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La prevedibile crisi del mercato immobiliare

Del mercato immobiliare mi sono occupato in più occasioni e in particolare, per quel che attiene al contesto italiano, nei due post Il triste autunno del mercato della casa e Casa, la bolla si sgonfia. Entrambi datano ormai a circa un anno fa, anche se mi pare che siano invecchiati bene, mantenendo un certo valore nel tempo. In essi cercavo di dimostrare una tesi di fondo, e cioè che i mercati immobiliari di molti paesi, Italia compresa, dopo aver raggiunto una condizione di estrema sopravvalutazione, avevano iniziato un percorso inverso di penosa normalizzazione, destinato a durare anni.

Quella tesi, come andrò sinteticamente a illustrare con l’ausilio di una serie di grafici di facile comprensione, si è dimostrata sinora corretta. Le bolle immobiliari, in Italia come negli altri paesi, hanno cominciato a sgonfiarsi e la fine di questo cammino a ritroso non appare vicina.

Nel post Il triste autunno del mercato della casa, utilizzavo un grafico tratto da una ricerca di Daniel Gros, direttore del Center for European Policy Studies di Bruxelles, che evidenzia come, negli ultimi 35 anni, l’andamento in termini reali (al netto cioè dell’inflazione) del mercato della casa nella zona dell’euro abbia seguito da vicino quello americano, con un ritardo temporale che si è aggirato in media attorno agli uno, due anni ma che via via è andato tendenzialmente riducendosi.

Per capire la situazione attuale, vale ancora la pena di partire da lì.

La linea blu indica i prezzi reali degli immobili negli Usa, quella gialla i prezzi nell’area dell’euro. L’intervallo temporale va dal 1971 al 2006. Come si vede, gli Usa svolgono una funzione di traino, sia nelle fasi espansive che in quelle di contrazione. E’ un fenomeno che tende a ripetersi in molti mercati, non solo in quello immobiliare. Gli ultimi svariati decenni sono stati contrassegnati dal primato americano e dalla sempre più stretta interconnessione tra le economie europea e americana. L’andamento dei tassi d’interesse e della congiuntura negli Usa ha finito per dettare anche i ritmi del ciclo europeo.

Stando così le cose, occorre dunque chiedersi, in primo luogo, come vada il mercato immobiliare americano.

Com’è noto, i prezzi stanno crollando. E l’entità del tonfo è immediatamente percepibile nel grafico che segue, tratto da una recente analisi di Northern Trust.

Raffigurati sono due diversi indici dei prezzi delle case. Il più rappresentativo e affidabile è senz’altro l’indice SP Case-Shiller per le 20 principali aree metropolitane americane, rappresentato con la linea blu. Quel che si nota è come, dopo diversi anni di crescita superiore al 10% annuo, i prezzi (questa volta si tratta di prezzi nominali, quelli di cui normalmente si parla) hanno fatto una brusca frenata nel corso del 2006 e, dalla fine di quell’anno, hanno iniziato a calare sempre più precipitosamente. L’ultimo dato, reso noto a fine novembre e relativo a settembre, ha registrato una flessione del 17,4% su base annua.

Come osserva Asha Bangalore di Northern Trust, le scorte di immobili invenduti sono così elevate e la disoccupazione è in così rapido aumento che è vano aspettarsi segnali di stabilizzazione del mercato della casa nei prossimi mesi. Per tutto il 2009, con ogni probabilità, il trend discendente è destinato a continuare.

D’altra parte, c’è anche da considerare che, per quanto drammatico sia stato il collasso dell’ultimo paio d’anni, non si può certo sostenere che i prezzi degli immobili americani siano diventati allettanti. Le case, anzi, restano care, come ci permette di capire un altro grafico, pubblicato qualche settimana fa sul blog The conscience of a liberal di Paul Krugman, recente premio Nobel per l’economia.

Il grafico descrive l’andamento del rapporto prezzi-affitti (price-rent ratio), uno dei due indicatori di valore più utilizzati nel mercato immobiliare (l’altro è il rapporto prezzi-redditi, o price-income ratio). Quel che emerge è come, a partire dal 2000 (scoppio della bolla azionaria), i prezzi delle case si siano sempre più allontanati dalla condizione di equilibrio (nel grafico pari a 100) fino a toccare un picco di sopravvalutazione del 60% a cavallo tra il 2005 e il 2006. Il crollo dell’ultimo biennio è solo servito a ridurre al 20% circa tale stato di sopravvalutazione.

Dunque, non è solo l’analisi della congiuntura a dirci che il mercato Usa degli immobili continuerà a flettere, almeno per un po’. Dello stesso tono è il messaggio che arriva da un’analisi fondamentale dello stato valutativo.

Siamo ora pronti ad avvicinarci col discorso a casa nostra.

Un problema che si incontra in Europa e in Italia è che non è facile trovare dati affidabili e comparabili a livello nazionale. Il mercato immobiliare è poco trasparente, poco liquido, poco omogeneo. Chi però, da qualche anno in qua, ha fatto un lavoro encomiabile di creazione di indici paese che consentono analisi meno malferme dell’evoluzione dei prezzi è il settimane inglese The Economist.

La tabella che segue, pubblicata all’inizio del mese, offre uno sguardo di sintesi dell’andamento degli indici dell’Economist per 20 paesi, aggiornati al terzo trimestre di quest’anno.

Si tratta, a un anno di distanza, della stessa serie di dati che avevo pubblicato nel post Casa, la bolla si sgonfia. Il confronto è istruttivo.

Nella prima colonna è indicata l’ultima variazione di prezzo su base annua; nella seconda colonna c’è la stessa variazione l’anno precedente; la terza colonna dà la misura della variazione cumulativa a partire dal 1997 (anno in cui, a grandi linee, partì l’ultimo ciclo espansivo).

Ciò che si nota, in sintesi, è quanto segue:
a) il ruolo guida del mercato americano, la cui flessione, da iniziale e graduale che era un anno fa, si è fatta precipitosa;
b) il generale, marcato deterioramento. Se un anno fa in 10 paesi su 20 il tasso di crescita dei prezzi era o ancora in aumento (Cina, Hong Kong, Singapore, Australia, Nuova Zelanda, Svizzera) o sostanzialmente stabile (Gran Bretagna, Sud Africa, Svezia e, tutto sommato, Italia dove si passava dal 6,2% al 5,1%), nell’ultima rilevazione si vede come solo Germania, Svizzera e Hong Kong riescono a sottrarsi alla tendenza dominante. Si allunga poi la lista dei paesi dove dalla decelerazione si passa a un sensibile calo dei prezzi: agli Stati Uniti e all’Irlanda – dove pure la situazione peggiora – si aggiungono infatti Gran Bretagna, Danimarca e Nuova Zelanda;
c) l’Italia non si sottrae al trend: dal 5,1% di un anno fa il tasso di crescita scende all’1%. Il dato si riferisce al terzo trimestre, e sappiamo come la congiuntura sia ulteriormente peggiorata nell’ultimo quarto dell’anno. Inoltre, va considerato che da noi l’inflazione dei prezzi al consumo, in base all’ultima rilevazione dell’Istat, sta al 3,5% annuo. In termini reali, i prezzi delle case nell’ultimo anno hanno avuto in Italia un andamento nettamente negativo;
d) infine, se si osserva l’ultima colonna della tabella dell’Economist, ci si può rendere conto di come i prezzi rimangano troppo elevati: variazioni superiori al 100% nell’arco di 11 anni (anche nel caso dell’Italia, dove i redditi, a differenza che altrove, hanno nel frattempo ristagnato) sono troppo sostenute.

Quest’ultima osservazione è ancor meglio visibile in un ultimo grafico che vado a presentare, tratto questa volta da un recente articolo per LaVoce.info di Fedele De Novellis, un economista del centro di ricerca Ref. I dati provengono dall’Ocse, ma raccontano una storia simile a quella rivelata dagli indici dell’Economist.

Nel grafico di De Novellis il periodo coperto è il decennio dal 1998 al 2007 e i prezzi sono depurati dell’inflazione. Si tratta, cioè, di prezzi reali. Per l’Italia si vede come l’aumento medio sia stato prossimo al 6%, un’enormità per un paese il cui PIL, nel frattempo, è cresciuto a tassi appena superiori all’1%.

Le case, dunque, costano troppo. E i due potenti motori che fino a un anno fa avevano ancora sostenuto il mercato nel suo “volo” – ossia l’abbondante disponibilità di credito e le fallaci attese di prezzi costantemente in crescita – sono stati spenti.

Nel suo articolo per LaVoce.info, De Novellis aggiunge ai motivi di pessimismo anche un’altra, importante osservazione. In passate fase di crisi dei mercati azionari, il settore immobiliare prosperò. La domanda di case traeva beneficio dalla fuga degli investitori verso i beni rifugio e dalle corpose riduzioni dei tassi d’interesse con cui le banche centrali reagivano allo stato di crisi. Accadde così nel 1987 e, di nuovo, nel 2001-2002.

La situazione, questa volta, è radicalmente diversa. In primo luogo è l’osservazione empirica, nota De Novellis, a dirci che in questi mesi non si è manifestata una nuova domanda di case da parte di investitori a caccia di beni-rifugio. E non c’è di che stupirsi. A dispetto degli interventi delle banche centrali, la grave crisi finanziaria all’origine dei crolli di Borsa ha generato una condizione di cosiddetto credit crunch – una stretta creditizia che sta rendendo più problematica e onerosa l’accensione di mutui.

Non è solo l’offerta di credito a essersi contratta, però. Anche la domanda langue. La spirale dei prezzi in crescita che alimentava attese di ulteriori guadagni si è spezzata. Non c’è chi non sappia, a questo punto, che la crisi finanziaria – causa dell’implosione delle Borse e del congelamento della congiuntura economica – è a sua volta figlia dello scoppio della bolla immobiliare americana. E non c’è chi non abbia aperto gli occhi – finito il tempo delle illusioni – sul fatto che anche da noi, e non solo negli Usa, gli immobili si sono apprezzati oltre il limite del ragionevole.

Ci vorranno anni di prezzi reali in calo prima che il bene rifugio per eccellenza torni a offrire un po’ di riparo.

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L’incredibile rally dei titoli finanziari

In sei sedute l’indice S&P/Mib ha recuperato poco meno del 10%, ossia circa 2,500 punti, trascinato al rialzo da un poderoso rimbalzo del settore finanziario partito da Wall Street.

Che credibilità ha questo rally? Purtroppo, in una parola, nessuna.

Dico purtroppo perché sarebbe più rassicurante poter dire che l’azione dei mercati azionari è stata il riflesso delle libere decisioni assunte collettivamente dagli investitori. E che tali giudizi si sono correttamente formati sulla base, tra l’altro, delle informazioni rese pubbliche dalle società quotate che, a Wall Street, stanno in questi giorni diffondendo i risultati del secondo trimestre.

Le cose, invece, non stanno così.

Il rally, infatti, è stato innescato dall’improvvisa, inattesa decisione della SEC, l’organo americano di controllo della Borsa, di imporre limiti alle vendite allo scoperto (short selling) su 19 titoli finanziari, tra cui tutte le banche d’investimento e i due giganti in crisi del credito mobiliare, Fannie Mae e Freddie Mac.

La conseguenza è stata un’enorme ondata di ricoperture che a Wall Street ha lanciato in orbita tutto il settore finanziario.

Questa iniziale esplosione è stata poi alimentata dal carburante fornito dai risultati trimestrali di alcune banche, come Citigroup, Bank of America, JP Morgan Chase e Wells Fargo, superiori – in apparenza – alle attese, e dal sollievo generato dall’annuncio da parte del Tesoro americano di un piano di salvataggio per i due giganti dai piedi d’argilla, Fannie e Freddie, ormai al limite dell’insolvenza.

Il risultato? Nelle cinque sedute tra il 16 e il 22 luglio l’S&P 500 Financials ha fatto un balzo del 28%, un record. Dal 1989, quando furono introdotti gli indici settoriali dell’S&P 500, una performance del genere nell’arco di una sola settimana non era mai stata registrata.

Naturalmente, un bear market azionario è sgradito a molti: governi, banche, media, e la grande massa dei risparmiatori in generale. Solo una minoranza di investitori è in grado di trarne profitto. Insofferente più di tutti, con le elezioni presidenziali alle porte, è l’amministrazione Bush. Il rimbalzo del settore finanziario è stato così accreditato, da molte voci interessate, come un segnale che il peggio probabilmente è passato.

L’idea che mi sono fatto è che le cose non stiano affatto così.

La genesi del rally, per cominciare dall’inizio, è stata uno sfregio alla nozione stessa di libero mercato. Come ha denunciato l’Economist, l’intervento della SEC è stato l’equivalente di un pugno sotto la cintura inferto niente meno che dall’arbitro nel corso di un incontro di pugilato. Un provvedimento ingiustificato, improvvisato, asimmetrico, incoerente – motivato con ogni evidenza dal solo intento di prestare soccorso ai titoli bancari più in difficoltà.

Nouriel Roubini, l’economista della Stern School of Business della New York University, ha rincarato la dose, dicendo che la SEC dovrebbe aprire un’inchiesta e avviare un’azione legale contro se stessa per manipolazione del mercato.

La continuazione del rally si è poi nutrita di una serie di trimestrali sulla cui affidabilità è ragionevole essere scettici. Prendiamo ad esempio Wells Fargo, una delle grandi banche che più ha infiammato gli animi annunciando, il 16 luglio, un utile per azione di 0,53 dollari, tre centesimi superiore alle attese degli analisti.

Come spiega bene un articolo di HousingWire.com, il portafoglio da 84 miliardi di dollari di home equity loan (prestiti con ipoteca sulla casa) di Wells Fargo – per metà concessi in California e Florida, due degli stati americani più colpiti dalla crisi – ha subito nel secondo trimestre un pesante aumento delle sofferenze. Le perdite messe a bilancio sono però diminuite, addirittura di 104 milioni di dollari per i soli prestiti second lien – un 11% di prestiti subordinati e dunque particolarmente a rischio.

Il mercato immobiliare peggiora, la qualità del credito peggiora, le sofferenze si impennano, ma il bilancio migliora. Com’è possibile? Il motivo è che ai primi di aprile Wells Fargo ha deciso – sottovoce – di modificare il termine oltre il quale il mancato pagamento della rata di un prestito viene contabilizzato tra le perdite, estendendolo da 120 a 180 giorni.

Per questo trimestre, almeno, la cosmesi è riuscita. Un bel po’ di passività sono state nascoste sotto il tappeto, rinviate al futuro. E una trimestrale che avrebbe dovuto probabilmente chiudersi con un utile per azione di almeno cinque centesimi sotto le attese, già abbondantemente riviste al ribasso, si è invece spinta tre centesimi sopra. Il titolo, anziché sprofondare, nel giro di pochi istanti dall’annuncio dei risultati ha fatto un balzo del 20% all’insù.

Roubini, nel suo blog, ha denunciato svariati altri modi in cui le banche americane stanno “manipolando” i bilanci, a suo dire sotto lo sguardo tollerante delle autorità di controllo, dalla Federal Reserve alla SEC.

Una pratica che si sta diffondendo, e che Roubini dice di aver appreso dalle ammissioni di “insider”, è che l’entità delle svalutazioni di asset da mettere a bilancio viene decisa a priori. I conti vengono poi aggiustati di conseguenza. Non si tratta più, nota Roubini, del tradizionale earnings smoothing, e cioè della consolidata routine per cui i bilanci vengono un po’ “ritoccati” con l’obiettivo di stabilizzare gli utili da un trimestre all’altro.

“Questa – scrive Roubini – è attiva manipolazione e falsificazione dei risultati mirata a offuscare ancor di più il vero stato delle istituzioni finanziarie. Questo lavoro di oscuramento è attivamente spalleggiato dalla SEC, dalla Fed e dalle altre autorità che sono ormai in uno stadio di gestione della crisi in cui l’obiettivo è evitare a ogni costo qualsiasi incidente che possa scatenare il crollo del sistema. La conseguenza è che molte di queste trimestrali valgono meno della carta su cui sono scritte.”

D’altra parte, pensare che il peggio sia ormai alle spalle per il settore finanziario americano – così come, peraltro, per quello europeo – è poco realistico se solo ci si attiene a poche, semplici e basilari considerazioni.

E’ vero che la Fed, abbattendo i Fed funds dal 5,25% al 2%, ha ridotto i costi di finanziamento delle banche. Ma per il resto il contesto non ha fatto in questi mesi che peggiorare e le prospettive si sono fatte più cupe.

Crolla il mercato della casa, peggiora la congiuntura americana, rallentano i mercati emergenti e l’Europa è a un passo dalla recessione. I dati che mostrano come lo scoppio della più grande bolla immobiliare della storia, dopo lunghi mesi di incubazione, stia dando vita (complice anche l’ascesa dei prezzi energetici) a una recessione economica su scala globale sono facili da riassumere. Eccoli:

a) Secondo l’indice S&P/ Case-Shiller (ripreso nel grafico qui sotto da un articolo di Bill Gross), i prezzi delle case in America, dai massimi del 2006, sono scesi del 18% ma la caduta, di recente, è andata accelerando e i contratti future non prevedono che si arresti prima del 2010, alla fine di un tonfo che nel complesso potrebbe toccare il 30%.

b) L’economia Usa, se non è già entrata in recessione nei primi mesi dell’anno, è prossima a farlo. L’avvitamento della congiuntura che, in un anno elettorale, le autorità stanno tentando di combattere con tutti i mezzi – tra cui il condizionamento psicologico delle aspettative – avanza inesorabile. Lo dicono molti dati, ma tra i più chiari e affidabili ci sono il Leading Economic Indicator curato dal Conference Board (da noi noto come superindice economico) e il Leading Index dell’ECRI, uno dei più prestigiosi centri privati di ricerca.

L’uno e l’altro hanno correttamente predetto le recessioni degli ultimi decenni (le fasce in grigio nei grafici che seguono, il primo tratto da Northern Trust e il secondo dal blog The Big Picture di Barry Ritholtz). Da qualche mese preannunciano, con crescente intensità, l’arrivo di un nuovo periodo di contrazione dell’attività economica.

c) La crisi dei mercati immobiliari, quella del credito, quella dell’economia Usa, unite agli alti prezzi dell’energia, stanno trascinando in recessione l’economia globale. Chi sperava in un cosiddetto decoupling, e cioè nella capacità del resto del mondo di affrancarsi dal paese guida (l’America), sarà probabilmente smentito. Questo almeno è il messaggio che viene dal World Leading Economic Index dell’OCSE (tratto qui dall’ultima analisi trimestrale di Hoisington Management), il più affidabile barometro dell’andamento della congiuntura mondiale, che da qualche mese si è messo ad annunciare tempesta.

I grafici che ho riportato raccontano tutti la stessa storia: il peggio, purtroppo, deve ancora arrivare.

Le stime che circolano sui costi della crisi immobiliare per il sistema finanziario americano – e a cui oggi ha dato credito anche Bill Gross di PIMCO, il più grande gestore obbligazionario al mondo – parlano di almeno un migliaio di miliardi di dollari.

I mutui classificabili come asset rischiosi, ha scritto Gross, ammontano a 5mila miliardi di dollari. Ci sono circa 25 milioni di case acquistate con mutuo a partire dal 2004 che sono ormai in una situazione di negative equity: ai prezzi correnti valgono cioè meno del debito che è stato contratto per acquistarle. Per i compratori è una condizione in cui sono forti gli incentivi a dichiararsi insolventi.

Le perdite complessive, se al mercato immobiliare si sommano il credito al consumo e quello alle aziende, saranno comprese, a giudizio di Roubini, tra mille e duemila miliardi di dollari. Le svalutazioni messe finora a bilancio sono nell’ordine dei 400 milioni di dollari. La crisi, insomma, non ha ancora raggiunto la sua fase più acuta. Il fallimento della banca californiana IndyMac, la scorsa settimana, con perdite a carico del bilancio pubblico tra i 4 e gli 8 miliardi di dollari, è solo il primo di una serie che si preannuncia piuttosto lunga.

L’incredibile rally dei mercati azionari, penso, non andrà lontano. Vedremo nuovi minimi.

P.S.: Siccome disperarsi non è mai la reazione migliore, vorrei chiudere con un messaggio consolatorio: godetevi (chi può, purtroppo il video è in inglese) sette minuti di satira formidabile sulla rara incompetenza (per gli Usa, noi in Italia siamo abituati peggio) di cui ha dato prova l’amministrazione Bush. Il video che segue – “It’s the stupid economy” – è tratto da una recente puntata del Daily Show di Jon Stewart (nella foto in alto). E’ una delle cose più esilaranti in cui mi sia imbattuto da un po’ di tempo in qua. Buona visione.

It’s the stupid economy

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