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Le conseguenze delle crisi bancarie sistemiche

Quanto è grave l’attuale crisi finanziaria? Quanto durerà? Che esiti potrà avere? Non c’è chi non si faccia queste domande. Per cercare una qualche risposta il primo passo è alzare lo sguardo, allargare l’orizzonte e affondare le nostre indagini nella storia.

La tendenza ad aderire a nozioni piuttosto anguste e rassicuranti di “normalità” ci porta a concepire questa crisi, con un certo senso di angoscia, come eccezionale e anzi unica. Per certi versi, beninteso, lo è. Non c’è fenomeno storico che non sia singolare. E il problema di una scienza sociale e storica come l’economia è in fondo proprio questo: ha continuamente a che fare con eventi irripetibili.

Per altri versi, però, se si accettano questa considerazione di base e l’indeterminatezza a cui ci costringe, è possibile fare diversi passi avanti nella nostra conoscenza. Si può ad esempio scoprire che le crisi finanziarie, da quando l’economia ha assunto una forma capitalistica, sono state una regola e niente affatto l’eccezione. Continua a leggere…

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Il mercato delle idee: TED spread, trend e tormenti

Rischi privi di rendimento

La rubrica Buttonwood dell’Economist, in un articolo dal titolo Yielding to none, si chiede quale sia l’elemento più eccezionale che si presenta alla vista degli investitori in avvio di 2009 e conclude che non si tratta né dell’andamento dei mercati azionari né delle quotazioni del petrolio ma piuttosto dei rendimenti dei titoli di stato. I titoli decennali del Tesoro americano, ad esempio, offrono solo il 2,3% rispetto a una media, negli ultimi due secoli, del 4,5%. Nella parte breve della curva, poi, i rendimenti sono inferiori all’1%. Al confronto, il tasso di dividendo del mercato azionario è del 3,3%. Che senso ha tutto ciò?

Gli investitori, pare ovvio, sono disperati di mettere le mani sugli asset meno rischiosi che riescano a trovare. Ma così facendo, in massa, stanno creando dei nuovi pericoli. Nell’immediato, è difficile immaginare tanto una ripresa dell’inflazione che dei tassi manovrati dalle banche centrali. La Federal Reserve ha portato i Fed funds in una forchetta tra 0% e 0,25% e annunciato di volerli congelare lì per un certo periodo di tempo. Ma in prospettiva le cose potrebbero cambiare, e di molto.

L’enorme stimolo monetario e, nei mesi a venire, anche fiscale che le autorità stanno imprimendo al sistema per scongiurare una depressione e rianimare il ciclo economico solleva non poche possibilità di una ripresa dell’inflazione nel prossimo futuro. Per gli investitori, in quel caso, il problema sarà riuscire a scappare dal mercato obbligazionario prima che lo faccia la massa: una condizione spiacevole in cui è sempre alto il rischio di finire travolti.

Insomma, i titoli di stato, che sono noti – nel gergo della finanza – come strumenti che garantiscono “rendimenti privi di rischio” si presentano oggi piuttosto come una classe d’investimento che, secondo l’arguta definizione di James Grant, offre “rischi privi di rendimento.” Un “orrendo bear market”, paventa l’Economist, appare prima o poi inevitabile.

Meno stress nel mercato del credito

L’attenzione di investitori e media, negli ultimi mesi, si è spostata dagli aspetti finanziari della crisi a quelli economici. A preoccupare, insomma, sono l’andamento della produzione, delle vendite, dell’occupazione. Resta il fatto, però, che l’origine del rapido raffreddamento della congiuntura, a cui si assiste, sta nella crisi finanziaria e nella condizione di vero e proprio collasso del sistema creditizio a cui si era giunti lo scorso autunno.

Le banche centrali, Federal Reserve in primis, si sono date da fare – anche attraverso l’utilizzo di diversi strumenti non convenzionali – per riportare un po’ d’ordine e di normalità. Senza credito, infatti, non è pensabile che l’attività economica possa riprendersi. Ma quali sono stati finora i risultati? Un prezioso aggiornamento per quel che riguarda il mercato guida, e cioè quello americano, è offerto dal blog Calculated Risk, che fa un regolare monitoraggio di diversi indicatori, come il TED spread (vedi grafico qui sotto, tratto da Bloomberg), il tasso swap a 2 anni o il tasso LIBOR.

Di che si tratta? Sono tassi o spread fra tassi (come nel caso del TED spread, dato dalla differenza tra il rendimento dei Titoli del tesoro a tre mesi e il tasso sui prestiti interbancari a tre mesi) atti a misurare le condizioni di liquidità e di rischio sui mercati del credito. Per fare un esempio, se le banche hanno timore del rischio di controparte posto da altre banche, saranno restie a prestare loro liquidità ed esigeranno dei rendimenti più alti, facendo lievitare il tasso LIBOR o il TED spread.

Come il grafico qui sotto evidenzia, la situazione negli ultimi mesi è alquanto migliorata, anche se non si è del tutto normalizzata. Il TED spread è sceso verso l’1%, in prossimità dei livelli più bassi dell’ultimo anno, dal massimo storico del 4,63% toccato il 10 ottobre. In condizioni normali, il differenziale non dovrebbe essere superiore allo 0,5%. Comunque, è evidente che la Federal Reserve – come osserva Calculated Risk – “sta facendo progressi.”

L’Europa non fa abbastanza

Eurointelligence lamenta, in un commento alla decisione di ieri della Banca Centrale Europea di tagliare i tassi di riferimento di 50 punti base al 2,0%, che l’Europa sta facendo troppo poco, sia sul versante monetario che fiscale, per fronteggiare la recessione. Il presidente della BCE, Jean Claude Trichet, ha lasciato intendere che la banca centrale si prenderà una pausa di riflessione a febbraio e che nuove mosse sui tassi non sono da mettere in conto prima di marzo. Per Eurointelligence è chiaro che la BCE non ha alcuna intenzione di inseguire la Federal Reserve nel perseguimento di una politica dei tassi zero.

La reazione dei mercati è stata quella di vendere l’euro, che ha toccato i minimi nei confronti del dollaro da cinque settimane. La valuta americana, oltre a essere preferita come safe haven (bene rifugio) nei momenti di più accentuata avversione al rischio, non dà segni di patire lo sfavorevole differenziale sui tassi. Più che a questo, infatti, gli investitori sembrano prestare attenzione alle possibilità di fuoriuscita dalla crisi economica. E la scommessa è che, quando la ripresa verrà, sarà ancora una volta l’America e non l’Europa a fare da battistrada.

Paesi ancora emergenti

Gli alti tassi di crescita dei paesi emergenti sono stati resi possibile, negli ultimi anni, anche dal boom dei consumi americani, dal facile accesso al credito e dagli alti prezzi delle materie prime. Ora che tutti e tre questi fattori sono venuti meno, saranno in grado i paesi emergenti di continuare la loro rincorsa nei confronti di quelli avanzati?

A sostenere di sì è un articolo dell’Economist della scorsa settimana, intitolato Stumble or fall, da cui è tratto il grafico sotto, che mostra la forbice apertasi in questo decennio nel contributo alla crescita globale offerto dalle economie sviluppate e da quelle emergenti.

Anche se ci sono eccezioni di rilievo, come l’Argentina o alcuni stati dell’Europa dell’Est, molti di quei paesi godono di condizioni di solidità macroeconomica invidiabili rispetto ai paesi avanzati. In particolare, tendono ad avere alti tassi di risparmio, bilance commerciali in attivo e livelli di indebitamento pubblico molto esigui. In Cina, ad esempio, il debito pubblico ammonta solo al 18% del PIL. Questo consentirà loro di dare fondo a politiche fiscali espansive e di perseguire una via d’uscita dalla crisi mediante lo stimolo ai consumi interni.

Blogger a rischio

In tempi di crisi economica capita anche che i blogger si debbano guardare dalle ire dei governi, a caccia di capri espiatori verso cui canalizzare l’insoddisfazione popolare. Lo racconta Beppe Grillo in un articolo, al tempo stesso amaro e divertente, intitolato Minerva.

Ma cos’è questa crisi?

Si parla troppo e troppo a sproposito del ’29. Appena qualcuno accenna alla parola “crisi”, subito il pensiero corre lì. Molti investitori vivono oggi in questa paralizzante condizione, una sorta di riflesso pavloviano, un cortocircuito che infiamma la mente ma le impedisce di riflettere. Possibile che non ci siano altri modi per cercare di capire cos’è questa crisi, germinata in America dal collasso dei mutui subprime? Ne suggerirò uno, la lettura di un classico di storia dell’economia: Manias, Panics and Crashes di Charles Kindleberger.

Pubblicato la prima volta nel 1978, il libro (mai tradotto in italiano, com’è purtroppo il caso di molti testi fondamentali per la formazione di un investitore) è giunto nel 2005 a una quinta edizione, rivista in modo da includere la crisi messicana del 1994-95 e quella asiatica del 1997-98 al rosario di crash finanziari presi in esame dall’autore.

Kindleberger di gravi episodi di bolle speculative (Manias) seguite da crisi di panico (Panics) e crash di mercato (Crashes) ne elenca ben 39, dal 1622 alla fine del Novecento. In media, uno almeno ogni decennio. E si potrebbe risalire più indietro, fino alla famosa bancarotta dei Bardi e Peruzzi nella Firenze della metà del XIV secolo.

Sin dal primo emergere di un’organizzazione capitalistica dell’economia, le crisi finanziarie sono dunque state una costante. Scrive Kindleberger: “Si può dimostrare che, nel corso della storia, gli eccessi speculativi, definiti concisamente come ‘manie’, e il senso di ripulsa generato da tali eccessi sotto forma di crolli e attacchi di panico, sono stati, se non inevitabili, per lo meno comuni.”

Di comune hanno anche avuto la facile inclinazione all’uso dei superlativi da parte degli osservatori e interpreti contemporanei che le hanno raccontate. “La storia – scrive Kindleberger, in tono vagamente divertito – è piena di affermazioni iperboliche a riguardo delle varie crisi.” Insomma, non ce n’è stata una, o quasi,che non sia stata descritta come la più tremenda, paurosa e devastante a memoria d’uomo.

Il loro dispiegarsi ha seguito una trama alquanto ripetitiva, scandita in cinque fasi: a) uno shock iniziale positivo, che genera aspettative di più elevati profitti; b) un boom creditizio che incoraggia operatori, investitori, intermediari ad assumere una maggiore leva finanziaria (leveraging); c) un picco di euforia e speculazione, caratterizzato dall’accumulazione di rapidi guadagni; d) un punto di rottura, dovuto a fattori diversi come un aumento dei tassi d’interesse o un crack inatteso; e) il panico, la repentina riduzione della leva finanziaria (deleveraging), la corsa verso  la liquidità.

La descrizione suona familiare? Dovrebbe esserlo, perché si applica a pennello, così come alle molte crisi del passato, anche a quella attuale dei mutui subprime.

Fin qui, non c’è nulla di nuovo. Già prima di Kindleberger, altri famosi economisti come Irving Fisher nel 1933 e Hyman Minsky nel 1977 avevano identificato questo ciclo di rapida espansione (boom) seguito da un drammatico collasso (bust) come tipico delle crisi finanziarie.

Dove il lavoro di Kindleberger si fa, per noi, più interessante, è in un paio di conclusioni a cui arrivano la sua dettagliata ricostruzione storica e l’analitico confronto degli episodi del passato. In primo luogo, ciò che ha fatto la differenza nel determinare la lunghezza e la gravità delle depressioni economiche che sono inevitabilmente seguite ai boom e bust finanziari è il ruolo giocato dalle banche centrali.

Della intrinseca fragilità degli istituti di credito – impegnati ad assolvere un ruolo vitale nello sviluppo economico convertendo passività a breve termine in asset a lungo termine – ci si era accorti già diversi secoli fa. Le banche centrali nacquero proprio nel tentativo di ovviare all’evidente instabilità del mercato creditizio.

Si trattò di un’invenzione di straordinario successo. Già attorno al 1825, scrive Kindleberger, in Inghilterra ci si era di fatto accordati su una divisione del lavoro così congegnata: “I banchieri privati di Londra e delle province finanziavano i boom, la Banca d’Inghilterra finanziava le crisi.”

Naturalmente, restava il problema di come evitare che l’intervento pubblico – di bust in bust – incoraggiasse comportamenti irresponsabili. Per il filosofo Herbert Spencer, una volta imboccata la soluzione pietosa del soccorso ai meno avveduti e meritevoli, non c’era rimedio: “Il risultato ultimo dell’atto di proteggere gli uomini dagli effetti della loro follia non può che essere quello di popolare il mondo di folli” (The ultimate result of shielding man from the effects of folly is to people the world with fools).

Per fortuna a prevalere fu l’opinione – meno radicale – del pensatore, saggista e giornalista inglese Walter Bagehot (vedi immagine qui sotto), che nel libro Lombard Street del 1873 diede rispettabilità teorica, oltre che pratica, al ruolo della banca centrale come prestatrice di ultima istanza (lender of last resort).

Era evidente infatti che al rischio di consentire agli istituti di credito di indulgere nell’azzardo morale (moral hazard) si contrapponeva l’altro rischio del completo collasso dell’attività economica: nella corsa ad accaparrare liquidità, che caratterizza le crisi di panico, ogni partecipante al mercato – nel tentativo di salvare se stesso – finisce per contribuire alla rovina di tutti.

La soluzione di compromesso ideata da Bagehot fu di sostenere che le banche centrali, in una crisi, dovevano rendere disponibile tutta la liquidità che serviva, ma a un tasso penalizzante. Quanto alla tempistica degli interventi, ci si poteva solo affidare alla discrezionalità, ma in modo – come riassume Kindleberger – “da indugiare a sufficienza, dopo un crash, così da consentire alle imprese insolventi di fallire, ma non tanto a lungo da permettere alla crisi di estendersi anche alle imprese sane, bisognose di liquidità.” Il central banking, come si può desumere, è un’arte – non solo una scienza.

Il fallimento delle banche centrali

Ora, la questione è: se teoria e pratica del ruolo delle banche centrali erano già andate chiarendosi ai tempi di Bagehot, e se – come sostiene Kindleberger – è l’azione delle banche centrali a decidere in primo luogo della durata e gravità di una crisi finanziaria, perché accadde un disastro come la Depressione degli anni ’30?

La risposta, sempre di Kindleberger, è che durante la crisi del ’29 e la Grande Depressione che ne seguì, non ci fu nessuno che si fece carico, a livello internazionale, del compito di prestatore di ultima istanza. Se la depressione fu così “ampia, profonda e prolungata” fu perché la Gran Bretagna, “esaurita dalla guerra e vacillante dopo l’abortita ripresa degli anni ’20, fu incapace di assumere quel ruolo” (che le era storicamente toccato in quanto prima potenza economica da oltre un secolo), mentre gli Stati Uniti (paese guida emergente, con una banca centrale costituitasi da appena un quindicennio) furono “indisponibili” a ereditarlo.

Il fallimento del central banking fu totale. Non solo non ci fu un prestatore di ultima istanza a livello internazionale, ma, scosse dalle crisi valutarie che nel 1931 colpirono prima la Germania e poi la Gran Bretagna, molte banche centrali corsero a convertire le loro riserve valutarie in oro, così contribuendo a far ulteriormente contrarre la liquidità e a rendere ancora più terribili le pressioni deflative.

Il ’29 non fu l’unico caso di fiasco delle banche centrali, anche se ne è certo il più famoso. Lo stesso accadde nel 1873, e anche in quel caso la crisi economica che ne seguì fu così profonda e protratta da essere chiamata “Grande Depressione.”

La storia, d’altra parte, presenta episodi di segno opposto, come la crisi finanziaria del 1844, quando la Banca d’Inghilterra sospese la legislazione bancaria vigente al fine di rendere disponibile tutta la liquidità necessaria agli istituti che ne facevano richiesta e che erano in grado di offrire buone garanzie collaterali.

Il ’29, dunque, non è il paradigma di tutte le crisi – come oggi si viene continuamente sollecitati a credere. E’, piuttosto, il paradigma di quelle che finirono nel peggiore dei modi possibili per il mancato assolvimento da parte delle banche centrali del più esclusivo e delicato dei compiti loro assegnati.

La storia infatti dimostra – scrive Kindleberger – che “quando non c’è un prestatore di ultima istanza, come nel 1873, 1890 e 1931, la depressione che segue una crisi finanziaria è lunga e protratta, a differenza di altri episodi in cui il prestatore invece c’è, e la crisi passa come un temporale estivo.”

A quale di questi due generi appartenga la crisi in cui siamo oggi immersi mi pare facile sostenerlo: il copione che le banche centrali stanno seguendo – a partire dalla Federal Reserve – non è certo quello del ’29. E’ l’esatto contrario.

Nuove frontiere per gli investimenti

Dicevo che, a mio avviso, c’è anche una seconda conclusione interessante in Manias, Panics and Crashes. Si trova condensata nella seguente citazione: “Le conseguenze di una depressione dipendono non solo da come la crisi viene gestita ma da una miriade di altre variabili, in particolare da quei fattori che condizionano gli investimenti di lungo periodo: crescita della popolazione, esistenza di una nuova frontiera, impulsi derivanti da una guerra, esportazioni, la presenza o l’assenza di innovazioni che non sono già del tutto sfruttate, e cose simili.”

Se si pensa agli anni ’30, si coglie appieno il senso delle osservazioni di Kindleberger. Quel periodo fu segnato dall’adozione di misure protezionistiche e dal crollo del commercio internazionale, dalla chiusura degli stati all’interno delle proprie anguste frontiere e dalla deriva verso la guerra. Fu solo l’escalation dei preparativi bellici che, a partire dalla fine di quel decennio, agì da stimolo agli investimenti e mobilitò anche la ricerca e l’innovazione – producendo come suo massimo e tragico frutto la bomba atomica. La Grande Depressione fu superata, ma al costo orrendo di una carneficina e una barbarie senza precedenti.

E oggi? Ci sono nuove frontiere e innovazioni non pienamente sfruttate che possono motivare l’economia globale a lasciarsi alle spalle gli effetti depressivi del ciclo di boom e bust che abbiamo appena sperimentato? Penso di sì.

In estrema sintesi, mi limito a citare tre processi, a diversi stadi evolutivi, in grado di tornare rapidamente a catalizzare l’innato spirito di iniziativa e la disponibilità ad assumere rischi, che caratterizza la nostra specie: l’emersione dalla povertà e la modernizzazione, in particolare del continente asiatico; Internet, lo sviluppo delle comunicazioni e la progressiva digitalizzazione del sapere, con ricadute formidabili sul ritmo del progresso scientifico e tecnologico; la transizione verso lo sfruttamento di fonti energetiche rinnovabili e una civiltà ecosostenibile.

Non sono certo in grado di sapere come finirà la crisi in cui ci troviamo. Né posso sostenere che l’interpretazione delle crisi passate offerta da Kindleberger sia l’unica possibile, anche se a me pare convincente. In definitiva, ho solo cercato di mostrare che se assumiamo come criteri discriminanti tra una crisi che diventa una Grande Depressione e una crisi che viene superata “come un temporale estivo” i due fattori enunciati in Manias, Panics and Crashes, non c’è dubbio. Sia per quel che riguarda la gestione da parte delle banche centrali del loro ruolo di prestatrici di ultima istanza, sia per quel che concerne la presenza di stimoli agli investimenti di lungo periodo, oggi non siamo ridotti “come nel ‘29”. Ne siamo, piuttosto, agli antipodi.

Un punto di vista contrario: Ken Fisher

Un investitore accorto rifiuta il dogmatismo, presta attenzione ai punti di vista più diversi, purché ben argomentati, elabora le sue opinioni in modo critico e libero da pregiudizi. Da quando questo blog è nato, la scorsa primavera, le mie valutazioni sul ciclo economico e sulle Borse sono state improntate a un fondamentale pessimismo. Tuttavia, al cospetto dei mercati finanziari, il mio istinto è di non sentirmi mai sicuro. Continua a leggere…

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