliche a riguardo delle varie crisi.” Insomma, non ce n’è stata una, o quasi,che non sia stata descritta come la più tremenda, paurosa e devastante a memoria d’uomo.

Il loro dispiegarsi ha seguito una trama alquanto ripetitiva, scandita in cinque fasi: a) uno shock iniziale positivo, che genera aspettative di più elevati profitti; b) un boom creditizio che incoraggia operatori, investitori, intermediari ad assumere una maggiore leva finanziaria (leveraging); c) un picco di euforia e speculazione, caratterizzato dall’accumulazione di rapidi guadagni; d) un punto di rottura, dovuto a fattori diversi come un aumento dei tassi d’interesse o un crack inatteso; e) il panico, la repentina riduzione della leva finanziaria (deleveraging), la corsa verso  la liquidità.

La descrizione suona familiare? Dovrebbe esserlo, perché si applica a pennello, così come alle molte crisi del passato, anche a quella attuale dei mutui subprime.

Fin qui, non c’è nulla di nuovo. Già prima di Kindleberger, altri famosi economisti come Irving Fisher nel 1933 e Hyman Minsky nel 1977 avevano identificato questo ciclo di rapida espansione (boom) seguito da un drammatico collasso (bust) come tipico delle crisi finanziarie.

Dove il lavoro di Kindleberger si fa, per noi, più interessante, è in un paio di conclusioni a cui arrivano la sua dettagliata ricostruzione storica e l’analitico confronto degli episodi del passato. In primo luogo, ciò che ha fatto la differenza nel determinare la lunghezza e la gravità delle depressioni economiche che sono inevitabilmente seguite ai boom e bust finanziari è il ruolo giocato dalle banche centrali.

Della intrinseca fragilità degli istituti di credito – impegnati ad assolvere un ruolo vitale nello sviluppo economico convertendo passività a breve termine in asset a lungo termine – ci si era accorti già diversi secoli fa. Le banche centrali nacquero proprio nel tentativo di ovviare all’evidente instabilità del mercato creditizio.

Si trattò di un’invenzione di straordinario successo. Già attorno al 1825, scrive Kindleberger, in Inghilterra ci si era di fatto accordati su una divisione del lavoro così congegnata: “I banchieri privati di Londra e delle province finanziavano i boom, la Banca d’Inghilterra finanziava le crisi.”

Naturalmente, restava il problema di come evitare che l’intervento pubblico – di bust in bust – incoraggiasse comportamenti irresponsabili. Per il filosofo Herbert Spencer, una volta imboccata la soluzione pietosa del soccorso ai meno avveduti e meritevoli, non c’era rimedio: “Il risultato ultimo dell’atto di proteggere gli uomini dagli effetti della loro follia non può che essere quello di popolare il mondo di folli” (The ultimate result of shielding man from the effects of folly is to people the world with fools).

Per fortuna a prevalere fu l’opinione – meno radicale – del pensatore, saggista e giornalista inglese Walter Bagehot (vedi immagine qui sotto), che nel libro Lombard Street del 1873 diede rispettabilità teorica, oltre che pratica, al ruolo della banca centrale come prestatrice di ultima istanza (lender of last resort).

Era evidente infatti che al rischio di consentire agli istituti di credito di indulgere nell’azzardo morale (moral hazard) si contrapponeva l’altro rischio del completo collasso dell’attività economica: nella corsa ad accaparrare liquidità, che caratterizza le crisi di panico, ogni partecipante al mercato – nel tentativo di salvare se stesso – finisce per contribuire alla rovina di tutti.

La soluzione di compromesso ideata da Bagehot fu di sostenere che le banche centrali, in una crisi, dovevano rendere disponibile tutta la liquidità che serviva, ma a un tasso penalizzante. Quanto alla tempistica degli interventi, ci si poteva solo affidare alla discrezionalità, ma in modo – come riassume Kindleberger – “da indugiare a sufficienza, dopo un crash, così da consentire alle imprese insolventi di fallire, ma non tanto a lungo da permettere alla crisi di estendersi anche alle imprese sane, bisognose di liquidità.” Il central banking, come si può desumere, è un’arte – non solo una scienza.

Il fallimento delle banche centrali

Ora, la questione è: se teoria e pratica del ruolo delle banche centrali erano già andate chiarendosi ai tempi di Bagehot, e se – come sostiene Kindleberger – è l’azione delle banche centrali a decidere in primo luogo della durata e gravità di una crisi finanziaria, perché accadde un disastro come la Depressione degli anni ’30?

La risposta, sempre di Kindleberger, è che durante la crisi del ’29 e la Grande Depressione che ne seguì, non ci fu nessuno che si fece carico, a livello internazionale, del compito di prestatore di ultima istanza. Se la depressione fu così “ampia, profonda e prolungata” fu perché la Gran Bretagna, “esaurita dalla guerra e vacillante dopo l’abortita ripresa degli anni ’20, fu incapace di assumere quel ruolo” (che le era storicamente toccato in quanto prima potenza economica da oltre un secolo), mentre gli Stati Uniti (paese guida emergente, con una banca centrale costituitasi da appena un quindicennio) furono “indisponibili” a ereditarlo.

Il fallimento del central banking fu totale. Non solo non ci fu un prestatore di ultima istanza a livello internazionale, ma, scosse dalle crisi valutarie che nel 1931 colpirono prima la Germania e poi la Gran Bretagna, molte banche centrali corsero a convertire le loro riserve valutarie in oro, così contribuendo a far ulteriormente contrarre la liquidità e a rendere ancora più terribili le pressioni deflative.

Il ’29 non fu l’unico caso di fiasco delle banche centrali, anche se ne è certo il più famoso. Lo stesso accadde nel 1873, e anche in quel caso la crisi economica che ne seguì fu così profonda e protratta da essere chiamata “Grande Depressione.”

La storia, d’altra parte, presenta episodi di segno opposto, come la crisi finanziaria del 1844, quando la Banca d’Inghilterra sospese la legislazione bancaria vigente al fine di rendere disponibile tutta la liquidità necessaria agli istituti che ne facevano richiesta e che erano in grado di offrire buone garanzie collaterali.

Il ’29, dunque, non è il paradigma di tutte le crisi – come oggi si viene continuamente sollecitati a credere. E’, piuttosto, il paradigma di quelle che finirono nel peggiore dei modi possibili per il mancato assolvimento da parte delle banche centrali del più esclusivo e delicato dei compiti loro assegnati.

La storia infatti dimostra – scrive Kindleberger – che “quando non c’è un prestatore di ultima istanza, come nel 1873, 1890 e 1931, la depressione che segue una crisi finanziaria è lunga e protratta, a differenza di altri episodi in cui il prestatore invece c’è, e la crisi passa come un temporale estivo.”

A quale di questi due generi appartenga la crisi in cui siamo oggi immersi mi pare facile sostenerlo: il copione che le banche centrali stanno seguendo – a partire dalla Federal Reserve – non è certo quello del ’29. E’ l’esatto contrario.

Nuove frontiere per gli investimenti

Dicevo che, a mio avviso, c’è anche una seconda conclusione interessante in Manias, Panics and Crashes. Si trova condensata nella seguente citazione: “Le conseguenze di una depressione dipendono non solo da come la crisi viene gestita ma da una miriade di altre variabili, in particolare da quei fattori che condizionano gli investimenti di lungo periodo: crescita della popolazione, esistenza di una nuova frontiera, impulsi derivanti da una guerra, esportazioni, la presenza o l’assenza di innovazioni che non sono già del tutto sfruttate, e cose simili.”

Se si pensa agli anni ’30, si coglie appieno il senso delle osservazioni di Kindleberger. Quel periodo fu segnato dall’adozione di misure protezionistiche e dal crollo del commercio internazionale, dalla chiusura degli stati all’interno delle proprie anguste frontiere e dalla deriva verso la guerra. Fu solo l’escalation dei preparativi bellici che, a partire dalla fine di quel decennio, agì da stimolo agli investimenti e mobilitò anche la ricerca e l’innovazione – producendo come suo massimo e tragico frutto la bomba atomica. La Grande Depressione fu superata, ma al costo orrendo di una carneficina e una barbarie senza precedenti.

E oggi? Ci sono nuove frontiere e innovazioni non pienamente sfruttate che possono motivare l’economia globale a lasciarsi alle spalle gli effetti depressivi del ciclo di boom e bust che abbiamo appena sperimentato? Penso di sì.

In estrema sintesi, mi limito a citare tre processi, a diversi stadi evolutivi, in grado di tornare rapidamente a catalizzare l’innato spirito di iniziativa e la disponibilità ad assumere rischi, che caratterizza la nostra specie: l’emersione dalla povertà e la modernizzazione, in particolare del continente asiatico; Internet, lo sviluppo delle comunicazioni e la progressiva digitalizzazione del sapere, con ricadute formidabili sul ritmo del progresso scientifico e tecnologico; la transizione verso lo sfruttamento di fonti energetiche rinnovabili e una civiltà ecosostenibile.

Non sono certo in grado di sapere come finirà la crisi in cui ci troviamo. Né posso sostenere che l’interpretazione delle crisi passate offerta da Kindleberger sia l’unica possibile, anche se a me pare convincente. In definitiva, ho solo cercato di mostrare che se assumiamo come criteri discriminanti tra una crisi che diventa una Grande Depressione e una crisi che viene superata “come un temporale estivo” i due fattori enunciati in Manias, Panics and Crashes, non c’è dubbio. Sia per quel che riguarda la gestione da parte delle banche centrali del loro ruolo di prestatrici di ultima istanza, sia per quel che concerne la presenza di stimoli agli investimenti di lungo periodo, oggi non siamo ridotti “come nel ‘29”. Ne siamo, piuttosto, agli antipodi.

Recessione, azioni e l’ingannevole buon senso

Questi sono tempi grami per molti investitori, costretti a convivere con minusvalenze, incertezze e paure. Se c’è un aspetto chiaro della situazione, che sembra poter servire da fondamento a qualche scelta di buon senso, si tratta purtroppo del fatto che la congiuntura economica sta peggiorando. Su questo proprio non c’è dubbio.

Basta guardare al dato sull’occupazione americana di novembre, diffuso venerdì. La perdita di 533 mila posti di lavoro in un solo mese è il risultato peggiore dal dicembre 1974. Nessuno si aspettava una simile débacle. Continua a leggere…

Un anno di recessione americana

E così il National Bureau of Economic Research (NBER), l’organismo incaricato di stabilire i punti di svolta del ciclo economico americano, ha finalmente pronunciato il suo verdetto e dichiarato che la recessione in corso è iniziata esattamente un anno fa, a dicembre del 2007. Pochi, a quel tempo, l’avevano capito.

Non l’aveva compreso la Federal Reserve, che, come  già ho raccontato nel post Recessioni, bear market e castelli in aria, un anno fa di questi tempi aveva da poco pubblicato un aggiornamento trimestrale delle sue stime macroeconomiche in cui tagliava la previsione di crescita per il 2008 all’1,8%-2,5% citando il deterioramento dei mercati della casa e del credito come motivi di preoccupazione. Ma in un’audizione di fronte al Congresso, il presidente Ben Bernanke si diceva convinto che la crescita, per quanto rallentata, sarebbe rimasta positiva a cavallo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008. Dopodichè, aggiungeva, “pensiamo che a partire dalla primavera (ndr, 2008), a mano a mano che i problemi creditizi si risolvono e, come speriamo, il mercato della casa comincia a toccare il fondo […] l’economia si riprenderà.”

Fallimenti convenzionali

Neppure gli esperti del settore privato, collettivamente considerati, se la sono cavata meglio. Per valutarne la performance sono andato a spulciare i dati raccolti dal Wall Street Journal nel sondaggio che svolge mensilmente tra oltre una cinquantina dei più noti economisti americani.

A dicembre dello scorso anno la probabilità che veniva mediamente assegnata a uno scenario di recessione era del 38%, in lieve aumento rispetto ai mesi precedenti. Solo 5 economisti su 54 ritenevano che i rischi fossero superiori al 50%: Kathleen Camilli di Camilli Economics, Ram Bhagavatula di Combinatrics Capital, David Rosenberg di Merrill Lynch, Richard Berner & David Greenlaw di Morgan Stanley, Paul Kasriel di Northern Trust.

Le stime cambiarono di poco nei mesi immediatamente successivi e lievitarono verso il 60% solo a marzo, per rimanere poi stabili a quel livello fino alla fine dell’estate. A settembre, gli economisti che calcolavano una probabilità di recessione superiore al 50% erano 27 su 55, all’incirca la metà. Chi si fosse affidato all’Economic Forecasting Survey del Wall Street Journal o a qualsiasi altra opinione di consenso diffusa dai media finanziari sarebbe stato indotto a pensare che la situazione era ancora molto incerta. Sappiamo ora che, in quel momento, la recessione era già in corso da 10 mesi.

La consapevolezza della gravità della situazione economica si è diffusa e radicata presso gli “esperti” solo a ottobre, dopo il fallimento di Lehman Brothers e il collasso delle Borse. Il campione del Wall Street Journal, nel sondaggio di ottobre, stimava una probabilità di recessione dell’89%. Tutti, a quel punto, avevano aperto gli occhi, e non serviva affatto un dottorato di ricerca in economia in un’università dell’Ivy League e magari l’incentivo di uno stipendio a sette cifre per capire che la recessione, come da allora si è cominciato a ripetere ossessivamente, sarebbe stata lunga e profonda.

L’ultimo sondaggio del Wall Street Journal dice che l’economia americana continuerà a contrarsi fino alla metà del 2009 e che una flebile ripresa comincerà a manifestarsi nel secondo semestre. Visti i precedenti, è giusto coltivare un certo scetticismo.

Gli esperti, in genere, non sanno prevedere il futuro. E anche quando hanno delle abilità superiori alla media, queste sono messe spesso sotto scacco da altre, conflittuali esigenze, come quella di compiacere particolari gruppi di interesse o di evitare di distaccarsi troppo dall’opinione comune, finendo per esporsi a rischi indesiderabili. Come disse John Maynard Keynes, col consueto acume, “la saggezza del mondo insegna che è cosa migliore per la reputazione fallire in modo convenzionale, anziché riuscire in modo non convenzionale.”

L’Investitore Accorto e la recessione: in cerca d’illuminazione

E l’Investitore Accorto, in questa complessiva débacle, come se l’è cavata? Io, naturalmente, come spesso ripeto, non sono un analista né un economista. Sono un giornalista, che si sforza di capire e di raccontare la realtà dopo aver sottoposto le analisi altrui a un esame critico e libero da secondi fini. Nella mia scarsa “saggezza del mondo”, l’idea di correre, così facendo, dei rischi reputazionali non mi sfiora. E questo mi ha aiutato. Comunque, non spetta a me fare bilanci. Della qualità del mio lavoro giudichino i lettori. Quello che segue è un breve sunto di come, nell’ultimo anno, ho raccontato la crisi dell’economia americana, che ha poi trascinato con sé il resto del mondo.

A settembre del 2007, nel post L’economia Usa e lo spettro della recessione, tracciavo un quadro ancora in chiaroscuro. Notavo come gli indicatori anticipatori del ciclo lasciavano al momento presagire “un periodo di bassa crescita, ma non il baratro della recessione.” E aggiungevo: “C’è chi pensa che i prezzi medi delle case siano destinati a flettere del 20-30% prima che il mercato tocchi il fondo. La crisi, cioè, è ancora agli inizi. Quello che è già evidente è che il collasso del settore immobiliare è il più grave dalla depressione degli anni ’30. Che questo basti a gettare la poderosa economia Usa nella recessione non è scontato. Per ora le famiglie americane hanno cominciato a stringere i cordoni della borsa ma non al punto da mandare in stallo la crescita.”

Il 21 ottobre del 2007, nel post Mini-crollo a Wall Street e prospettive di Borsa, il tono già si era fatto più allarmato. Davo la parola al bravissimo Paul Kasriel, chief economist di Northern Trust (come abbiamo visto, uno dei 5 su 55 che nel sondaggio di dicembre del Wall Street Journal avrebbero considerato probabile una recessione) e ne sposavo la conclusione che “una recessione negli Usa non può ancora essere data per certa. Ma le probabilità che sia evitata non sono poi così alte come molti pensano.”

Il 22 novembre del 2007, nel post Un bear market azionario è forse alle porte?, osservavo come “i rischi di recessione[…] sono in aumento,” e paventavo l’avvio di un bear market azionario. “Un quadro tecnico e fondamentale in peggioramento, e due enormi bolle – quella della casa e quella del credito – che hanno appena iniziato a sgonfiarsi, mi pare che rendano più credibile, almeno per ora, mettere in conto che le soglie di agosto non reggano a lungo.”

Agli inizi di gennaio, nel post Perché una recessione negli Usa è probabile, tracciavo un quadro ormai cupo della congiuntura e concludevo così: “Se, come appare dunque sempre più probabile, una contrazione dell’economia americana sarà nei prossimi mesi difficile da evitare, quale potrà essere l’impatto sull’Europa? […] E’ facile notare la stretta correlazione tra le economie americana ed europea negli ultimi due cicli, con la funzione di traino (sia nelle fasi ascendenti che in quelle discendenti) che gli Usa hanno storicamente esercitato. La conclusione, insomma, è che se gli Usa sono in procinto di cadere in recessione, la crescita europea potrebbe in pochi mesi squagliarsi come neve al sole.” (ndr, l’economia europea cominciò a contrarsi tre mesi dopo).

A metà gennaio, nel post Ci salverà la Federal Reserve?, citavo Paul Krugman e le sue sconsolate considerazioni sull’impotenza cui il crollo del mercato immobiliare condannava la politica monetaria della Federal Reserve. “E’ mai possibile che la Fed riesca a tagliare i tassi al punto da creare un altro boom immobiliare? […] E se non è possibile, quanto può davvero fare la Fed per aiutare l’economia?” si chiedeva Krugman. E io così osservavo: Può fare poco, sembra. Sia per sostenere i mercati che l’economia. Ma questa è la storia di tutte le bolle. Sono, purtroppo, eccezionali: nell’euforia che generano, e nelle depressioni che lasciano al loro passaggio.”

Di nuovo a metà gennaio, nel post Buffett, Gross e gli schemi di Ponzi delle banche, davo spazio alle amare considerazioni di Warren Buffett e Bill Gross sull’enormità della crisi finanziaria che incombeva. “La conclusione di Gross è che il sistema bancario è miseramente sottocapitalizzato per far fronte al collasso di tutti questi ‘schemi di Ponzi.’ Alcuni istituti salteranno, altri saranno ridimensionati. La forzata contrazione nell’attività di credito (credit crunch) renderà inevitabile una recessione. Il ‘sistema bancario ombra’ scomparirà e chi sopravvivrà – grazie anche agli energici interventi di politica monetaria e fiscale che le autorità metteranno in campo – […] si ritroverà in un sistema finanziario diverso, con nuovi rischi ma, sicuramente, meno effetto leva. […] Dunque, riassumendo, per Buffett il fondo della crisi è ancora lontano e ci vorranno anni per completare il lavoro di pulizia. Per Gross è scoppiata una bolla epocale fatta di speculazioni e schemi piramidali che costringerà a ridisegnare il sistema finanziario americano e globale. Per ogni investitore accorto non può che essere tempo di paziente attesa e grande cautela. Alla fine, per chi avrà saputo aspettare, le opportunità si ripresenteranno.”

A metà febbraio, nel post Recessione, Borse e ottimismo al Sole 24 Ore, polemizzavo con la rubrica “Settimana finanziaria” del Sole 24 Ore, che quella settimana annunciava, nel suo titolo, “Spiragli di ottimismo” sia per la congiuntura che per le Borse. L’autore, Walter Riolfi, dichiarava apertamente il suo “scetticismo” sulla possibilità di un’imminente recessione negli Usa. Faceva appello a una serie di dati macroeconomici diffusi in quei giorni, a suo giudizio “superiori alle attese”, e ai commenti di Ben Bernanke che aveva previsto una congiuntura di bassa crescita nel primo semestre seguita da un “andamento più sostenuto” nella seconda parte dell’anno. La mia critica era piuttosto dettagliata e in gran parte basata sulle analisi di Paul Kasriel, secondo il quale, scrivevo, “gli Usa sono con ogni probabilità già entrati in recessione.” Inoltre, “a differenza che nel 2001, quando furono gli investimenti delle imprese a mettere in ginocchio l’economia, questa volta saranno i consumi delle famiglie a farlo – determinando una crisi di più difficile soluzione.” Chiudevo così: “Spiragli di ottimismo risulta a me difficile vederne. Una recessione negli Usa resta molto probabile ed è forse già iniziata.”

Due giorni dopo tornavo sulla questione nel post Qualche grafico sulla crisi dell’economia Usa. Armato di nuovi e, a mio giudizio, ancor più persuasivi argomenti, scrivevo: “Appare evidente come solo l’export regga ancora. Per il resto, mercato della casa, consumi delle famiglie, servizi e occupazione sono o stanno entrando in una crisi sempre più cupa.”

Ai primi di maggio prendevo di petto, nel post Economia Usa, i rischi di recessione restano alti, l’ottimismo che si era diffuso tra analisti, media e mercati in conseguenza dell’effimera azione di stimolo esercitata dalla manovra fiscale introdotta dall’amministrazione Bush. Scrivevo così: “Sarà per il rally delle Borse, risalite del 15% dai minimi di marzo facendo segnare ad aprile il miglior risultato mensile dal 2003, sarà per un po’ di dati macroeconomici dalle apparenze rassicuranti, ma in queste due ultime settimane si è diffuso un ottimismo sulle prospettive dell’economia americana che mi pare ingiustificato. […] L’economia Usa, nonostante il sostegno che viene dal dollaro debole e da una domanda estera ancora tonica, resta un malato in via di peggioramento. […] Resto dell’avviso che anche i mercati azionari, nelle prossime settimane, esaurito lo spiritato bear market rally dell’ultimo mese e mezzo, torneranno a rammentarcelo.” (ndr, i mercati azionari volsero di nuovo al ribasso a partire dalla settimana seguente)

Pochi giorni dopo, l’11 maggio, nel post Tra bear market e Bear Stearns, dove va la Borsa?, citavo il leading index dell’ECRI (uno dei più prestigiosi centri privati di ricerca economica), secondo il quale le prospettive restavano “recessive”. E davo la parola ai fondatori dell’ECRI, Lakshman Achuthan and Anirvan Banerji: “L’economia sta transitando verso la recessione. Implica che almeno una delle due ultime stime trimestrali sul Pil, che sono state lievemente positive, e forse tutte e due, saranno riviste e corrette in dati di segno negativo entro l’anno prossimo. Oppure, vedremo uno o due trimestri di crescita negativa del Pil nel corso del resto dell’anno.” (ndr, entrambe le predizioni si sono poi avverate). “Mentre l’accertamento definitivo della recessione potrebbe dover attendere almeno un altro anno, resta il fatto che i nostri indicatori anticipatori non sono mai stati così deboli se non nel corso di una recessione.”

A metà maggio, nel post Mercato Usa della casa e prospettive del ciclo, citavo un articolo di Martin Feldstein, allora presidente del NBER, titolato “Ingannevoli statistiche sulla crescita offrono falso conforto”. L’articolo – riassumevo – “mette in evidenza come, dall’inizio dell’anno, l’economia americana ha cominciato a contrarsi un po’ in tutti i settori: è in calo l’occupazione (che ha toccato il suo picco a novembre), sono in diminuzione i redditi, continua a crollare il mercato della casa, scendono le vendite al dettaglio, flette la produzione industriale.” Il dato sul Pil del primo trimestre (+0,6%) andava trattato come una “statistica ingannevole che rischia di indurre un infondato senso di sicurezza, un po’ in tutti ma in particolare tra le autorità politiche e monetarie”. La spirale al ribasso dei prezzi delle case costituiva un gravo rischio per la ricchezza delle famiglie e il capitale delle istituzioni finanziarie. “Potrebbe produrre la recessione più severa e più duratura tra quelle degli ultimi svariati decenni.” Nella seconda parte citavo Kasriel e la sua analisi degli effetti del collasso del mercato immobiliare sulla solidità patrimoniale delle banche. Diceva Kasriel: “Anche se la Fed continuerà a prestare liquidità a basso costo al sistema finanziario, la domanda delle banche per l’offerta della Fed sarà debole dato che si troveranno prive del capitale per sostenere il credito al settore privato.” Per Kasriel erano ormai inevitabili una “grave recessione” nel 2008 e una “stagnazione destinata a protrarsi almeno per tutto il 2009”.

Il 9 giugno, nel post Informazione, rumore e scelte d’investimento, cercavo di portare un po’ di chiarezza su una serie di dati sul mercato del lavoro che erano stati oggetto di contraddittorie interpretazioni e che avevano mandato in fibrillazione le Borse, spingendole prima con forza al rialzo e poi con ancora maggiore prepotenza al ribasso. Concludevo così la mia analisi: “Le statistiche economiche di questa settimana sono non solo compatibili tra loro, ma anche coerenticon la gran parte delle evidenze degli ultimi mesi, provenienti dai più diversi ambiti dell’economia americana. Assieme, compongono un quadro che consente di affermare – per ora in modo probabilistico e senza certezze definitive – che una recessione, negli Usa, è già in corso da qualche mese.”

Il 25 luglio, nel post L’incredibile rally dei titoli finanziari, definivo insostenibile il bear market rally in corso e della congiuntura economica parlavo nei seguenti termini: “L’avvitamento della congiuntura che, in un anno elettorale, le autorità stanno tentando di combattere con tutti i mezzi – tra cui il condizionamento psicologico delle aspettative – avanza inesorabile. Lo dicono molti dati, ma tra i più chiari e affidabili ci sono il Leading Economic Indicator curato dal Conference Board (da noi noto come superindice economico) e il Leading Index dell’ECRI.”

Infine, il 13 agosto, nel post Recessioni, bear market e castelli in aria, ironizzavo un po’ sull’ostinazione con cui i più sembravano voler continuare a negare l’evidenza di una recessione in corso. Molta gente – scrivevo citando Twain“usa le statistiche come un ubriaco i lampioni: più per sostegno che per illuminazione.”

Ora che il NBER ha posto fine alle diatribe sulla possibile recessione del 2008, certificando che c’è, c’è stata e che ha avuto inizio – oibò – nel 2007, il motto di Twain resta, mi pare, la morale migliore di questa storia.

Recessioni, bear market e castelli in aria

Di come funzionino l’economia e i mercati finanziari molto ci sfugge. Qualcosa, però, si sa, come ad esempio che seguono dei cicli. A un’espansione fa seguito una recessione e dopo un bull market viene un bear market, un po’ come al giorno segue la notte. La regolarità, s’intende, non è la stessa. Economie e mercati sono espressioni della socialità umana, fenomeni storici segnati da un’intrinseca imprevedibilità. D’altra parte, non sono neppure totalmente impenetrabili, irrazionali e caotici. Ci sono delle costanti, magari instabili, magari non precisamente misurabili, che comunque ci possono aiutare a orientarci. E tra queste, la ciclicità è una delle più evidenti.

Osserviamo, per fare un esempio, il grafico che segue, a cura della Federal Reserve Bank di San Francisco. Mostra l’andamento del Pil americano dal 1946 all’inizio del 2008. Le fasce in grigio indicano le recessioni.

Negli ultimi 62 anni si sono alternate 11 fasi espansive e 10 recessioni. Nell’economia in rapida crescita che ha caratterizzato l’ultimo paio di secoli di storia umana, le espansioni durano molto più a lungo delle recessioni. E infatti, dal 1946 a oggi, negli Usa, le prime si sono protratte in media per 57 mesi, le seconde solo per 10. Sommando, si ottiene la durata media del ciclo economico americano, che è stata di 67 mesi, ossia poco più di 5 anni e mezzo.

Si tratta, come accennavo, di un ciclo piuttosto irregolare. Le recessioni oscillano tra i 6 e i 16 mesi (la più breve fu quella del 1980, le più lunghe, alla pari, quelle del 1973-75 e del 1981-82). Mentre le espansioni hanno avuto una durata variabile tra i 2 anni (1958-1960) e i 10 anni (1991-2001).

Per prevedere una recessione, dunque, non basta guardare il calendario!

Un esperimento mentale

D’altra parte, avere un’idea del ciclo economico, pur con tutta la sua instabilità, e delle sue dimensioni medie ci può essere d’aiuto. Per capirlo, proviamo a fare un piccolo esperimento mentale.

Immaginiamo di trovarci al settimo anno di un’espansione che ha fatto seguito a una delle recessioni più brevi della storia (otto mesi), la quale a sua volta è venuta dopo un’altra fase di crescita addirittura decennale, la più lunga della storia (per lo meno dal dopoguerra a oggi).

Immaginiamo anche che questi 204 mesi (17 anni) di crescita inframmezzati da solo otto mesi di una scialba contrazione (ricordiamolo, il rapporto medio tra espansioni e recessioni è di 57 a 10, non di 204 a otto) siano stati il frutto non tanto di rivoluzioni tecnologiche e “miracoli” di produttività senza precedenti, ma, in misura prevalente, di un’economia drogata dall’eccessiva disponibilità di credito (e conseguente accumulazione di debito).

A questa lunga onda espansiva, va infatti aggiunto, si sono accompagnate la più grande bolla azionaria della storia, la più grande bolla immobiliare della storia, e infine la più grande bolla del credito della storia – tutti fenomeni che hanno fortemente squilibrato e indebolito l’economia oggetto del nostro esperimento mentale.

Immaginiamo, infine, che i prezzi del petrolio aumentino del 600%, superando a spron battuto quei livelli che in passato hanno invariabilmente provocato delle crisi economiche. E che contestualmente, una dopo l’altra, scoppino tutte le bolle, provocando una corsa a vendere asset, ridurre i debiti, contrarre il credito.

A questo punto, dopo 204 mesi di espansione, interrotti solo da una breve pausa di 8 mesi, gli indicatori di crescita volgono bruscamente al peggio, scendendo da tassi annui di crescita superiori al 4% fino in prossimità dello zero.

Siamo alla fine dell’esperimento. Voi, a questo punto, su quale esito scommettereste? Recessione, sì o no?

La conclusione, per ora, sono costretto a tirarla da solo. Io scommetterei decisamente sulla recessione, e mi viene da aggiungere che non vedo come una persona ragionevole potrebbe fare altrimenti. Nelle previsioni, ben inteso, la certezza non esiste. Ma in base al quadro che ho illustrato, le probabilità sembrano troppo sbilanciate a favore dell’esito negativo per non puntare lì le proprie fiches.

Le previsioni della Federal Reserve

Bene, come penso chiunque avrà capito, quella che ho proposto di immaginare è in realtà la situazione in cui versa – da un po’ di tempo – l’economia americana.

Il mondo dell’economia e della finanza pullula di persone ricche di talento. Qualcuno, immaginandolo, penserà: beh, certo non sarà sfuggito che l’economia Usa è già in recessione o sta per cadervi. I più esperti l’avranno capito e fatto capire da un pezzo.

Vediamo se è davvero così, facendo ritorno a poco più di un anno fa e prendendo le mosse dalla Federal Reserve, la banca centrale americana, che è un concentrato di competenze e materie grigie orchestrato dal presidente Ben Bernanke, uno degli economisti più bravi al mondo.

Nel maggio dell’anno scorso gran parte degli ingredienti che ho illustrato nel mio esperimento mentale si erano già in qualche misura manifestati. Il Pil, ad esempio, aveva registrato una fase di crescita particolarmente debole nel quarto trimestre del 2006. Il prezzo del petrolio non si era certo ancora moltiplicato di 7 volte da quei 20 dollari a barile che quotava alla fine dell’ultima recessione americana, nell’autunno del 2001, ma aveva sfiorato gli 80 dollari: pur sempre un’impennata del 300%. Il mercato della casa era già in brusca contrazione e la crisi dei mutui subprime era sotto gli occhi di tutti.

Io, nel mio piccolo, avevo allertato i miei lettori degli evidenti pericoli di crisi economica (non solo in America), di un crollo degli utili e di un pericoloso bear market azionario in tre post in rapida successione, che forse vale la pena rileggere: “Utili record e utili normalizzati”, “Analisi strategica del ciclo” e “La prima bolla davvero globale”.

In quello stesso maggio, a Chicago, Bernanke tenne un discorso interamente dedicato all’analisi dei problemi nel mercato dei mutui subprime.

Le conclusioni, in sostanza, erano le seguenti:
– non ci sono segni di spillover, ossia di ricadute negative, sulle banche. I gruppi creditizi coinvolti sono operatori marginali, “in gran parte” neppure coperti dall’agenzia federale che assicura i depositi.
– i fondamentali economici dovrebbero sostenere la domanda di case. La crescita dei posti di lavoro e dei redditi dovrebbe garantire la sostenibilità dell’esposizione debitoria delle famiglie. Pertanto, la situazione critica nel settore dei mutui subprime avrà effetti “limitati” sul mercato immobiliare. La stragrande maggioranza dei mutui continuano a performare “bene.”

Come oggi sappiamo, queste conclusioni non avrebbero potuto essere più fuorvianti e sbagliate.

In quel periodo, la Federal Reserve faceva riferimento a un quadro di stime macroeconomiche (reso pubblico a febbraio) che prevedeva una crescita del Pil del 2,5%-3,0% nel 2007 e del 2,75%-3,0% nel 2008, un tasso di disoccupazione stabile al 4,5% e un’inflazione poco sopra il 2% nel 2007 ma in calo l’anno successivo.

Seguire l’evoluzione di queste stime è istruttivo.

A luglio, nel tradizionale rapporto semestrale consegnato al Congresso, la Fed si fece un po’ più cauta nella sua previsione di crescita per l’anno corrente (2,25%-2,5%) ma conservò l’assunto che le cose sarebbero andate meglio nel 2008, quando il Pil sarebbe cresciuto del 2,5%-2,75% e l’inflazione sarebbe tornata sotto controllo.

In merito a quest’ultimo punto, la Fed notava in particolare come “alcuni dei fattori che hanno esercitato pressioni sui prezzi in anni recenti già hanno cominciato ad attenuarsi, o sembrano comunque in procinto di farlo. L’andamento dei prezzi dell’energia e delle altre materie prime, implicito nei contratti future, suggerisce che le pressioni sull’inflazione core da essi derivanti dovrebbero diminuire.”

Di conseguenza, conclusero allora diversi analisti di spicco, tra cui ad esempio quelli di Goldman Sachs, era ragionevole attendersi che i tassi a breve (i Fed funds) restassero invariati al 5,25% per un bel po’.

Giusto? No, patetico wishful thinking, verrebbe da commentare oggi, brandendo senza misericordia il nostro senno di poi. In realtà, la crescita stava per implodere, l’inflazione per esplodere e i tassi erano in procinto di essere tagliati, in rapida successione tra settembre e aprile, dal 5,25% al 2%.

Da lì in poi – novità introdotta da Bernanke – le stime macroeconomiche della Fed vennero rese pubbliche a cadenza trimestrale, anziché semestrale. Continuiamo a seguirle.

A novembre la banca centrale tagliò di nuovo la previsione di crescita per il 2008 all’1,8%-2,5%, citando il deterioramento dei mercati della casa e del credito come motivi di preoccupazione.

In un’audizione di fronte al Congresso, i cui contenuti furono in genere descritti dai media come “deprimenti” (gloomy), Bernanke, pur non eludendo un’analisi dei rischi, si disse comunque convinto che la crescita, per quanto rallentata, sarebbe rimasta positiva a cavallo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008. Dopodichè, aggiunse, “pensiamo che a partire dalla primavera (2008, ndr), a mano a mano che i problemi creditizi si risolvono e, come speriamo, il mercato della casa comincia a toccare il fondo […] l’economia si riprenderà.”

Sappiamo ora che nel corso dell’ultimo trimestre del 2007 la crescita del Pil americano fu negativa (-0,2%). A marzo di quest’anno, poi, la Fed era alle prese col salvataggio di Bear Stearns e dopo di allora i problemi non si sono affatto risolti, anzi. A luglio c’è stato il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac e giusto ieri JP Morgan ha annunciato nuove perdite citando un marcato peggioramento degli spread e delle condizioni del mercato del credito nell’ultimo mese (novità che non avrebbe dovuto sorprendere chi, ad esempio, ha seguito la recente impennata nelle quotazioni dei credit default swaps, strumenti derivati utilizzati per assicurarsi contro i rischi di insolvenza).

E’ inoltre facile osservare che il mercato della casa non ha per ora dato alcun cenno di voler toccare il fondo (ne riparlerò più avanti) e che gli indicatori di crescita, dopo un effimero rimbalzo nel secondo trimestre dell’anno, dovuto ai 170 miliardi di dollari di incentivi fiscali approvati in fretta e furia dal Congresso e dalla Casa Bianca all’inizio dell’anno, sono tornati negli ultimi tempi a volgere al peggio (anche di questo parlerò più diffusamente nel seguito di questo post).

A posteriori, gli annunci novembrini di Bernanke, per quanto etichettati allora come “deprimenti”, appaiono contrassegnati da un irrealistico ottimismo.

A febbraio, col nuovo aggiornamento trimestrale delle previsioni macro, la Fed riduceva la stima del Pil per il 2008 all’1,3%-2,0%. E un ennesimo, più drastico taglio è stato annunciato a maggio, questa volta a una forchetta dello 0,3%-1,2%. Vedremo, tra pochi giorni, quali sorprese ci riserveranno le stime di agosto.

Gestione dei rischi, statistiche e lampioni

Un osservatore disincantato, a questo punto, potrebbe intravedere nella storia che ho ricostruito un filo rosso di continuità.

Esclusa la sistematica imperizia, verrebbe naturale supporre una tecnica di gestione dei rischi (penso a rischi di feedback negativi e di reputazione) così strutturata: di fronte all’elevata probabilità di un accadimento sgradevole e potenzialmente traumatico e destabilizzante, negare finché è possibile farlo senza distruggere la propria credibilità, ammettere quello che non può più essere negato, ma prestando bene attenzione a condire ogni annuncio negativo con delle rassicurazioni positive di prevalente portata (ad esempio, “stiamo attraversando un trimestre, al massimo due, di congiuntura bassa, ma già si vede la svolta e l’anno prossimo le cose andranno progressivamente sempre meglio”).

Forse, in questo approccio, ci sono diverse cose da salvare. Ma non dal punto di vista dell’investitore, il cui interesse non è quello di coltivare illusioni, ma di interpretare lucidamente la realtà.

In una seconda parte di questo post cercherò di illustrare altri esempi di “castelli in aria”, costruiti un po’ dovunque, in America come qui in Italia, da esponenti di diverse categorie (fonti di insidie costanti per un investitore) tra le quali alberga spesso l’interesse a negare, per quanto possibile, finché possibile, l’approssimarsi o l’instaurarsi di una recessione: analisti finanziari, esponenti di governo, amministratori di aziende quotate, giornalisti di media vicini alle istituzioni.

Cercherò anche di mostrare come alcune apparenti “contraddizioni” e ambiguità statistiche che, in qualche misura, continuano a velare l’evidenza di una recessione che dall’America si sta ormai estendendo all’Europa siano facilmente decrittabili, solo che lo si voglia.

Purtroppo, tale lavoro interpretativo è attivamente ostacolato da un fenomeno che già aveva scatenato l’arguzia di uno straordinario osservatore delle vicende umane. Diceva Mark Twain: “La gente di solito usa le statistiche come un ubriaco i lampioni: più per sostegno che per illuminazione”. Certa gente, mi permetto di aggiungere, in modo particolare.

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