l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

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Buffett, Gross e gli schemi di Ponzi delle banche

Gli analisti tecnici di Credit Suisse hanno messo in luce, in uno studio di questi giorni, tutta una serie di analogie nel comportamento dei mercati tra l’attuale crisi del credito e la crisi delle Savings & Loans (casse di risparmio) americane del 1990. Il movimento degli indici azionari, l’entità del crollo del settore finanziario (con perdite superiori al 50%, allora come oggi, per un titolo guida come Citigroup), persino l’andamento del prezzo del petrolio o le punte elevate di pessimismo nel sentiment degli investitori presentano, fin qui, molte somiglianze.

Se i parallelismi continueranno – conclude Credit Suisse – un fondo ai ribassi delle Borse dovrebbe essere toccato a febbraio, con un panic bottom in prossimità di quota 1300 per l’S&P 500.

L’inversione di rotta dovrebbe a quel punto essere segnalata dalla stabilizzazione prima, da un gran rally poi del settore finanziario.

Nei sei mesi successivi al raggiungimento dei minimi, nell’ottobre 1990, i titoli finanziari, pesantemente ipervenduti, segnarono un avanzamento del 50% risultando di gran lunga il settore migliore del mercato. Progressi quasi insignificanti furono invece fatti registrare dai leader della precedente fase di ribassi: telefonici, servizi di pubblica utilità, energetici.

Che dire? Questo genere di confronti piace molto agli analisti tecnici, forse anche perché produce grafici di grande impatto visivo. Ma il raziocinio e un po’ di esperienza me ne fanno diffidare.

I mercati finanziari e la crisi del credito di oggi sono troppo diversi da quelli del 1990 perché ogni apparente analogia nel comportamento di alcuni indicatori non si dimostri, a lungo andare, come in larga misura casuale.

C’è però un dato dell’analisi di Credit Suisse che mi pare più interessante e fondato. Senza una stabilizzazione e una ripresa del settore finanziario americano (l’epicentro della crisi di allora come di quella di oggi) è improbabile che i mercati azionari abbiano la forza di imboccare un trend rialzista.

In America come altrove, le banche sono troppo importanti per il buon funzionamento dell’economia e hanno un peso troppo rilevante negli indici di Borsa per pensare che senza il loro contributo la crisi possa essere lasciata alle spalle.

Grafici da brivido

Uno sguardo alla performance del settore bancario offre per ora scarso conforto.

Ecco quanto sta succedendo negli Usa, in un grafico realizzato grazie a StockCharts:


E quanto sta accadendo in Europa, in un grafico accessibile sul sito Stoxx.com (il settore bancario, confrontato all’indice Stoxx TMI, è indicato dalla linea più chiara):


Un’impressione se possibile ancora peggiore la dà il seguente grafico di lungo periodo, relativo ai titoli bancari americani, che Marty Chenard ha pubblicato sul sito Safe Haven qualche giorno fa:


Come si vede, il tracollo degli ultimi mesi ha prodotto la netta rottura di una trendline rialzista risalente addirittura al 1994.

La velocità e la profondità del movimento più che far presagire imminenti inversioni del trend, agitano inquietanti interrogativi sui rischi di un devastante crash. E richiamano alla mente un vecchio detto di Wall Street: le azioni, quando salgono, usano le scale, ma quando scendono, prendono l’ascensore (“a stock takes the stairs up, but the elevator down”).

I grafici di prezzo, naturalmente, ci raccontano solo dei movimenti di superficie. Non ci aiutano a capire se ci sia o non ci sia “valore” nei mercati. Per questo, bisogna guardare più in profondità, o ascoltare chi ha la capacità di farlo.

Buffett e le banche

Nel periodo di Natale mi era sfuggita. Ma fortunatamente, nei giorni scorsi, sono riuscito a ripescare dal mio Google Reader un’intervista della CNBC a Warren Buffett (nella foto in alto), del 26 dicembre.

Si tratta, come sempre, di un Buffett arguto, rilassato e divertente, che discute in primo luogo la sua acquisizione del gruppo Marmon (con la quale, dice, si è finalmente “guadagnato lo stipendio” per il 2007, visto che fino a Natale non aveva fatto altro che “bighellonare”!).

A un certo punto, l’intervista passa al tema del giorno, e cioè le banche.

Con diversi grandi gruppi intenti a fare pulizia nei conti, ad annunciare enormi svalutazioni di asset e a cercare di ricapitalizzarsi, a Buffett viene chiesto se non sia stato anche lui contattato, visto che è noto come nei bilanci di Berkshire Hathaway, la sua holding, ci siano 40 miliardi di dollari in cash, che attendono occasioni propizie per essere investiti.

Buffett conferma che sì, è stato avvicinato (“la gente conosce il nostro numero di telefono”) e gli sono state fatte delle proposte di investimento. Ma “we haven’t seen anything we want to move on […] so far we have not seen a deal that causes me to start salivating” (“Non abbiamo visto nulla su cui vogliamo muoverci…non ho ancora visto un affare che mi faccia venire l’acquolina in bocca”).

Nel settore bancario, insomma, per Buffett ci sono ancora più rischi che opportunità. Sommariamente, l’Oracolo di Omaha qualche motivo lo accenna: i problemi sono tali che “non possono essere risolti in un breve lasso di tempo”, certi utili messi a bilancio erano “illusori” e ora pulizia dovrà essere fatta, e questo significa che per un po’ di anni è probabile che alcune della grandi banche “non saranno in grado di riportare i loro profitti al top.”

Ingegneria finanziaria e nuovi prodotti derivati hanno spinto molti gruppi creditizi nei guai. E rimettere ordine non sarà facile.

Citando il Ceo di Wells Fargo, Buffett osserva: “I don’t know why the banks had to find new ways to lose money when the old ones were working so well” (“Non capisco perchè le banche abbiano dovuto andare in cerca di nuovi modi per perdere soldi quando quelli vecchi funzionavano così bene”).

Gross e le banche

Buffett non lo dice, ma è probabile che avesse in mente alcuni dei ragionamenti che un altro grande asset manager, Bill Gross di PIMCO, ha invece esplicitato nella sua ultima lettera mensile agli investitori.

L’enorme crescita di sempre più esotici prodotti derivati nel mercato del credito, finiti per lo più in pancia a quei nuovi, oscuri e poco regolati attori che vanno sotto il nome di conduits, SIVs e hedge funds (il cosiddetto “sistema bancario ombra”), ha finito in questi anni per assumere i tratti di una colossale fioritura di schemi di Ponzi, dove il gioco poteva durare finchè i mercati (e il credito) si espandevano.

Non ci sono, osserva Gross, solo i problemi risalenti al mercato della casa: i mutui subprime e le cartolarizzazioni, che per un po’ hanno consentito di ignorare o di oscurare i rischi impliciti in pratiche di credito immobiliare troppo disinvolte, ma che alla fine arriveranno a infliggere almeno 250 miliardi di dollari di perdite ai bilanci delle banche.

Un’altra bomba in attesa di scoppiare è quella dei Credit Default Swaps (CDS), derivati nati negli anni ’90 con finalità di assicurazione contro i rischi di insolvenza sui debiti societari.

Il mercato, che non è organizzato, e dove i rischi sono concentrati tra le due controparti di ogni contratto, è cresciuto a dismisura in questi ultimi anni di vacche grasse e liquidità a go go, raggiungendo, a fine 2007, un valore di 43 mila miliardi di dollari, pari – nota Gross – a oltre la metà degli asset del sistema bancario globale.

I CDS in genere non sono supportati da garanzie, né dall’accantonamento di riserve da parte del “protection seller”, e cioè la controparte (in genere una banca) che assicura contro il rischio di default.

Sono insomma andati configurandosi come un’industria assicurativa follemente speculativa, senza adeguati controlli e senza capitali messi a riserva nel caso di perdite.

Stima Gross che se i default su prestiti societari saliranno nel 2008 verso la media storica dell’1,25%, che è poi più o meno quanto prevedono Moody’s e S&P’s, le perdite a carico dei “protection seller” potrebbero ammontare ad altri 250 miliardi di dollari – facendo così raddoppiare l’entità del salasso ascrivibile alla crisi dei mutui subprime.

La conclusione di Gross è che il sistema bancario è miseramente sottocapitalizzato per far fronte al collasso di tutti questi “schemi di Ponzi.” Alcuni istituti salteranno, altri saranno ridimensionati. La forzata contrazione nell’attività di credito (credit crunch) renderà inevitabile una recessione.

Il “sistema bancario ombra” scomparirà e chi sopravvivrà – grazie anche agli energici interventi di politica monetaria e fiscale che le autorità metteranno in campo (Gross si aspetta i Fed Funds al 3% entro giugno) – si ritroverà in un sistema finanziario diverso, con nuovi rischi ma, sicuramente, meno effetto leva.

Dunque, riassumendo, per Buffett il fondo della crisi è ancora lontano e ci vorranno anni per completare il lavoro di pulizia. Per Gross è scoppiata una bolla epocale fatta di speculazioni e schemi piramidali che costringerà a ridisegnare il sistema finanziario americano e globale.

Per ogni investitore accorto non può che essere tempo di paziente attesa e grande cautela. Alla fine, per chi avrà saputo aspettare, le opportunità si ripresenteranno.

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Il mercato delle idee: Rally, rischi e black box

Nel Mercato delle Idee presento una serie di link ad articoli interessanti. Quelli qui raccolti trattano temi come la crisi finanziaria di agosto, la fuga dal dollaro, il ruolo crescente ma oscuro degli hedge fund, il rally delle materie prime e i rischi d’inflazione, il collasso del mercato americano della casa, le contrastanti valutazioni sulla possibilità che una recessione sia alle porte.

Mercati

Buttonwood su l’Economist si chiede se la crisi finanziaria di agosto assomigli di più a quella del 1990 (collasso delle Casse di Risparmio americane), che sfociò in una recessione e in un pronunciato calo delle Borse, o a quella del 1998 (default russo e crollo del fondo LTCM), che fu seguita da un anno e mezzo di scapigliata speculazione rialzista sull’onda delle riduzioni dei tassi decise dalla Fed (da allora in poi descritte col nomignolo di “Greenspan put”). Non ci vorrà molto per capirlo. Ma il consiglio è di monitorare attentamente tre fattori che potrebbero annunciare l’arrivo di tempi bui: un aumento degli spread sui mercati del credito, una ripresa dell’inflazione, e una fase di improvvisa forza dello yen (che indicherebbe una fuga dal rischio da parte degli investitori più aggressivi, i quali fino ad oggi si sono indebitati in yen per investire con leva su altri mercati). Il primo fenomeno è già accaduto (anche se non nelle dimensioni del 1998), il secondo è diventato più probabile (se ha un senso la corsa a vendere dollari e a comprare oro dopo il recente taglio dei tassi da parte della Fed), ma del terzo, per ora, non c’è traccia. L’appetito per il rischio è dunque ancora elevato. Anche se si sa che sulla stabilità e durevolezza degli appetiti degli investitori non è consigliabile fare affidamento.

Anche Bespoke Investment Group fa confronti, in questo caso di natura grafica e con l’andamento dell’S&P 500 nelle crisi del 1987 e del 1998. Risultato? Come appare evidente (vedi sotto), sembrano esserci davvero pochi paralleli.

Banking Credit Analyst riflette sulle caratteristiche dei flussi d’investimento emersi dalla crisi estiva. I due temi portanti sono “go global” (e cioè diversificazione a livello globale, soprattutto a beneficio dei mercati emergenti) e “via dall’epicentro della crisi” (e cioè mercato immobiliare Usa, mutui subprime e, in genere, il dollaro). I beneficiari di questi flussi sono, nel complesso, i mercati azionario e delle commodities, e le valute più lontane dal dollaro. Per BCA si tratta di trend destinati a durare.

Mark Hulbert è uno specialista dell’analisi del sentiment del mercato, che fa da decenni basandosi soprattutto sulle raccomandazioni degli autori di newsletter finanziarie in America. L’assunto di fondo di tale analisi è che, agli estremi, panico ed euforia sono indicatori contrari: quando ci sono troppi pessimisti il mercato è probabilmente vicino al fondo, e viceversa, quando ci sono troppi ottimisti, un picco non è lontano. Come interpretare, su queste premesse, il rally dell’oro, che a settembre ha varcato di gran corsa la soglia dei 700 dollari l’oncia? Hulbert ha verificato che il sentiment è molto più cauto oggi di quanto non fosse nel maggio del 2006, quando l’oro si spinse una prima volta verso livelli analoghi. Il rally attuale, insomma, sembra poggiare su basi molto più solide.

Ken Fisher, figlio d’arte, grande investitore, e columnist di lungo corso per Forbes, dove tiene una rubrica che ha azzeccato con raro tempismo quasi tutti i grandi punti di svolta dei mercati azionari nell’ultimo ventennio, è rimasto fedele al campo dei Tori durante tutta la crisi estiva delle Borse. Nel suo ultimo articolo per Forbes enuncia “quattro ragioni” alla base della convinzione che quella estiva è stata solo una correzione in un rally destinato a continuare. Meritano di essere attentamente ponderate. Dice Fisher che l’ascesa e poi il crollo dei mercati, nel corso degli ultimi mesi, sono stati troppo ripidi per assomigliare alla fine di un bull market e all’inizio di un bear market. Queste transizioni da un ciclo all’altro sono in genere lente e graduali. In secondo luogo, non esiste bear market che prenda l’avvio da “notizie vecchie” e risapute. Ci vogliono fatti nuovi. E la crisi del mercato subprime non lo è. Era da anni che tanti investitori avevano messo in conto il crollo dell’enorme mucchio di prestiti facili e dissennati contratti nel mercato immobiliare americano.

Il terzo motivo è che il credit crunch di cui tanto si parla è per Fisher una contrazione del credito che, almeno nel settore corporate, fa solletico più che paura. Nel 2000 gli spread tra titoli del Tesoro e junk bond si allargarono all’improvviso di tre o quattro punti percentuali. Oggi si sono allargati di un punto per poi tornare a restringersi, e gran parte dell’aumentato differenziale è stato provocato dalla discesa dei rendimenti dei titoli del Tesoro più che da un’impennata di quelli dei junk bond: uno sviluppo tutt’altro che negativo. Infine c’è il pessimismo dei media, che per Fisher è sempre presente nelle correzioni di un bull market e mai quando un bull market cede finalmente il passo a un bear market. Insomma, finchè i pessimisti di oggi non diventeranno ottimisti c’è per Fisher un buon motivo per pensare che il rally delle Borse continuerà, con il suo epicentro nei mercati emergenti dell’Asia.

Delle cause della crisi di agosto ho già scritto nel post Derivati, armi di distruzione di massa? riservandomi di tornarne a parlare con l’aiuto di un grande esperto come Satyajit Das. Lo farò, ma per ora, per quanti masticano l’inglese, vorrei proporre un suo testo recente, un po’ lungo ma illuminante: “Credit crunch, the new diet snack for financial markets”. E aggiungere il link a un articolo del New York Times che fa riferimento a un paio di altri studi di autori importanti come Andrew Lo del MIT e Clifford Asness di AQR, un grande e prestigioso hedge fund pure scosso dalla crisi. Tra le analisi di questi autori ci sono molti punti in comune: il moltiplicarsi di hedge fund ha aumentato il rischio nei mercati, il fatto che molti perseguono strategie simili ha ridotto i ritorni, sollecitando l’impiego di una leva finanziaria sempre maggiore. In caso di improvvise difficoltà di qualche grosso player (come è accaduto ai primi di agosto tra gli hedge fund quantitativi) le liquidazioni forzate che ne derivano portano a un “impazzimento” caotico dei mercati più diversi, con conseguenze negative che ricadono a cascata su un numero via via crescente di investitori.

A proposito di hedge fund, un articolo del Financial Times riporta i risultati di uno studio di Hedge Fund Intelligence: nei primi sei mesi dell’anno gli asset amministrati da fondi hedge a livello globale sono aumentati del 19% raggiungendo i 2.500 miliardi di dollari. Se si tiene conto della leva finanziaria spesso impiegata da questi fondi, e della segretezza con cui operano, si capisce perché molti cominciano a preoccuparsi del fatto che sono dei misteriosi “black box” (scatole nere) a farla sempre più da padroni sui mercati finanziari.

Un articolo di Bloomberg mette in rilievo i caratteri travolgenti del rally in corso delle materie prime. Nel mese di settembre l’indice CRB ha guadagnato l’8,1%, sospinto dall’ascesa dei prezzi del grano, del petrolio e dell’oro. Si tratta del risultato migliore dal luglio del 1975. Il riferimento alla metà degli anni ’70, quando la prima crisi petrolifera, innescata dal conflitto tra arabi e israeliani, fece esplodere l’inflazione, fa pensare. Oggi la domanda di materie prime è sostenuta dall’impetuoso processo di industrializzazione della Cina, un fattore a cui durante l’estate si è aggiunto il sospetto che per contrastare la sempre più profonda crisi immobiliare negli Usa la Federal Reserve tornerà a inondare i mercati di liquidità. I rischi d’inflazione sono dunque in aumento. E in tempi d’inflazione, sono gli asset reali (come le materie prime) a offrire la protezione migliore.

Delle scomode opzioni che la Federal Reserve ha davanti a sè si occupa Bill Gross, il “re dei bond”, nella sua lettera mensile agli investitori. Il problema per la banca centrale americana è la situazione schizofrenica tra un settore corporate in buona salute e milioni di famiglie che rischiano di finire sul lastrico, affossate dai debiti e da un mercato della casa in caduta libera (vedi grafico sotto). Scrive Gross: “Se Bernanke fa finta di nulla e congela i tassi, rischia di esacerbare una crisi immobiliare in pieno sviluppo. D’altra parte, se decide di favorire le famiglie a scapito delle imprese, il rischio è di tornare ad accendere comportamenti speculativi nel mercato azionario, e di provocare una fuga dal dollaro.” Cosa farà la Fed? Cercherà probabilmente una via mediana ma efficace nel contrastare una crisi del mercato della casa destinata a restare per anni al centro delle sue preoccupazioni. Per Gross questo significa che nei prossimi 6-12 mesi i tassi a breve dovranno scendere a livelli non superiori all’1% reale, pari al 3,75% in termini nominali – molto più in basso, insomma, di quanto non sia al momento scontato dal consenso degli investitori.

Una sintesi efficace della performance dei mercati mondiali alla fine del terzo trimestre, espressa in termini di valuta locale, è pubblicata da Bespoke Investment Group. Svettano i guadagni di petrolio, oro e mercati emergenti; tra le Borse sono quelle dei cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) a guidare la classifica.

Economia

Paul Kasriel di Northern Trust riassume in un recente articolo la sua valutazione dello stato dell’economia Usa. Kasriel parla di una “growth recession” (recessione con crescita), cioè di un’economia che cresce meno del suo potenziale e che vede dunque diminuire la capacità utilizzata e aumentare i disoccupati, con rischi elevati di una vera e propria recessione nell’immediato futuro. Il pericolo viene dal mercato della casa, il cui collasso sta inducendo le famiglie a mettere un freno ai consumi. Sono diversi gli indicatori che confermano come gli Usa siano ad appena un passo dalla recessione: dal LEI (Index of Leading Economic Indicators, da noi noto come superindice economico), al rapporto tra occupati e popolazione (che ha iniziato a calare, come è accaduto all’inizio di ogni recessione degli ultimi decenni), all’indicatore di Kasriel (“Kasriel Recession Warning Indicator” o KRWI, vedi grafico sotto), composto dal tasso di variazione annua della base monetaria in termini reali, e dalla media mobile a quattro trimestri dello spread tra tassi decennali e Fed Funds.

Nota Kasriel che, assieme, l’andamento reale della base monetaria e la curva dei rendimenti hanno sempre dato segnali affidabili di recessione negli ultimi 50 anni. Quest’anno hanno emesso un “segnale qualitativo” o debole, nel senso che sono scesi leggermente in territorio negativo per poi rimbalzare, seppur di poco. Ci troviamo, insomma in una situazione di grande incertezza e notevoli rischi, a cui la Fed, ad avviso di Kasriel, ha cominciato a rispondere con una manovra di riduzione dei tassi che con ogni probabilità continuerà in modo aggressivo nei mesi a venire.

A misurare i rischi di recessione c’ha provato anche un sondaggio di Rothstein Kass tra i manager di hedge fund americani. Hanno risposto in 239, e per il 61% del campione una recessione è “molto probabile” nel 2008. L’87%, messo evidentemente sul chi va là dagli scossoni dell’estate, ha anche previsto un aumento della volatilità nei mesi a venire. Ma, si sa, per gli hedge questo non è un problema.

Una stima ben diversa la fa invece il campione eterogeneo di investitori istituzionali che Merrill Lynch sonda ogni mese nella sua nota e molto seguita “Global Fund Manager Survey”. Riferisce David Rosenberg che, nel più recente sondaggio, solo il 7% vedeva rischi di recessione per il prossimo anno. E’ presumibile, dunque, che se una recessione dovesse davvero prendere piede, si abbatterebbe come una sorpresa di grande impatto sui mercati globali. E qual è la stima di Merrill Lynch? In base al loro modello, il rischio viene quantificato al 70%. E’, insomma, molto alto.

Un tassello del puzzle che ancora manca per arrivare a dire che una recessione negli Usa è inevitabile è sicuramente l’ISM manifatturiero, un sondaggio tra i responsabili degli acquisti che ha dimostrato nel tempo di predire correttamente, con un trimestre circa d’anticipo, l’evoluzione del Pil. Il rapporto di settembre è uscito due giorni fa, e come nota Northern Trust, ha evidenziato un indebolimento per il terzo mese di fila. Ma il dato di 52 resta per ora sopra la soglia di 50, che individua il punto di demarcazione tra espansione e contrazione dell’attività economica.

Un utile sommario dello stato del mercato della casa, l’origine dei problemi americani, lo offre Barry Ritholtz nel suo blog. Le tabelle alla fine del post, tratte dal New York Times, rendono con efficacia l’asprezza del tonfo. Non solo i prezzi delle case sono in caduta libera, ma se si dà credito ai contratti future, una stabilizzazione dei prezzi non è prevista prima del 2010. La crisi, insomma, è appena agli inizi.

Politica e media

La fiducia degli americani nell’amministrazione federale, stando all’ultimo sondaggio Gallup, è crollata ai livelli più bassi dai tempi dello scandalo Watergate, che costrinse l’allora presidente Nixon alle dimissioni. Manca appena un anno alle elezioni, ed è lecito pensare che George W. Bush farà di tutto per evitare una disfatta dei Repubblicani, e una fine così ingloriosa del suo secondo mandato. Chi pensa, e sono in tanti, che l’appuntamento ciclico con una recessione sarà almeno un po’ differito, fa affidamento sull’inesorabile logica del cosiddetto ciclo presidenziale. Il terzo e quarto anno di questo ciclo (nel nostro caso, il 2007 e il 2008) sono tipicamente i migliori per la Borsa per la semplice ragione che la Casa Bianca fa di tutto (compreso l’esercizio di ogni tollerabile pressione sulla Fed) per assicurare che i rubinetti della spesa e della liquidità siano ben aperti nell’imminenza della scadenza elettorale. E’ l’applicazione pratica del motto: “It’s the economy, stupid.” Scommettere su una recessione a breve sarebbe insomma un po’ come scommettere contro il ciclo presidenziale: in passato si è trattato, quasi sempre, di una puntata perdente.

MarketWatch, il portale di informazioni finanziarie che fa capo alla Dow Jones (e cioè, in definitiva, alla News Corporation di Murdoch), ha lanciato la versione beta di MarketWatch Community: un servizio gratuito che consente agli utenti di riorganizzare, condividere, commentare, etc. etc. i ricchi contenuti del sito. E’ un altro passo in quella rivoluzione dei media che ci sta trasformando tutti in “prosumer” (produttori/consumatori), e di cui ho scritto nel mio post Internet, i media e l’imprevedibile futuro. L’Italia, in questa rivoluzione, si trastulla nelle retrovie. E’ di oggi la notizia che la commissione europea agirà contro il nostro governo per i ripetuti ritardi nell’eliminare parti che contrastano con le norme sulla concorrenza contenute nella legge Gasparri (figlia prediletta del governo Berlusconi). Scrive Reuters: “Bruxelles ha messo nel mirino la legge Gasparri soprattutto nella parte che consente alle sole imprese già presenti nel mercato televisivo di comprare frequenze da altri operatori per avviare le trasmissioni digitali.” Tenacemente, e a tanti livelli, l’Italia appare impegnata a difendere un indifendibile passato, che le tecnologie e lo “spirito dei tempi” stanno affossando.

 

Il mercato delle idee: mutui, tassi e CDO

Nel mercato delle idee espongo idee altrui che trovo stimolanti. In vetrina, oggi, ci sono John Hussman che giudica sopravvalutati e ipercomprati i mercati azionari, Bill Gross che prevede il diffondersi delle insolvenze sui mutui con la Fed costretta a tagliare i tassi a breve ma gli spread in aumento, e poi Paul Kasriel al quale appare sempre più difficile che sia evitata una recessione negli Usa. Controcorrente resta l’opinione di Ken Fisher, che giudica il pessimismo dei media come uno dei migliori indicatori contrari.

Mercati azionari troppo rischiosi

John Hussman suona l’allarme, e non per la prima volta. Cosa caratterizza il mercato azionario di oggi (o quanto meno, il benchmark per eccellenza, e cioè l’S&P 500)? Il fatto di quotare a un multiplo del picco ciclico degli utili superiore a 18, di essere ai massimi dell’ultimo quadriennio, di trovarsi oltre l’8% sopra la media mobile esponenziale a 52 settimane, in un contesto di rendimenti obbligazionari in ascesa.

Ci sono stati altri momenti, negli ultimi 50 anni, in cui l’S&P 500 ha affrontato un’uguale costellazione di fattori?

Sì, è accaduto altre sette volte e con questi esiti: nel dicembre 1961, quando il mercato perse poi il 28% in 6 mesi; nel gennaio 1973, quando seguì un crollo del 48% in 20 mesi; nell’agosto 1987, quando la caduta fu del 34% in tre mesi; nel luglio 1998, quando l’indice scese del 18% in tre mesi; nel luglio 1999, quando la flessione fu del 12% in tre mesi; nel dicembre 1999, quando il calo fu del 9% in due mesi; e infine nel marzo 2000, quando, come molti ricorderanno, iniziò un bear market che portò l’S&P 500 a dimezzare il suo valore nell’arco di 30 mesi.

Osserva Hussman che a voler rendere il confronto più selettivo, si potrebbe aggiungere un indicatore di sentiment, e cioè il fatto che, al momento, meno del 20% dei consulenti d’investimento sondati da Investors’ Intelligence si dichiara bearish (pessimista). Con questo quinto elemento descrittivo, i precedenti si restringono al gennaio 1973 (-48%) e all’agosto 1987 (-34%).

Hussman mette in chiaro che la sua non è una previsione, ma una semplice constatazione: il mercato di oggi è così sopravvalutato e ipercomprato da offrire una combinazione di rischi e rendimenti attesi estremamente sfavorevole.

Crisi del mattone e contagio

Per qualche settimana il mercato ha temuto che le difficoltà dei due fondi di Bear Stearns, messi in ginocchio da scommesse sbagliate nell’opaco mondo dei CDO, dessero il via a un effetto domino tra altri hedge fund e i broker primari che prestano loro ingenti quantità di denaro. Poi un salvataggio da 3 miliardi di dollari messo rapidamente in atto da Bear Stearns ha calmato gli animi.

Ma Bill Gross si chiede se siano davvero questi i rischi da cui gli investitori si devono guardare. La sua risposta è che il vero contagio è in arrivo da un’altra direzione, e cioè dalla marea di mutui ipotecari, a tasso variabile e (sino a oggi) a condizioni di estremo favore, che in America saranno soggetti a revisione nei prossimi mesi.

Stima Bank of America che si tratta di 500 miliardi di dollari di mutui nel 2007 (con una revisione media al rialzo del tasso applicato stimata in 200 punti base) e di 700 miliardi nel 2008, di cui circa i tre quarti sono subprime, riguardano cioè debitori di bassa qualità.

La catena di eventi che si sta mettendo in moto, per Gross, è chiara: le insolvenze, che tra i mutui subprime sono già al 7% del totale, si moltiplicheranno; e la crisi si diffonderà ben oltre il mercato subprime.

I prezzi delle case scenderanno ancora. La disponibilità di credito diminuirà. Molti investitori in CDO che ora vantano rating di BBB o anche A si ritroveranno in mano dei pezzi di carta senza valore. E gli spread, anche nei mercati apparentemente meno correlati a quello americano, punteranno al rialzo mentre la liquidità eccessiva, di cui oggi tutti parlano, diventerà un ricordo.

E’ possibile che tutto questo prenda le forme di un semplice ritorno alla razionalità piuttosto che di una crisi globale. Ma Gross prevede che in ogni caso, per assicurarsi contro il montare dei rischi, la Federal Reserve comincerà nei prossimi sei mesi a tagliare i tassi a breve.

Esuberanza contenuta

Per Mark Hulbert, analista di lungo corso del sentiment del mercato (è dal 1980 che tiene sott’occhio le raccomandazioni di 160 newsletter finanziarie americane), gli umori non sono ancora quelli tipici di un top delle Borse.

L’ottimismo è tutt’altro che pervasivo, come rivela l’Hulbert Stock Newsletter Sentiment Index (HSNSI), un indicatore che condensa il sentiment di quegli autori di newsletter che praticano strategie di market timing di breve termine. L’HSNSI segnava 40,6% verso la fine della settimana scorsa, rispetto al 62,4% dei massimi di fine febbraio.

L’analisi contraria rivela dunque come manchi quell’“esuberanza irrazionale” che si manifesta tipicamente alla fine di un bull market. Le Borse, per Hulbert, possono ancora salire.

L’incoraggiante pessimismo dei media

Ken Fisher, che nel 2000 diventò bearish e dall’estate del 2002 tornò a essere bullish, resta molto ottimista sulle prospettive dei mercati azionari. E quali sono i motivi, che cita nel suo ultimo articolo per Forbes?

Intanto, il fatto che i media, a larga maggioranza, non hanno mai creduto al bull market iniziato quasi 5 anni fa e continuano a non crederci, ammonendo a ogni passo che gli utili record sono insostenibili e che il mercato, dall’alto dei nuovi massimi di questi giorni, è costoso. Finchè l’ultimo di questi “Orsi” non sarà diventato “Toro”, le Borse, per Fisher, continueranno a salire.

Quanto ai più fondamentali problemi valutativi, Fisher osserva che il mercato è molto meno costoso che nel 2000. I nuovi massimi recenti sono apparenti, dato che non tengono conto dell’inflazione. In termini reali l’S&P dovrebbe toccare quota 1800 prima di stabilire davvero un nuovo record. Inoltre, dal 2000, gli utili sono saliti del 57%. E per quanto i paventati rischi di insostenibilità possano anche essere fondati, non c’è segno che un’inversione del trend sia imminente.

Consumatori alle strette

Paul Kasriel di Northern Trust analizza la brusca decelerazione delle vendite al dettaglio negli Usa. In termini reali, il dato del secondo trimestre potrebbe segnare un calo del 4,9% annualizzato, dopo la crescita del 2,5% del primo trimestre.

Nel complesso, i consumi privati, nel trimestre da poco concluso, faticheranno a raggiungere un tasso di crescita dell’1%-1,5% rispetto all’ancora esuberante +4,2% del primo trimestre. Bisogna essere ciechi per non vedere che il collasso del mercato della casa sta “strangolando” le famiglie americane, sostiene Kasriel.

Né è sensato lasciarsi illudere dai segnali positivi che sono venuti di recente dai sondaggi sulla fiducia dei consumatori. Uno studio della Federal Reserve di Filadelfia ha infatti dimostrato che l’andamento del sentiment non ha alcuna valenza predittiva in relazione ai consumi.

Senza una riduzione dei tassi la recessione sarà difficile da scongiurare. E’ una conclusione a cui Kasriel si aspetta che arrivi anche la Federal Reserve, ma non prima dell’incontro del FOMCdel 31 ottobre, quando saranno diffuse anche le prime stime sul Pil del terzo trimestre. E quando potrebbe essere ormai troppo tardi per evitare il peggio.

Un sistema di disequilibrio instabile

Nouriel Roubini si interroga sulle prospettive del sistema di cambi semi-fissi, ancorati al dollaro, instaurato nell’ultimo decennio da molti paesi emergenti dell’Asia, e in parte responsabile per i crescenti squilibri delle bilance dei pagamenti a livello globale (il cosiddetto Bretton Woods 2, o BW2).

Gli Usa, la prima economia al mondo, ne sono diventati anche il maggiore debitore, con disavanzi che vengono sempre più finanziati dalle banche centrali asiatiche a tassi particolarmente bassi. Nel 2006 il deficit delle partite correnti americano ha toccato gli 811 miliardi di dollari, pari al 6,1% del PIL. E il dato è destinato a crescere nel 2007.

I paesi emergenti dell’Asia hanno tratto vantaggio dall’ancoraggio al dollaro debole perchè i tassi di cambio molto sottovalutati hanno consentito l’accumulo di ingenti riserve valutarie e il perseguimento di aggressive politiche di crescita economica e di industrializzazione basate sull’export.

Ma per Roubini BW2 si sta tramutando da un sistema di “disequilibrio stabile”, come molti l’hanno definito, a uno di pericoloso disequilibrio instabile. Già diversi paesi asiatici lo hanno abbandonato. E altri lo faranno, perchè i suoi limiti, in termini di surriscaldamento economico, rischi d’inflazione e bolle sui mercati finanziari, si stanno facendo sempre più evidenti.

 

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