Riprendo da dove avevo interrotto la prima parte di questo post, analizzando qualche caso concreto del problematico rapporto tra media e piccoli investitori nel nostro paese. Un po’ alla cieca, dal mucchio di giornali accatastati nel mio ufficio, estraggo gli ultimi numeri de Il Mondo, settimanale economico del gruppo Rizzoli Corriere della Sera (RCS), e di CorrierEconomia, inserto settimanale del Corriere della Sera. Si tratta di pubblicazioni considerate di qualità, leader di mercato a larga diffusione. Sono anche testate ad alto rischio di conflitto d’interessi, vista la preponderanza di gruppi finanziari nell’azionariato di RCS: Mediobanca, Intesa Sanpaolo, Capitalia (UniCredit), Generali, Banco Popolare, Premafin (Fondiaria-SAI, Milano Assicurazioni).
Una rapida scorsa alla sezione “Mercati” de Il Mondo evidenzia subito due rubriche, che presentano nuovi prodotti: si tratta, guarda caso, di un bond Tasso di cambio euro/dollaro emesso da Capitalia (azionista rilevante di RCS con oltre il 2% del capitale) e di un certificato Up&up sull’indice S&P/Mib di Banca Aletti, istituto specializzato in prodotti strutturati del gruppo Banco Popolare (azionista rilevante di RCS con quasi il 6% del capitale).
In nessuno dei due casi si avverte il lettore del potenziale conflitto d’interessi (“caro lettore, bada bene che ti sto parlando di prodotti che la proprietà di questo giornale è interessata a venderti…”), in nessuno dei due casi si illustrano in modo soddisfacente i costi e i rischi.
Studi fatti in casa
Passiamo al CorrierEconomia. La sezione Patrimoni & Finanza, col suo impegnativo sottotitolo “Come risparmiare, come investire, come tutelare i propri diritti”, è dominata da un articolo, “In Borsa il portafoglio ha sette vite”, centrato su uno studio sulla performance di vari asset dal 1984 a oggi, realizzato dal Servizio Studi di Intesa Sanpaolo (azionista rilevante di RCS con una quota quasi del 5%).
Lo studio, in parte, non dice nulla di nuovo. Mostra che nel lungo periodo le azioni battono le obbligazioni, le quali, a loro volta, fanno meglio dell’oro. Fin qui non si capisce il bisogno di commissionare una ricerca ad hoc per dimostrare l’ovvio. Cui prodest?
Ad attirare l’attenzione è però la data d’avvio prescelta. Perché l’orwelliano 1984? Per un qualsiasi studioso dei mercati, che voglia farsi un’idea corretta dei rendimenti di lungo periodo delle varie classi di asset, sarebbe una scelta sbagliata. Coincide infatti, quasi esattamente, con il più grande bull market azionario della storia, iniziato nel 1982. E’ come se un climatologo, volendo determinare le temperature medie in Italia, concentrasse le sue misurazioni nella stagione estiva.
Il motivo viene però svelato in un riquadro a parte, che riassume i criteri e i risultati della “gara”.
“L’anno di partenza – scrive Marco Sabella di CorrierEconomia – non è stato scelto casualmente: in quel periodo ci fu infatti il debutto dei fondi comuni sul nostro mercato.”
Difesa pelosa dei fondi comuni
Ecco dunque la ragione. Sotto sotto, c’è qualcosa che il servizio intende dimostrare a proposito dei fondi comuni italiani. E cosa sia ce lo dice un altro riquadro, “il barometro”, che riporta in dettaglio, classe per classe, l’esito della “gara.”
I fondi, sia azionari che obbligazionari, scrive Sabella, “hanno marciato tenendo testa agli indici di riferimento” anche se “i costi dell’industria hanno abbassato un po’ la performance.”
Si tratta della tesi che sostiene, in una lunga intervista a parte, Gregorio De Felice, responsabile del Servizio Studi di Intesa Sanpaolo, “erede dello storico Ufficio Studi della Comit”, come si affretta a sottolineare Sabella, con una certa deferenza.
Dal mio punto di vista, sarebbe stato più doveroso informare il lettore che si tratta del responsabile del servizio studi di una banca, che è l’azionista per molti versi più importante di RCS ed è anche il primo gruppo per masse amministrate nell’industria nazionale del risparmio gestito.
Il giornalista cede insomma la parola a qualcuno che sta dalla parte della proprietà del giornale e non può ignorare gli interessi cospicui che il suo datore di lavoro ha nell’industria dei fondi comuni.
E cosa dice? Chiede l’ignaro Sabella: “I fondi di investimento azionari battono l’inflazione ma guadagnano meno rispetto agli indici di mercato. Come mai?”
Risponde De Felice: “Questo punto percentuale di differenza di rendimento rappresenta il costo dell’industria dell’asset management. Non tutti i fondi in ogni caso hanno fatto peggio dell’indice e per il futuro ci sono spazi per un miglioramento delle performance.”
Insomma, tutto bene, tutto fisiologico, tutto nella norma. E nel futuro andrà anche meglio.
Ma è così? Da dove viene il riferimento a quel solo punto percentuale di differenza di rendimento?
Confronti avventati
Lo studio, riporta Sabella, mostra che l’indice Comit della borsa di Milano è salito, dal 1984, del 9,82% l’anno mentre i fondi azionari, con un “buon andamento”, hanno guadagnato una media dell’8,89%.
Anche a voler prendere i numeri per buoni, il confronto, ahimé, è però privo di senso. Oppure ha l’unico senso di voler dimostrare l’indimostrabile, e cioè che i fondi comuni italiani sono stati nel tempo un buon investimento.
Le ragioni dell’insensatezza sono presto dette e sono due.
Non ha senso confrontare l’universo dei fondi azionari italiani con un benchmark come l’indice Comit della borsa di Milano. Meno del 18% dei fondi azionari italiani investe infatti nella borsa di Milano. Gli altri investono in giro per il mondo, nelle varie regioni e nei diversi settori di un mercato globale.
Ma l’altra e più importante ragione è che l’indice Comit non tiene conto dei dividendi distribuiti, non è cioè, come si dice in gergo, un indice total return. I fondi, invece, nella stragrande maggioranza, capitalizzano i dividendi. E la differenza è macroscopica.
I risultati dell’indagine di Mediobanca
In questo caso, il gap può essere meglio compreso se si lascia perdere lo “studio” di CorrierEconomia e si dà una scorsa ai risultati dell’indagine annuale di Mediobanca su “fondi e Sicav italiani”, che da 16 anni è la ricerca più attendibile e dettagliata pubblicata in Italia sull’industria del risparmio gestito.
Già ne ho parlato, nel post La debacle dei fondi comuni italiani. Ma vale la pena tornarci su, con qualche dettaglio in più.
L’ultimo rapporto di Mediobanca, pubblicato a fine luglio, è l’ennesima radiografia di un’industria in profonda crisi: di risultati, di credibilità, di qualità.
I costi medi dei fondi italiani si aggirano attorno al 2,5% per gli azionari (e non l’1% come sostengono Sabella e De Felice su CorrierEconomia), e all’1,1% per gli obbligazionari, pari a circa il triplo dei costi dei fondi statunitensi nel settore azionario e al doppio in quello obbligazionario.
Le performance sono “insoddisfacenti,” a detta di Mediobanca. Fallimentari, a mio modo di vedere.
Nel complesso, come recita il rapporto, “dalla loro nascita ad oggi i fondi italiani hanno fruttato agli investitori un rendimento medio annuo del 6,7%, inferiore a quello dei Bot a 12 mesi (7,2%) di 0,5 punti, nonostante la più elevata componente di rischio.”
Limitandosi al comparto azionario, come dimostra la tabella qui sotto, tratta dal rapporto, il rendimento medio annuo si è fermato nel ventennio 1986-2006 al 4,0%, rispetto al 6,6% dell’indice Mediobanca total return della borsa di Milano, e al 9,6% del MSCI World espresso in euro – il benchmark più appropriato rispetto al quale misurare la performance complessiva dei fondi azionari.

In termini assoluti, il gap di performance (un abissale 5,6% annuo) si è tradotto in un mancato arricchimento di enormi proporzioni per gli investitori italiani: nel ventennio i fondi azionari si sono apprezzati del 117,6%, poco più di un quinto del 521,8% fatto segnare dall’indice total return delle borse mondiali. E la situazione, in anni più recenti, non è migliorata. Nell’ultimo decennio, ad esempio, il risultato dei fondi azionari è rimasto “assolutamente modesto”, come scrive Mediobanca, con un rendimento medio annuo del 3,9% contro il 15,0% della Borsa italiana e il 7,2% di quelle mondiali.
Può bastare. Ognuno può giudicare da sé quanto il servizio di CorrierEconomia abbia “tutelato i diritti” del lettore – diritti, verrebbe da pensare, anche a un’informazione veritiera, leale e indipendente.
Etf e performance esagerate
Giriamo dunque pagina. Nella terza della sezione “Investimenti”, sempre dell’ultimo CorrierEconomia, si affaccia un articolo di Francesca Monti, che presenta l’ennesima classifica di performance di fondi: “Nel campionato d’Europa gli Etf battono i fondi 3 a 1”, recita il titolo.
Scrive la collega Monti:
“Solo tre su dieci ce l’hanno fatta. Da quel 30 settembre 2002, data ormai storica dell’esordio ufficiale sul listino di Piazza Affari dei primi Etf, i prodotti che replicano fedelmente l’andamento di un indice, su 138 fondi specializzati sulle Borse del Vecchio Continente solo 40 (pari al 29% per l’appunto) hanno surclassato il risultato netto dei “cloni”. Una minoranza netta, ma non banale se si pensa che sui mercati molto efficienti in genere solo il 10% dei gestori batte il benchmark.”
“Sono questi i risultati dell’analisi condotta da CorrierEconomia per valutare la bravura dei gestori a cinque anni esatti dalla nascita dei primi replicanti.”
Ah, bravo CorrierEconomia e bravi gestori, verrebbe da dire. Gli Etf sono prodotti efficienti, ma un terzo dei gestori ce l’ha fatta a batterli, ed è un risultato tre volte migliore di quello che ci si poteva aspettare. Bene! Seguono, ovviamente, tra squilli di tromba, le liste con le performance dei “campioni”.
Ma sarà vero? Sul valore di questi articoli già mi sono dilungato, qualche mese fa, nel post Classifiche dei fondi: come evitare le trappole. E’ utile però tornarci su.
Un ottimo strumento di verifica a cui chiunque può avere accesso è il sito di Morningstar, leader indiscusso nell’analisi del mercato mondiale dei fondi comuni.
Vediamo ad esempio di controllare il fondo UBI Pramerica Azioni Euro, il primo tra i fondi italiani nella classifica di CorrierEconomia per l’area euro, al quinto posto assoluto. E’ un fondo che sia a tre che a cinque anni ha fatto molto meglio della media, tant’è che Morningstar gli assegna cinque stelle, e cioè il voto massimo.
Ma ha fatto meglio del benchmark? No, né a tre né a cinque anni. E qual è il benchmark, correttamente indicato da Morningstar? Non certo l’Eurostoxx 50 o lo Stoxx 50, scelti arbitrariamente da CorrierEconomia per le sue classifiche. Sono infatti indici troppo ristretti, comprensivi soltanto dei 50 titoli più importanti della zona euro o del mercato europeo.
Il benchmark giusto per UBI Pramerica Azioni Euro è l’indice MSCI EMU, che negli ultimi cinque anni ha avuto risultati molto superiori all’Eurostoxx 50.
La spiegazione è semplice. Il ciclo di mercato iniziato a cavallo tra il 2002 e il 2003 è stato caratterizzato dalla costante e sostenuta outperformance di particolari settori del mercato, come le small e mid caps o i titoli value.
I più penalizzati sono stati i titoli growth e le large caps, sovrarappresentati in indici (e in Etf) come l’Eurostoxx 50 o lo Stoxx 50.
E’ un ciclo che forse si sta già chiudendo, e che comunque sarebbe un grave errore proiettare nel futuro. I settori migliori del ciclo passato tendono a trasformarsi nei peggiori del ciclo futuro. E un simile destino soffrono i fondi, che abili o fortunati a interpretare una fase di mercato vengono poi traditi dall’alternarsi delle stagioni di Borsa: è così che i campioni di un ciclo diventano spesso i “brocchi” di quello successivo.
Ma verifichiamo un altro caso, quello del fondo GrifoEurope Stock di Capitalgest Sgr, primo tra gli italiani nella classifica di CorrierEconomia per l’azionario europeo, e quarto in assoluto.
Il benchmark indicato da Morningstar, in questo caso, è l’MSCI Europe Value, dato che il fondo investe prevalentemente in titoli value. Lo batte? No, né a tre né a cinque anni. Anzi, se ne discosta nettamente, tanto da ottenere da Morningstar non più di tre stelle, un rating mediocre.
Qual è la conclusione? L’analisi di CorrierEconomia è metodologicamente sbagliata e produce risultati ingannevoli. Esalta agli occhi del lettore dei presunti “campioni”, che quasi sempre – in realtà – hanno ottenuto risultati peggiori del mercato di riferimento. Alimenta l’illusione che trovare fondi comuni che sanno battere i benchmark, anche su orizzonti di non brevissimo respiro, non sia poi così difficile.
E’ un errore. Non è così, come documenta, anche se limitatamente al caso italiano, la ben più attendibile indagine di Mediobanca, da cui riprendo il grafico che segue:

Sulla totalità dei fondi comuni italiani, solo il 14% ha battuto il benchmark nel 2006 e solo il 2% c’è riuscito nel quinquennio 2002-2006. Per il solo comparto azionario, le percentuali non sono molto diverse.
Dai media così come dalle banche in conflitto d’interessi il piccolo investitore impari dunque a guardarsi.
Mi piace:
Mi piace Caricamento...