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Il mercato delle idee: Cina, dollaro e inflazione

Tra gli articoli degli ultimi giorni che ho trovato d’interesse ce n’è uno che individua delle analogie tra la situazione di oggi e i contesti in cui maturarono i crash del ’29 e dell”87. Questa volta, nel mirino, ci sarebbero i mercati cinesi. Un’altra analisi osserva tre fasi nel declino del dollaro e conclude che la sua svalutazione è destinata a continuare con ricadute negative sull’inflazione negli Usa.

Ecco i link a queste e ad altre storie.

Bolle e crash, come nel ’29 e nell”87

Interessante post su Alphaville, l’ottimo blog del Financial Times, che riprende un articolo di John Plender in cui si analizzano profonde affinità tra il crash del 1929, quello del 1987 e la situazione attuale.

All’origine delle crisi di mercato del ’29 e dell’’87 ci furono cambiamenti nei rapporti di potere tra un grande paese emergente e il centro del sistema economico internazionale, ossia Usa e Gran Bretagna nel ’29 e Giappone e Usa nell’87. Oggi la situazione sembra ripetersi, a grandi linee, nella relazione tra USA e Cina.

In tutti questi casi il perseguimento di politiche protezionistiche da parte della potenza emergente ha portato a crescenti squilibri nelle bilance dei pagamenti. E la manipolazione dei mercati valutari, tesa a limitare il deprezzamento della valuta dominante (la sterlina nel ’29, il dollaro nell’87 e oggi) ha finito per gonfiare enormi bolle speculative nei mercati della potenza emergente (Usa negli anni ’20, Giappone negli anni ’80, la Cina ai nostri giorni).

L’esito di questi processi è stato un crash catastrofico negli Usa degli anni ’30, con profonde ripercussioni sull’economia globale, e nel Giappone degli anni ’90, con conseguenze però in gran misura limitate a quel paese.

La conclusione dell’analisi di Plender è che un crash dei mercati cinesi appare ora l’esito più probabile degli squilibri attuali. Quali però potranno essere le ripercussioni a livello globale resta da capire.

L’insostenibile leggerezza del dollaro

Il destino del dollaro sembra segnato. Lo scrive sul Wall Street Journal Richard Clarida, professore alla Columbia University, ex sottosegretario al Tesoro e ora consulente strategico globale di Pimco, il primo asset manager obbligazionario al mondo. E le opinioni di Clarida sono riprese e condivise da Barry Ritholtz nel suo blog, The Big Picture.

Il declino del biglietto verde, come documenta il grafico che riproduco qui sotto, ha attraversato dal 2001 tre fasi, scandite dagli orientamenti di politica monetaria della Federal Reserve.

Dal 2001 al 2004, con l’economia Usa in anemica ripresa e la Fed impegnata ad allentare drasticamente la leva dei tassi fino all’1%, il dollaro non ha fatto che deprezzarsi. E’ poi seguito un periodo di consolidamento, dall’estate 2004 all’estate 2006, che ha coinciso con l’irrobustirsi dell’espansione economica e la decisione della Fed di dare il via a una serie di “misurati” rialzi dei tassi.

A partire dall’agosto 2006 il dollaro ha però ripreso a deprezzarsi, via via che si manifestava un rallentamento dell’economia e la Fed si orientava prima verso una “pausa” nella stretta monetaria e poi invertiva rotta dando avvio a un nuovo ciclo di tagli.

Scoppio della bolla immobiliare e crisi creditizia forzeranno la Fed a mantenere espansiva la politica monetaria ancora a lungo. Questo servirà, forse, a evitare o quanto meno a rendere meno severa una recessione.

Ma come nota Ritholtz, riprendendo il detto reso famoso da Milton Friedman, in economia “non ci sono pasti gratuiti.” Il prezzo da pagare sarà un dollaro sempre più debole e, almeno negli Usa, il rischio di indesiderate pressioni sui prezzi.

Le probabilità di una recessione? Al 38%

Nel post Mercati predittivi e recessione negli Usa avevo parlato di uno strumento innovativo per monitorare i rischi di recessione negli Usa, un evento che per i mercati globali resta una delle minacce più incombenti.

Si tratta del contratto US.recession.08, scambiato sul mercato predittivo di Intrade. Il contratto segnala, mentre scrivo, una probabilità del 38% che l’economia americana cada in recessione nel prossimo anno.

Come evidenzia il grafico che riproduco qui sotto, le quotazioni hanno subito sensibili oscillazioni nel corso degli ultimi due mesi, in un ampio range tra il 30% e il 60%. I rischi sono comunque elevati, in un contesto che viene percepito dagli investitori come particolarmente volatile e incerto.

Le società più rispettate al mondo

Come ogni anno, Barron’s ha sondato i money manager americani per stilare una classifica delle società “più rispettate” al mondo.

Al primo posto – e mi fa piacere – c’è Berkshire Hathaway del grande Warren Buffett. Seguono Johnson & Johnson, Toyota Motor, Procter & Gamble, General Electric, Microsoft, Nestlé, Apple, Cisco Systems ed ExxonMobil.

Tra le europee, dopo Nestlé, si segnalano Novartis, Nokia, Roche e Royal Bank of Scotland.

E le italiane? Sottorappresentate, ma non del tutto assenti: nella top 100 riescono a entrare Eni (83esima), Unicredito Italiano (86esima) e Intesa Sanpaolo (92esima). Per tutte e tre si tratta di un passo avanti rispetto al ranking dello scorso anno.

C’è, insomma, anche un’Italia che in quanto a credibilità internazionale riesce a fare progressi. La classifica completa è consultabile su MSN Money.

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Il mercato delle idee: curve, commodities e bolle

Tra gli articoli recenti che vado a esporre nel mercato delle idee ci sono le riflessioni di Barry Ritholtz sui dati americani sull’inflazione, un ammonimento di Mike Panzner tratto dall’andamento della curva dei rendimenti, le previsioni di PIMCO, che resta bullish sui mercati delle commodities, un’interessante ricerca di Michael Mauboussin sull’importanza del carattere per un investitore, le considerazioni di Northern Trust sui tratti sempre più speculativi del rally del mercato azionario cinese.

Le borse si sono entusiasmate per gli ultimi dati sull’inflazione Usa. Ma le statistiche sono ingannevoli, come ben argomenta Barry Ritholtz in The Big Picture.

La curva dei rendimenti Usa, dopo un protratto periodo di inversione, è tornata ad avere un’inclinazione positiva, in seguito al brusco rialzo dei tassi a lunga. Chi ha interpretato positivamente la novità, e sono i più, rischia di sbagliarsi di grosso, come mostra Mike Panzner su Bloggingstocks.

Il pessimismo sul dollaro va molto di moda. Eppure, forse anche per questo, il biglietto verde potrebbe essere a una svolta. Di nuovo Mike Panzner nel suo blog .

Bill Gross, “re dei bond” e fondatore di PIMCO, illustra le previsioni di medio-lungo periodo del suo gruppo: crescita globale sostenuta, tassi in ripresa, dollaro sempre debole, borse OK e rally di materie prime e valute emergenti.

Per BCA Research i mercati azionari restano attraenti rispetto agli asset concorrenti, anche dopo la recente ascesa dei rendimenti obbligazionari. Il consiglio è di continuare a comprare nelle fasi di debolezza (“buy the dips”).

L’ultimo paper di Michael Mauboussin è, come sempre, affascinante. Sono i tratti del carattere quelli che distinguono i grandi investitori, come d’altra parte sembra avere ben chiaro Warren Buffett nella ricerca di un successore alla guida del suo gruppo. Quali sono le caratteristiche che Buffett ritiene essenziali? L’abilità di riconoscere ed evitare i rischi gravi, la capacità di pensare in modo indipendente, la stabilità emotiva e il talento nel comprendere i comportamenti umani.

Ticker Sense ogni settimana tasta il polso di oltre 50 tra i più noti blogger finanziari, per conoscere le loro attese sui mercati azionari. Il sentiment resta in prevalenza negativo, una condizione che ha accompagnato tutto il rally dell’ultimo anno.

Crosscurrents di Alan Newman documenta il fervore speculativo che anima la Borsa americana. I volumi negoziati sono tornati a superare un multiplo di tre volte il Pil per la seconda volta nella storia (la prima, ovviamente, è stata nel 2000), l’holding period medio di un titolo azionario è sceso verso i 6 mesi, e la liquidità detenuta dai fondi è crollata ai livelli più bassi di sempre. Conclusione? Gli investitori sono quasi scomparsi e domina il trading di breve periodo in un mercato ipercomprato. Newman prevede una correzione almeno del 15% entro l’autunno.

Think BIG di Bespoke Investment Group osserva come il rally dei rendimenti obbligazionari americani, che alle scadenze decennali hanno superato di gran corsa la soglia del 5%, abbia colpito l’immaginazione dei media. Ne hanno parlato tutti con grande rilievo, anche i piccoli giornali di provincia, tra attese di continui rialzi. Quando il sentiment si fa così estremo – commenta il blog – è probabile che un massimo, per lo meno di breve periodo, sia stato raggiunto.

Northern Trust analizza la bolla del mercato azionario cinese, simile ormai al Nasdaq di fine anni ’90. Non solo il multiplo P/E ha toccato il livello irragionevole di 44 volte gli utili dello scorso anno, ma la volatilità è sempre più elevata, segno di un mercato molto speculativo. Solo negli ultimi sei mesi ci sono state 11 sedute in cui l’indice di Shanghai ha chiuso con variazioni superiori al 4%. Benché manchino dati precisi, c’è ampia evidenza del fatto che i piccoli investitori cinesi, che contano anche per l’80% delle transazioni nelle giornate più attive, ricorrono ampiamente al debito per “giocare” in borsa. Quando la bolla scoppierà – e non c’è dubbio che scoppierà – sarà difficile per le autorità evitare gravi ripercussioni sociali. E il colpo che verrà inferto ai consumi dell’emergente classe media cinese finirà per pesare sull’export di tutto il continente asiatico.

Sei ragioni per cui l’ascesa dei rendimenti obbligazionari è una minaccia per i mercati azionari: le illustra Barry Ritholtz su The Big Picture.

L’oro, negli ultimi mesi, ha subito una sensibile correzione. Ma per Prieur du Plessis c’è un lungo bull market ancora davanti a noi. Le analogie con il ciclo degli anni ’70, analizzate in un post sul blog Investment Postcards from Cape Town, sono suggestive.

 

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