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Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

Archivio per la categoria “mercati immobiliari”

Le conseguenze delle crisi bancarie sistemiche

Quanto è grave l’attuale crisi finanziaria? Quanto durerà? Che esiti potrà avere? Non c’è chi non si faccia queste domande. Per cercare una qualche risposta il primo passo è alzare lo sguardo, allargare l’orizzonte e affondare le nostre indagini nella storia.

La tendenza ad aderire a nozioni piuttosto anguste e rassicuranti di “normalità” ci porta a concepire questa crisi, con un certo senso di angoscia, come eccezionale e anzi unica. Per certi versi, beninteso, lo è. Non c’è fenomeno storico che non sia singolare. E il problema di una scienza sociale e storica come l’economia è in fondo proprio questo: ha continuamente a che fare con eventi irripetibili.

Per altri versi, però, se si accettano questa considerazione di base e l’indeterminatezza a cui ci costringe, è possibile fare diversi passi avanti nella nostra conoscenza. Si può ad esempio scoprire che le crisi finanziarie, da quando l’economia ha assunto una forma capitalistica, sono state una regola e niente affatto l’eccezione. Continua a leggere…

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La prevedibile crisi del mercato immobiliare

Del mercato immobiliare mi sono occupato in più occasioni e in particolare, per quel che attiene al contesto italiano, nei due post Il triste autunno del mercato della casa e Casa, la bolla si sgonfia. Entrambi datano ormai a circa un anno fa, anche se mi pare che siano invecchiati bene, mantenendo un certo valore nel tempo. In essi cercavo di dimostrare una tesi di fondo, e cioè che i mercati immobiliari di molti paesi, Italia compresa, dopo aver raggiunto una condizione di estrema sopravvalutazione, avevano iniziato un percorso inverso di penosa normalizzazione, destinato a durare anni.

Quella tesi, come andrò sinteticamente a illustrare con l’ausilio di una serie di grafici di facile comprensione, si è dimostrata sinora corretta. Le bolle immobiliari, in Italia come negli altri paesi, hanno cominciato a sgonfiarsi e la fine di questo cammino a ritroso non appare vicina.

Nel post Il triste autunno del mercato della casa, utilizzavo un grafico tratto da una ricerca di Daniel Gros, direttore del Center for European Policy Studies di Bruxelles, che evidenzia come, negli ultimi 35 anni, l’andamento in termini reali (al netto cioè dell’inflazione) del mercato della casa nella zona dell’euro abbia seguito da vicino quello americano, con un ritardo temporale che si è aggirato in media attorno agli uno, due anni ma che via via è andato tendenzialmente riducendosi.

Per capire la situazione attuale, vale ancora la pena di partire da lì.

La linea blu indica i prezzi reali degli immobili negli Usa, quella gialla i prezzi nell’area dell’euro. L’intervallo temporale va dal 1971 al 2006. Come si vede, gli Usa svolgono una funzione di traino, sia nelle fasi espansive che in quelle di contrazione. E’ un fenomeno che tende a ripetersi in molti mercati, non solo in quello immobiliare. Gli ultimi svariati decenni sono stati contrassegnati dal primato americano e dalla sempre più stretta interconnessione tra le economie europea e americana. L’andamento dei tassi d’interesse e della congiuntura negli Usa ha finito per dettare anche i ritmi del ciclo europeo.

Stando così le cose, occorre dunque chiedersi, in primo luogo, come vada il mercato immobiliare americano.

Com’è noto, i prezzi stanno crollando. E l’entità del tonfo è immediatamente percepibile nel grafico che segue, tratto da una recente analisi di Northern Trust.

Raffigurati sono due diversi indici dei prezzi delle case. Il più rappresentativo e affidabile è senz’altro l’indice SP Case-Shiller per le 20 principali aree metropolitane americane, rappresentato con la linea blu. Quel che si nota è come, dopo diversi anni di crescita superiore al 10% annuo, i prezzi (questa volta si tratta di prezzi nominali, quelli di cui normalmente si parla) hanno fatto una brusca frenata nel corso del 2006 e, dalla fine di quell’anno, hanno iniziato a calare sempre più precipitosamente. L’ultimo dato, reso noto a fine novembre e relativo a settembre, ha registrato una flessione del 17,4% su base annua.

Come osserva Asha Bangalore di Northern Trust, le scorte di immobili invenduti sono così elevate e la disoccupazione è in così rapido aumento che è vano aspettarsi segnali di stabilizzazione del mercato della casa nei prossimi mesi. Per tutto il 2009, con ogni probabilità, il trend discendente è destinato a continuare.

D’altra parte, c’è anche da considerare che, per quanto drammatico sia stato il collasso dell’ultimo paio d’anni, non si può certo sostenere che i prezzi degli immobili americani siano diventati allettanti. Le case, anzi, restano care, come ci permette di capire un altro grafico, pubblicato qualche settimana fa sul blog The conscience of a liberal di Paul Krugman, recente premio Nobel per l’economia.

Il grafico descrive l’andamento del rapporto prezzi-affitti (price-rent ratio), uno dei due indicatori di valore più utilizzati nel mercato immobiliare (l’altro è il rapporto prezzi-redditi, o price-income ratio). Quel che emerge è come, a partire dal 2000 (scoppio della bolla azionaria), i prezzi delle case si siano sempre più allontanati dalla condizione di equilibrio (nel grafico pari a 100) fino a toccare un picco di sopravvalutazione del 60% a cavallo tra il 2005 e il 2006. Il crollo dell’ultimo biennio è solo servito a ridurre al 20% circa tale stato di sopravvalutazione.

Dunque, non è solo l’analisi della congiuntura a dirci che il mercato Usa degli immobili continuerà a flettere, almeno per un po’. Dello stesso tono è il messaggio che arriva da un’analisi fondamentale dello stato valutativo.

Siamo ora pronti ad avvicinarci col discorso a casa nostra.

Un problema che si incontra in Europa e in Italia è che non è facile trovare dati affidabili e comparabili a livello nazionale. Il mercato immobiliare è poco trasparente, poco liquido, poco omogeneo. Chi però, da qualche anno in qua, ha fatto un lavoro encomiabile di creazione di indici paese che consentono analisi meno malferme dell’evoluzione dei prezzi è il settimane inglese The Economist.

La tabella che segue, pubblicata all’inizio del mese, offre uno sguardo di sintesi dell’andamento degli indici dell’Economist per 20 paesi, aggiornati al terzo trimestre di quest’anno.

Si tratta, a un anno di distanza, della stessa serie di dati che avevo pubblicato nel post Casa, la bolla si sgonfia. Il confronto è istruttivo.

Nella prima colonna è indicata l’ultima variazione di prezzo su base annua; nella seconda colonna c’è la stessa variazione l’anno precedente; la terza colonna dà la misura della variazione cumulativa a partire dal 1997 (anno in cui, a grandi linee, partì l’ultimo ciclo espansivo).

Ciò che si nota, in sintesi, è quanto segue:
a) il ruolo guida del mercato americano, la cui flessione, da iniziale e graduale che era un anno fa, si è fatta precipitosa;
b) il generale, marcato deterioramento. Se un anno fa in 10 paesi su 20 il tasso di crescita dei prezzi era o ancora in aumento (Cina, Hong Kong, Singapore, Australia, Nuova Zelanda, Svizzera) o sostanzialmente stabile (Gran Bretagna, Sud Africa, Svezia e, tutto sommato, Italia dove si passava dal 6,2% al 5,1%), nell’ultima rilevazione si vede come solo Germania, Svizzera e Hong Kong riescono a sottrarsi alla tendenza dominante. Si allunga poi la lista dei paesi dove dalla decelerazione si passa a un sensibile calo dei prezzi: agli Stati Uniti e all’Irlanda – dove pure la situazione peggiora – si aggiungono infatti Gran Bretagna, Danimarca e Nuova Zelanda;
c) l’Italia non si sottrae al trend: dal 5,1% di un anno fa il tasso di crescita scende all’1%. Il dato si riferisce al terzo trimestre, e sappiamo come la congiuntura sia ulteriormente peggiorata nell’ultimo quarto dell’anno. Inoltre, va considerato che da noi l’inflazione dei prezzi al consumo, in base all’ultima rilevazione dell’Istat, sta al 3,5% annuo. In termini reali, i prezzi delle case nell’ultimo anno hanno avuto in Italia un andamento nettamente negativo;
d) infine, se si osserva l’ultima colonna della tabella dell’Economist, ci si può rendere conto di come i prezzi rimangano troppo elevati: variazioni superiori al 100% nell’arco di 11 anni (anche nel caso dell’Italia, dove i redditi, a differenza che altrove, hanno nel frattempo ristagnato) sono troppo sostenute.

Quest’ultima osservazione è ancor meglio visibile in un ultimo grafico che vado a presentare, tratto questa volta da un recente articolo per LaVoce.info di Fedele De Novellis, un economista del centro di ricerca Ref. I dati provengono dall’Ocse, ma raccontano una storia simile a quella rivelata dagli indici dell’Economist.

Nel grafico di De Novellis il periodo coperto è il decennio dal 1998 al 2007 e i prezzi sono depurati dell’inflazione. Si tratta, cioè, di prezzi reali. Per l’Italia si vede come l’aumento medio sia stato prossimo al 6%, un’enormità per un paese il cui PIL, nel frattempo, è cresciuto a tassi appena superiori all’1%.

Le case, dunque, costano troppo. E i due potenti motori che fino a un anno fa avevano ancora sostenuto il mercato nel suo “volo” – ossia l’abbondante disponibilità di credito e le fallaci attese di prezzi costantemente in crescita – sono stati spenti.

Nel suo articolo per LaVoce.info, De Novellis aggiunge ai motivi di pessimismo anche un’altra, importante osservazione. In passate fase di crisi dei mercati azionari, il settore immobiliare prosperò. La domanda di case traeva beneficio dalla fuga degli investitori verso i beni rifugio e dalle corpose riduzioni dei tassi d’interesse con cui le banche centrali reagivano allo stato di crisi. Accadde così nel 1987 e, di nuovo, nel 2001-2002.

La situazione, questa volta, è radicalmente diversa. In primo luogo è l’osservazione empirica, nota De Novellis, a dirci che in questi mesi non si è manifestata una nuova domanda di case da parte di investitori a caccia di beni-rifugio. E non c’è di che stupirsi. A dispetto degli interventi delle banche centrali, la grave crisi finanziaria all’origine dei crolli di Borsa ha generato una condizione di cosiddetto credit crunch – una stretta creditizia che sta rendendo più problematica e onerosa l’accensione di mutui.

Non è solo l’offerta di credito a essersi contratta, però. Anche la domanda langue. La spirale dei prezzi in crescita che alimentava attese di ulteriori guadagni si è spezzata. Non c’è chi non sappia, a questo punto, che la crisi finanziaria – causa dell’implosione delle Borse e del congelamento della congiuntura economica – è a sua volta figlia dello scoppio della bolla immobiliare americana. E non c’è chi non abbia aperto gli occhi – finito il tempo delle illusioni – sul fatto che anche da noi, e non solo negli Usa, gli immobili si sono apprezzati oltre il limite del ragionevole.

Ci vorranno anni di prezzi reali in calo prima che il bene rifugio per eccellenza torni a offrire un po’ di riparo.

L’incredibile rally dei titoli finanziari

In sei sedute l’indice S&P/Mib ha recuperato poco meno del 10%, ossia circa 2,500 punti, trascinato al rialzo da un poderoso rimbalzo del settore finanziario partito da Wall Street.

Che credibilità ha questo rally? Purtroppo, in una parola, nessuna.

Dico purtroppo perché sarebbe più rassicurante poter dire che l’azione dei mercati azionari è stata il riflesso delle libere decisioni assunte collettivamente dagli investitori. E che tali giudizi si sono correttamente formati sulla base, tra l’altro, delle informazioni rese pubbliche dalle società quotate che, a Wall Street, stanno in questi giorni diffondendo i risultati del secondo trimestre.

Le cose, invece, non stanno così.

Il rally, infatti, è stato innescato dall’improvvisa, inattesa decisione della SEC, l’organo americano di controllo della Borsa, di imporre limiti alle vendite allo scoperto (short selling) su 19 titoli finanziari, tra cui tutte le banche d’investimento e i due giganti in crisi del credito mobiliare, Fannie Mae e Freddie Mac.

La conseguenza è stata un’enorme ondata di ricoperture che a Wall Street ha lanciato in orbita tutto il settore finanziario.

Questa iniziale esplosione è stata poi alimentata dal carburante fornito dai risultati trimestrali di alcune banche, come Citigroup, Bank of America, JP Morgan Chase e Wells Fargo, superiori – in apparenza – alle attese, e dal sollievo generato dall’annuncio da parte del Tesoro americano di un piano di salvataggio per i due giganti dai piedi d’argilla, Fannie e Freddie, ormai al limite dell’insolvenza.

Il risultato? Nelle cinque sedute tra il 16 e il 22 luglio l’S&P 500 Financials ha fatto un balzo del 28%, un record. Dal 1989, quando furono introdotti gli indici settoriali dell’S&P 500, una performance del genere nell’arco di una sola settimana non era mai stata registrata.

Naturalmente, un bear market azionario è sgradito a molti: governi, banche, media, e la grande massa dei risparmiatori in generale. Solo una minoranza di investitori è in grado di trarne profitto. Insofferente più di tutti, con le elezioni presidenziali alle porte, è l’amministrazione Bush. Il rimbalzo del settore finanziario è stato così accreditato, da molte voci interessate, come un segnale che il peggio probabilmente è passato.

L’idea che mi sono fatto è che le cose non stiano affatto così.

La genesi del rally, per cominciare dall’inizio, è stata uno sfregio alla nozione stessa di libero mercato. Come ha denunciato l’Economist, l’intervento della SEC è stato l’equivalente di un pugno sotto la cintura inferto niente meno che dall’arbitro nel corso di un incontro di pugilato. Un provvedimento ingiustificato, improvvisato, asimmetrico, incoerente – motivato con ogni evidenza dal solo intento di prestare soccorso ai titoli bancari più in difficoltà.

Nouriel Roubini, l’economista della Stern School of Business della New York University, ha rincarato la dose, dicendo che la SEC dovrebbe aprire un’inchiesta e avviare un’azione legale contro se stessa per manipolazione del mercato.

La continuazione del rally si è poi nutrita di una serie di trimestrali sulla cui affidabilità è ragionevole essere scettici. Prendiamo ad esempio Wells Fargo, una delle grandi banche che più ha infiammato gli animi annunciando, il 16 luglio, un utile per azione di 0,53 dollari, tre centesimi superiore alle attese degli analisti.

Come spiega bene un articolo di HousingWire.com, il portafoglio da 84 miliardi di dollari di home equity loan (prestiti con ipoteca sulla casa) di Wells Fargo – per metà concessi in California e Florida, due degli stati americani più colpiti dalla crisi – ha subito nel secondo trimestre un pesante aumento delle sofferenze. Le perdite messe a bilancio sono però diminuite, addirittura di 104 milioni di dollari per i soli prestiti second lien – un 11% di prestiti subordinati e dunque particolarmente a rischio.

Il mercato immobiliare peggiora, la qualità del credito peggiora, le sofferenze si impennano, ma il bilancio migliora. Com’è possibile? Il motivo è che ai primi di aprile Wells Fargo ha deciso – sottovoce – di modificare il termine oltre il quale il mancato pagamento della rata di un prestito viene contabilizzato tra le perdite, estendendolo da 120 a 180 giorni.

Per questo trimestre, almeno, la cosmesi è riuscita. Un bel po’ di passività sono state nascoste sotto il tappeto, rinviate al futuro. E una trimestrale che avrebbe dovuto probabilmente chiudersi con un utile per azione di almeno cinque centesimi sotto le attese, già abbondantemente riviste al ribasso, si è invece spinta tre centesimi sopra. Il titolo, anziché sprofondare, nel giro di pochi istanti dall’annuncio dei risultati ha fatto un balzo del 20% all’insù.

Roubini, nel suo blog, ha denunciato svariati altri modi in cui le banche americane stanno “manipolando” i bilanci, a suo dire sotto lo sguardo tollerante delle autorità di controllo, dalla Federal Reserve alla SEC.

Una pratica che si sta diffondendo, e che Roubini dice di aver appreso dalle ammissioni di “insider”, è che l’entità delle svalutazioni di asset da mettere a bilancio viene decisa a priori. I conti vengono poi aggiustati di conseguenza. Non si tratta più, nota Roubini, del tradizionale earnings smoothing, e cioè della consolidata routine per cui i bilanci vengono un po’ “ritoccati” con l’obiettivo di stabilizzare gli utili da un trimestre all’altro.

“Questa – scrive Roubini – è attiva manipolazione e falsificazione dei risultati mirata a offuscare ancor di più il vero stato delle istituzioni finanziarie. Questo lavoro di oscuramento è attivamente spalleggiato dalla SEC, dalla Fed e dalle altre autorità che sono ormai in uno stadio di gestione della crisi in cui l’obiettivo è evitare a ogni costo qualsiasi incidente che possa scatenare il crollo del sistema. La conseguenza è che molte di queste trimestrali valgono meno della carta su cui sono scritte.”

D’altra parte, pensare che il peggio sia ormai alle spalle per il settore finanziario americano – così come, peraltro, per quello europeo – è poco realistico se solo ci si attiene a poche, semplici e basilari considerazioni.

E’ vero che la Fed, abbattendo i Fed funds dal 5,25% al 2%, ha ridotto i costi di finanziamento delle banche. Ma per il resto il contesto non ha fatto in questi mesi che peggiorare e le prospettive si sono fatte più cupe.

Crolla il mercato della casa, peggiora la congiuntura americana, rallentano i mercati emergenti e l’Europa è a un passo dalla recessione. I dati che mostrano come lo scoppio della più grande bolla immobiliare della storia, dopo lunghi mesi di incubazione, stia dando vita (complice anche l’ascesa dei prezzi energetici) a una recessione economica su scala globale sono facili da riassumere. Eccoli:

a) Secondo l’indice S&P/ Case-Shiller (ripreso nel grafico qui sotto da un articolo di Bill Gross), i prezzi delle case in America, dai massimi del 2006, sono scesi del 18% ma la caduta, di recente, è andata accelerando e i contratti future non prevedono che si arresti prima del 2010, alla fine di un tonfo che nel complesso potrebbe toccare il 30%.

b) L’economia Usa, se non è già entrata in recessione nei primi mesi dell’anno, è prossima a farlo. L’avvitamento della congiuntura che, in un anno elettorale, le autorità stanno tentando di combattere con tutti i mezzi – tra cui il condizionamento psicologico delle aspettative – avanza inesorabile. Lo dicono molti dati, ma tra i più chiari e affidabili ci sono il Leading Economic Indicator curato dal Conference Board (da noi noto come superindice economico) e il Leading Index dell’ECRI, uno dei più prestigiosi centri privati di ricerca.

L’uno e l’altro hanno correttamente predetto le recessioni degli ultimi decenni (le fasce in grigio nei grafici che seguono, il primo tratto da Northern Trust e il secondo dal blog The Big Picture di Barry Ritholtz). Da qualche mese preannunciano, con crescente intensità, l’arrivo di un nuovo periodo di contrazione dell’attività economica.

c) La crisi dei mercati immobiliari, quella del credito, quella dell’economia Usa, unite agli alti prezzi dell’energia, stanno trascinando in recessione l’economia globale. Chi sperava in un cosiddetto decoupling, e cioè nella capacità del resto del mondo di affrancarsi dal paese guida (l’America), sarà probabilmente smentito. Questo almeno è il messaggio che viene dal World Leading Economic Index dell’OCSE (tratto qui dall’ultima analisi trimestrale di Hoisington Management), il più affidabile barometro dell’andamento della congiuntura mondiale, che da qualche mese si è messo ad annunciare tempesta.

I grafici che ho riportato raccontano tutti la stessa storia: il peggio, purtroppo, deve ancora arrivare.

Le stime che circolano sui costi della crisi immobiliare per il sistema finanziario americano – e a cui oggi ha dato credito anche Bill Gross di PIMCO, il più grande gestore obbligazionario al mondo – parlano di almeno un migliaio di miliardi di dollari.

I mutui classificabili come asset rischiosi, ha scritto Gross, ammontano a 5mila miliardi di dollari. Ci sono circa 25 milioni di case acquistate con mutuo a partire dal 2004 che sono ormai in una situazione di negative equity: ai prezzi correnti valgono cioè meno del debito che è stato contratto per acquistarle. Per i compratori è una condizione in cui sono forti gli incentivi a dichiararsi insolventi.

Le perdite complessive, se al mercato immobiliare si sommano il credito al consumo e quello alle aziende, saranno comprese, a giudizio di Roubini, tra mille e duemila miliardi di dollari. Le svalutazioni messe finora a bilancio sono nell’ordine dei 400 milioni di dollari. La crisi, insomma, non ha ancora raggiunto la sua fase più acuta. Il fallimento della banca californiana IndyMac, la scorsa settimana, con perdite a carico del bilancio pubblico tra i 4 e gli 8 miliardi di dollari, è solo il primo di una serie che si preannuncia piuttosto lunga.

L’incredibile rally dei mercati azionari, penso, non andrà lontano. Vedremo nuovi minimi.

P.S.: Siccome disperarsi non è mai la reazione migliore, vorrei chiudere con un messaggio consolatorio: godetevi (chi può, purtroppo il video è in inglese) sette minuti di satira formidabile sulla rara incompetenza (per gli Usa, noi in Italia siamo abituati peggio) di cui ha dato prova l’amministrazione Bush. Il video che segue – “It’s the stupid economy” – è tratto da una recente puntata del Daily Show di Jon Stewart (nella foto in alto). E’ una delle cose più esilaranti in cui mi sia imbattuto da un po’ di tempo in qua. Buona visione.

It’s the stupid economy

Food for thought

Quelli che seguono sono i link a un po’ di articoli che ho letto nel corso dell’ultima settimana e che mi sembra interessante proporre ai lettori del blog. Visto che i testi non sono in italiano, ho aggiunto dei brevi sommari. Il tono complessivo, come si vedrà, è improntato a un certo pessimismo. Il collasso del mercato Usa della casa, il boom dei prezzi del petrolio e delle materie prime in genere e i pericoli d’inflazione, in particolare nei paesi emergenti, sono i motivi di preoccupazione in primo piano.

Nel campo degli ottimisti resta schierata la gran parte degli strategist delle banche d’investimento, sull’affidabilità delle cui previsioni, purtroppo, non c’è da farsi soverchie illusioni. Continua a leggere…

Mercato Usa della casa e prospettive del ciclo II

Nella prima parte di questo articolo ho riferito il parere di Martin Feldstein secondo cui i rischi di recessione negli Usa sono in aumento e non in diminuzione come sembra invece pensare la maggioranza degli investitori. Ho anche scritto come per Feldstein è il mercato della casa che continua a porre i problemi più gravi.

I consistenti cali dei prezzi dell’ultimo anno, che non hanno precedenti nella storia americana del dopoguerra, stanno facendo lievitare il numero di famiglie alle prese con debiti verso le banche superiori al valore degli immobili ipotecati (una condizione detta di negative equity).

C’è il rischio che si inasprisca sempre più la spirale perversa tra cali dei prezzi e insolvenze sui mutui con un impatto tale sulla ricchezza delle famiglie e il patrimonio delle banche da rendere possibile – nelle parole di Feldstein – una delle “recessioni più severe e durature degli ultimi svariati decenni.” Continua a leggere…

Mercato Usa della casa e prospettive del ciclo

La scorsa settimana, nel post Economia Usa, i rischi di recessione restano alti, mi sono sbilanciato esprimendo una serie di valutazioni in contrasto sia con il consenso di mercato che con le recenti prese di posizione della Federal Reserve.

Prendendo spunto dalle analisi degli economisti di Northern Trust, criticavo le interpretazioni, a mio avviso troppo ottimistiche, che sono state date di alcuni importanti set di statistiche, come quelle sul Pil del primo trimestre e sull’occupazione di aprile. Concludevo così: “L’economia Usa, nonostante il sostegno che viene dal dollaro debole e da una domanda estera ancora tonica, resta un malato in via di peggioramento”.

Vorrei ora aggiungere, a quanto lì esposto, il sostegno di un’altra fonte tra le più autorevoli – Martin Feldstein (nella foto sopra) – e un’analisi più circostanziata del mercato della casa americano, che resta d’importanza vitale – oggi come un anno fa quando fece da innesco alla crisi – nel determinare l’evoluzione della congiuntura. Continua a leggere…

Economia Usa, i rischi di recessione restano alti

Sarà per il rally delle Borse, risalite del 15% dai minimi di marzo facendo segnare ad aprile il miglior risultato mensile dal 2003, sarà per un po’ di dati macroeconomici dalle apparenze rassicuranti, ma in queste due ultime settimane si è diffuso un ottimismo sulle prospettive dell’economia americana che mi pare ingiustificato.

Un segno della ritrovata fiducia ce lo dà il contratto US.recession.08, scambiato sull’information market di Intrade. Si tratta di uno strumento che consente di scommettere sulle probabilità di recessione negli Usa nel corso del 2008.

Come mostra il grafico che segue, negli ultimi 15 giorni – per l’esattezza a partire dal 24 aprile – il contratto è sceso bruscamente sotto la soglia del 55%, che aveva segnato il limite inferiore di una forchetta compresa tra il 55% e il 75% entro cui le aspettative degli scommettitori erano andate stabilizzandosi dall’inizio dell’anno. Continua a leggere…

Qualche grafico sulla crisi dell’economia Usa

Dopo aver licenziato, un po’ frettolosamente, il mio post Recessione, Borse e ottimismo al Sole 24 Ore, mi sono imbattuto in diversi articoli interessanti che analizzano lo stato dell’economia Usa anche con l’ausilio di grafici più eloquenti di molte parole. Contestando la superficiale interpretazione data dal Sole 24 Ore ai dati macroeconomici americani della scorsa settimana, scrivevo domenica che le vendite al dettaglio erano apparse migliori del previsto solo a causa degli aumenti dei prezzi della benzina e dei beni alimentari. Quella che veniva spacciata per una tenuta dei consumi era solo inflazione.

Ho poi trovato il seguente grafico sul blog The Big Picture di Barry Ritholtz. E’ tratto da Haver Analytics e illustra l’andamento delle vendite al dettaglio in termini reali, depurati cioè dall’effetto distorsivo delle variazioni dei prezzi.

Come si vede, per la prima volta in questo ciclo, il tasso annuo di crescita è diventato negativo. E per Walter Riolfi de Il Sole 24 Ore questo sarebbe un motivo di ottimismo? Gli consiglio di leggersi il commento di Ritholtz: “(Il dato) suggerisce con forza che una recessione o è già in corso o è destinata a iniziare da un momento all’altro.”Nel mio post analizzavo poi la situazione del mercato del lavoro, che l’articolo de Il Sole 24 Ore trascurava di menzionare. Citavo, tra l’altro, il terribile rapporto sull’occupazione diffuso all’inizio del mese, la cui serie storica (con le variazioni mensili, in migliaia, a sinistra, e quelle annuali, in termini percentuali, a destra) è rappresentata nel grafico qui sotto, a cura di Barron’s Econoday, e tratto di nuovo da The Big Picture.

Il calo di 17 mila occupati a gennaio (il dato più negativo dall’agosto del 2003) è stato non solo molto al di sotto delle attese di consenso, ma anche peggiore della più pessimistica tra le stime formulate in precedenza dagli 80 analisti interpellati da Bloomberg.Nel mio post di domenica, non citavo invece – perché lo speranzoso articolo de Il Sole 24 Ore non me ne aveva offerto l’opportunità – il sondaggio ISM sul settore dei servizi, pubblicato all’inizio del mese.

Si è trattato del dato macroeconomico che di recente ha creato più sconquasso sui mercati, provocando un brusco calo delle Borse di un paio di punti percentuali – e per buoni motivi.

L’indice ISM è costruito in modo tale per cui il livello di 50 fa da spartiacque tra espansione e contrazione. Si tratta – ricordiamolo – di un affidabile sondaggio tra i responsabili degli acquisti di imprese operanti nel settore dei servizi, che rappresenta oltre l’80% dell’economia americana.

Le attese di consenso prevedevano una lieve flessione dal 53,9 di dicembre al 52,5 di gennaio. Il risultato è stato invece di 41,9, come indica il seguente grafico della Federal Reserve di St. Louis:

E’ il dato peggiore dall’ottobre 2001, subito dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre – quando l’economia Usa già era in recessione. Il crollo di 12,5 punti in un solo mese non ha precedenti nella storia dell’indice.

Nessuna componente dell’ISM ha offerto il benché minimo motivo di conforto. Tra i molti dettagli preoccupanti, su uno in particolare si è soffermato Paul Krugman (nella foto in alto) nel suo blog The Conscience of a Liberal. Il sotto-indice relativo all’occupazione è sceso dal 52,1 di dicembre a 43,9. Indica dunque che gli occupati nel settore dei servizi hanno iniziato a contrarsi. Ma di quanto? C’è un modo per stimarlo?

Krugman ha costruito una matrice dove ogni dato mensile della componente occupazione dell’indice ISM – dal luglio 1997 – è stato incrociato con il saldo pubblicato nel rapporto sull’occupazione del mese successivo.

Il risultato è quello che segue (i dati ISM sono sull’asse orizzontale, i risultati del rapporto sull’occupazione del mese successivo – espressi in migliaia di unità – sull’asse verticale):

La prima cosa che si nota è che la relazione è alquanto stabile: l’ISM ha cioè una notevole capacità predittiva dell’andamento reale del mercato del lavoro.

La seconda cosa ce la dice Krugman: il 43,9 del sotto-indice ISM corrisponde a una perdita, nel rapporto sull’occupazione del prossimo mese, di 137 mila posti di lavoro (dopo l’inatteso calo di 17 mila unità annunciato all’inizio di questo mese).

Il numero, naturalmente, è solo frutto di un calcolo statistico su dati del passato. Non va preso troppo alla lettera. Ma c’è di che tremare. “Se il dato ISM non è del tutto sballato – conclude Krugman – siamo già in piena recessione.”

Nel mio articolo di domenica, infine, non ho parlato del mercato della casa – di nuovo perché la rubrica de Il Sole 24 Ore non ne faceva cenno.

Ma sappiamo come i guai dell’economia Usa proprio da lì traggano origine. E’ allora importante chiedersi: come va il mercato della casa? C’è almeno qualche segno di stabilizzazione, dopo il collasso dell’ultimo anno?

No, il mercato della casa continua a peggiorare, come mettono in chiaro due grafici tratti dal blog Think B.I.G. di Bespoke Investment Group.

Il primo ci mostra il più recente aggiornamento (relativo al novembre scorso) dell’indice S&P/Case-Shiller sull’andamento dei prezzi degli immobili nelle dieci principali aree urbane americane: dal picco registrato nella seconda metà del 2006 i prezzi segnano un calo medio del 9,4%. Mese dopo mese, la flessione si va accentuando.

Quel che è più grave, le aspettative continuano a deteriorarsi, come evidenzia la tabella qui sotto, che sintetizza l’andamento dei contratti future, con scadenza novembre 2008, scambiati al Chicago Mercantile Exchange (CME).

Al momento, i contratti scontano che a novembre la flessione annua dei prezzi (annua e non dal punto di massima, come nel primo dei due grafici di Think B.I.G.) sarà, nella media (Composite 10), del 9,89%. Questa previsione – come indica l’ultima colonna – è peggiorata del 6,67% negli ultimi tre mesi!

“Spiragli di ottimismo”, scriveva il Sole 24 Ore. Ma dati alla mano, appare evidente come solo l’export regga ancora. Per il resto, mercato della casa, consumi delle famiglie, servizi e occupazione sono o stanno entrando in una crisi sempre più cupa.

Recessione, Borse e ottimismo al Sole 24 Ore

La rubrica Settimana finanziaria del Sole 24 Ore, a firma di Walter Riolfi, annunciava ieri – nel suo titolo – la comparsa di “Spiragli di ottimismo sui mercati.” L’occhiello chiariva che “tra gli operatori si attenuano i timori di recessione”, anche se il sottotitolo metteva in guardia come “la crisi del credito è lungi dall’essere conclusa e può frenare i consumi delle famiglie.” Rimproverandomi per le distrazioni che mi avevano impedito di condividere, nel corso della settimana, il più sollevato stato d’animo diffusosi a Il Sole 24 Ore, mi sono tuffato nella lettura dell’articolo.

Ho così appreso, tra l’altro, che:

a) la scorsa settimana “s’è parlato un po’ meno di recessione economica”;

b) i dati macroeconomici Usa dell’ultima settimana “sembrerebbero scongiurare l’evenienza estrema” (la recessione, ndr): vendite al dettaglio, produzione industriale e bilancia commerciale sarebbero infatti state un po’ superiori alle attese;

c) la Federal Reserve, dopo aver contemplato dieci giorni fa, per bocca di un suo esponente, uno scenario di recessione, si è mostrata “molto più cauta”. Il suo presidente Ben Bernanke, in particolare, ha previsto semplicemente una “crescita da lumaca” e poi un “andamento più sostenuto” verso fine anno;

d) Riolfi in persona è stato in questi mesi “poco convinto dell’imminente recessione Usa” e continua a esserlo, anche se resta “piuttosto scettico” sull’eventualità di una “forte ripresa” nella seconda metà dell’anno. Un “prolungato rallentamento economico negli Usa e in parte in Europa” è il suo scenario preferito. E come mai? Perché “la crisi del credito è lungi dall’essere conclusa […] e un credito ridimensionato significa pure un rallentamento dei consumi […]”;

e) infine, sempre Riolfi, rincuorato dal fatto che il suo cauto ottimismo sul fronte macroeconomico sembra finalmente diffondersi anche al di fuori delle stanze de Il Sole 24 Ore, si dichiara fiducioso sulle prospettive del mercato azionario. Magari non ci sarà un’inversione a “V” delle Borse (e cioè un rally altrettanto esplosivo quanto repentina è stata la caduta dai massimi). Ma “si dovrebbe vedere un buon recupero di parecchi titoli (specie medie capitalizzazioni) industriali, utility, tecnologici, le cui quotazioni sono state falcidiate.”

Ritorno alla realtà

Finita la lettura, mi sono stropicciato gli occhi. E ho cercato di ritornare con i piedi per terra.

Naturalmente, io non so cosa faranno le Borse nei prossimi mesi: inversione a “U”, “V”, “W”, o un altro tonfo del 20%. Né penso di sapere quali saranno i settori migliori. E non capisco come faccia Riolfi a prevedere scintille per i “falcidiati” titoli industriali, tecnologici e dei servizi di pubblica utilità.

Proprio a fianco all’articolo, il Sole 24 Ore pubblicava ieri una tabella con gli andamenti dei 18 macrosettori del mercato europeo, da cui era facile vedere come nell’ultimo anno utility, industriali e tecnologici hanno fatto tutti molto meglio dell’indice generale DJ Stoxx. Le utility, in particolare, sono state uno dei soli tre comparti a far registrare un andamento positivo (+3,8%) a 12 mesi. Dov’è la falcidie?

Purtroppo, l’abbozzo di analisi macroeconomica su cui poggiava l’articolo non era molto più accurato. Ed è su questo che vorrei concentrarmi, visto che è da qui che Riolfi sembra far discendere le positive aspettative di mercato propagate poi dalle pagine di un giornale influente come Il Sole 24 Ore.

Mi sono chiesto: ma è vero che i timori di recessione, tra gli operatori, si sono attenuati?

Per cercare di capirlo, sono andato a vedere un indicatore sintetico e sensibile, che consente di fare un’accettabile valutazione, e cioè il contratto US.recession.08 scambiato sul mercato di Intrade (di cui ho già diffusamente parlato nel post Mercati predittivi e recessione negli Usa).

Ecco il grafico:

Com’è evidente, dopo essersi impennato a partire dalla metà di ottobre (quando Wall Street cominciò la sua picchiata dai massimi), il contratto, da un mese circa a questa parte, si è stabilizzato in una stretta forchetta tra il 62% e il 70% di probabilità di recessione: insomma, due probabilità su tre – un livello molto elevato.Gli “spiragli” di ottimismo sono dunque da ieri visibili ai lettori del Sole 24 Ore, ma restano invisibili ai comuni investitori.

Bernanke: parole e fatti

Né ha senso farsi forza con le parole di Bernanke. Il suo ruolo istituzionale gli impone di seminare cautela quando c’è troppo ottimismo, e rassicurazioni quando si diffonde il timore.

A parole, un presidente della Fed non potrà mai permettersi di prevedere una recessione: verrebbe prontamente e giustamente accusato di contribuire a provocarla.

Nei fatti, i recenti interventi di politica monetaria, con tagli ai Fed Funds di 225 punti base negli ultimi 5 mesi, anche mediante il ricorso a procedure d’urgenza, bastano a evidenziare quanto i timori di recessione, alla Fed, siano elevati.

Dati macroeconomici da interpretare

Che poi “l’evenienza estrema” della recessione sia stata in qualche modo “scongiurata” dai dati macroeconomici dell’ultima settimana è un’interpretazione davvero curiosa.

L’articolo del Sole 24 Ore cita vendite al dettaglio, produzione industriale e bilancia commerciale. E già stupisce il fatto che non vengano citati dati, altrettanto recenti, ma eloquentemente negativi, come quelli sui sussidi di disoccupazione o sulla fiducia dei consumatori.

Vediamoli, nei grafici e nelle analisi di Northern Trust:

Il dato di giovedì ha fatto balzare la media mobile a 4 settimane delle richieste di sussidi di disoccupazione al livello di 347.250, il più alto dal giugno 2004. Il deterioramento, dagli inizi del 2006, non dà segni di tregua. Commenta Asha Bangalore di Northern Trust: “la debolezza del mercato del lavoro è persistente.”Naturalmente, le rilevazioni settimanali sui sussidi di disoccupazione integrano e aggiornano quella mensile sul mercato del lavoro nel suo complesso, l’ultima delle quali – diffusa il primo febbraio – ha offerto scoraggianti indicazioni.

Gli occupati a gennaio sono scesi di 17 mila unità e un indicatore importante come il rapporto tra quanti hanno perso il posto di lavoro nel corso del mese e il monte totale dei disoccupati nel settore civile è salito al 50,7% rispetto al minimo ciclico del 46,0% nel luglio 2006.

Come osserva Bangalore, ed evidenzia il grafico qui sotto (dove le fasce grigie rappresentano periodi di contrazione del Pil), un sensibile incremento di questo rapporto è tipicamente associato all’avvio di una recessione.

Curioso, dicevo, è anche il fatto che Riolfi non citi – tra i dati settimanali di un qualche interesse – quello sulla fiducia dei consumatori, diffuso venerdì. E’ stato peggiore del previsto, spingendo l’indice verso livelli molto più bassi di quelli della recessione del 2001 e paragonabili alla recessione del 1990-1991, come risulta chiaro dal grafico seguente, sempre tratto da Northern Trust:

Il sondaggio sulla fiducia dei consumatori non ha, dal punto di vista quantitativo, una stretta correlazione con l’andamento della spesa per consumi. Ma dal punto di vista qualitativo, è ovvio che un così marcato deterioramento può solo preoccupare.Tanto per cominciare, getta un’ombra sulla meno recente rilevazione relativa alle vendite al dettaglio di gennaio, che nel suo articolo Riolfi si sforza di presentare come una sorpresa positiva.

In verità, il frazionale incremento fatto segnare dalle vendite il mese scorso (+0,3%) è interamente ascrivibile all’aumento dei prezzi di prodotti alimentari e benzina (dunque, non delle quantità vendute). Ed è stato accompagnato da una revisione al ribasso delle vendite nel quarto trimestre del 2007, che già sulla base della stima iniziale erano state le meno dinamiche dalla fine del 2001 (quando l’economia Usa stava uscendo dalla recessione).

I bilanci in crisi delle famiglie Usa

Le vendite al dettaglio rappresentano poi solo una parte dei consumi complessivi delle famiglie, ed è sui secondi più che sulle prime che vale la pena concentrare l’analisi – come fa Paul Kasriel, chief economist di Northern Trust, nel suo ultimo Outlook mensile, pubblicato il 4 febbraio.

La motivata convinzione di Kasriel è che gli Usa siano con ogni probabilità già entrati in recessione (i dati ufficiali, soggetti ad ampie revisioni, sono sempre qualche mese in ritardo). E che a differenza del 2001, quando furono gli investimenti delle imprese a mettere in ginocchio l’economia, questa volta saranno i consumi delle famiglie a farlo – determinando una crisi di più difficile soluzione.

L’elemento di fondo, che Riolfi dimentica di menzionare nel suo articolo, è che le famiglie sono estremamente indebitate – per effetto della corsa all’acquisto di case, fin troppo incentivata dai tassi d’interesse negativi del triennio 2003-2005. Lo vediamo nel seguente grafico di Northern Trust, che mette in relazione l’indebitamento totale con il valore di mercato degli asset delle famiglie:

Il ricorso al credito non si è però tradotto solo nell’acquisto di case – mercato gonfiatosi a dismisura e che, com’è noto, sta ora contraendosi drammaticamente.

In parte ha infatti contribuito a spingere i consumi a livelli mai toccati prima in rapporto al reddito disponibile, come illustra il grafico seguente (PCE sta per spese per consumi personali mentre DPI significa reddito personale disponibile):

“La festa – osserva Kasriel – sta ora per finire.”

Non ci sono più aumenti dei prezzi delle case da utilizzare per avere maggiore, quasi indiscriminato accesso al credito. Al contrario, il collasso del mercato immobiliare ha messo in difficoltà tutto il settore finanziario, al punto che anche i tagli dei tassi a breve da parte della Federal Reserve, per un bel po’ di tempo, potranno fare ben poco per restituire dinamismo al credito.

Gravate di debiti, incapaci di accedere a nuovi crediti, anzi sotto pressione per ridurre una leva finanziaria eccessiva, le famiglie americane hanno nell’ultimo biennio fatto crescente ricorso – nel tentativo di fare quadrare i conti – alla cessione di altri asset finanziari, titoli azionari in particolare, che sono stati venduti al settore corporate.

Ma anche questa opzione, ora che le difficoltà delle Borse e la contrazione dei profitti aziendali impongono un freno a buyback e LBO, sta diventando sempre meno percorribile.

Resta una sola strada, conclude Kasriel, ed è la riduzione di livelli di consumo non più sostenibili.

Per tornare all’articolo di Riolfi, un altro dato che lui cita per illuminare i suoi “spiragli di ottimismo” è in fondo null’altro che l’ennesima dimostrazione di una domanda interna sempre più esangue.

“La bilancia commerciale è stata meno peggio del previsto,” scrive nel suo articolo. Ma vediamo il perché.

Le esportazioni a dicembre sono aumentate dell’1,5%, un dato positivo. Ma la vera ragione della sorpresa è stato il brusco calo delle importazioni, scese dell’1,1% dopo essere aumentate nei mesi precedenti.

Tutte le principali categorie di beni e servizi hanno mostrato il segno meno (a indicare una debolezza molto diffusa). E sul dato complessivo ha pesato in particolar modo il crollo delle importazioni di auto, scese del 9,4% su base mensile.

Il saldo commerciale migliora, dunque, perché la domanda interna è entrata in sofferenza, a partire dai beni più costosi e dove conta la disponibilità di credito, come l’auto.

Ovviamente, l’import è anche uno dei principali canali di trasmissione attraverso cui la crisi dell’economia Usa (e soprattutto dei suoi consumatori) si trasferisce all’estero, in un contagio ancora agli inizi.

“Spiragli di ottimismo” risulta a me difficile vederne. Una recessione negli Usa resta molto probabile ed è forse già iniziata.

Recessione e mercato azionario

Quanto al possibile impatto sui mercati azionari, scrivevo nel post Mercati azionari e rischi di recessione come in presenza di recessione i bear market americani dal 1950 a oggi abbiano avuto una durata media di 491 giorni – e cioè oltre un anno e quattro mesi. I massimi di questo ciclo sono stati toccati a Wall Street nella prima metà di ottobre, appena quattro mesi fa.

Se si prende la media come riferimento, e si assume, in linea col consenso e con l’evidenza dei dati, che una recessione americana è molto probabile, bisogna dunque mettere in conto – se non si vuole proprio essere degli sprovveduti – che il bear market azionario possa durare un altro anno.

Ci saranno dei rally, ma, in questo scenario, saranno dei bear market rally, cioè ritracciamenti in un trend ribassista o, in altre parole, trappole da evitare.

Naturalmente, le cose potrebbero andare diversamente. Magari anche per i motivi sbagliati, Riolfi potrebbe avere ragione. E se sarà così, sarò ben contento di riconoscerlo.

Come diceva Lord Keynes, “when the facts change, I change my mind. What do you do, sir?” (“quando i fatti cambiano, io cambio parere. E Lei, Signore, cosa fa?”)

La settimana scorsa, però, a dispetto degli “spiragli di ottimismo” annunciati dal Sole 24 Ore, i fatti non sono cambiati. Resto dunque del parere che ho già più volte espresso su questo blog, e ai miei lettori rinnovo l’invito a un’estrema prudenza.

P.S.: un’appendice a questo articolo – con altri grafici interessanti – può essere trovata qui.

Ci salverà la Federal Reserve?

In tempi di difficoltà, investitori e operatori economici tornano a guardare, con un misto di ansia e speranzosa attesa, alla Federal Reserve, e la Federal Reserve non manca di far sentire le sue rassicurazioni. Il copione si è ripetuto giovedì scorso, quando Ben Bernanke (nella foto), in un discorso tenuto a Washington, ha riconosciuto che le prospettive per l’economia americana sono peggiorate, ma si è affrettato ad aggiungere che la banca centrale è “pronta a mettere in atto ulteriori, effettive (“substantive”) misure per sostenere la crescita e offrire assicurazione adeguata contro i rischi di downside”.

In linguaggio meno obliquo, la promessa è di tagli più sostanziosi al Fed Funds, il tasso a breve che in tre occasioni, tra settembre e dicembre, la Federal Reserve ha già provveduto a far scendere dal 5,25% al 4,25%.

Attese di questo genere, per la verità, sono andate montando sui mercati già dall’inizio della scorsa estate, come evidenzia il grafico seguente, che mostra il prezzo del future sul Fed Funds con scadenza gennaio 2009.

Se a giugno si prevedevano tassi a breve stabili al 5,25% per i 18 mesi successivi, ora la scommessa è di un Fed Funds al 2,5%. Il mercato sconta, cioè, riduzioni di altri 175 punti base entro il gennaio prossimo.Basta questo per pensare che una recessione possa essere evitata e che le Borse riescano a sfuggire alla morsa del bear market?

Tassi d’interesse e cicli di mercato

Un detto da sempre popolare a Wall Street è “Don’t fight the Fed”: “non lottare contro la Federal Reserve.” Il senso è che condizioni monetarie restrittive sono ostili ai mercati azionari, mentre condizioni espansive sono favorevoli alla ripresa tanto del ciclo economico che dei corsi di Borsa.

Se però tale detto non è stato poi tanto invocato negli ultimi mesi, un motivo c’è: nell’ultimo ciclo ribassista, tra il 2001 e il 2002, chi vi aveva fatto affidamento andò incontro a brucianti perdite.

La manovra di riduzione dei tassi orchestrata allora dal “Maestro” Alan Greenspan a partire dai primi giorni del gennaio 2001 non riuscì a evitare né la recessione economica nel secondo e terzo trimestre di quello stesso anno, né un bear market azionario che proseguì con asprezza sempre più brutale fino all’autunno dell’anno seguente.

Un’analisi che circolò allora diffusamente tra gli operatori di mercato fu quella prodotta, nel marzo 2001 (in occasione del terzo taglio ai Fed Funds di quel ciclo), da Ned Davis Research, uno dei migliori e più prestigiosi centri di ricerca e “market timer” americani.

Lo studio metteva in luce come, in 12 delle 13 occasioni precedenti, nei cicli susseguitisi dal 1921 in poi, la terza riduzione del costo del denaro era stata decisiva nel risollevare il mercato azionario: tre, sei, dodici mesi dopo quel terzo taglio Wall Street aveva fatto segnare performance positive, con un guadagno medio che, nell’arco di un anno, era stato superiore al 20%.

L’unica eccezione? Il crollo del 1929. Dopo la terza riduzione dei tassi da parte della Federal Reserve, il Dow Jones aveva allora continuato a franare, perdendo un altro 36% nei 12 mesi successivi.

A posteriori si è visto come l’eccezione del 1929 si sia sostanzialmente ripetuta col devastante scoppio della bolla dei titoli tecnologici tra il 2001 e il 2002. I tagli dei tassi da parte della Federal Reserve continuarono fino al giugno del 2003, e solo a quel punto consentirono finalmente il consolidarsi di aspettative di ripresa.

E oggi? Il ciclo ribassista appena iniziato costituirà un ritorno alla regola (“Don’t fight the Fed”) o una nuova eccezione?

Tassi, valutazioni e curva dei rendimenti

L’amara lezione del passato bear market ha spinto gli analisti migliori verso maggiori livelli di sofisticazione, che riflettono anche la crescente complessità di mercati finanziari sfuggiti di mano, negli ultimi anni, allo stretto controllo delle banche centrali.

Di una delle più autorevoli di tali analisi, a cura di William Hester di HussmanFunds.com, riferivo a ottobre nel post Borse, tassi e bufale a mezzo stampa, che invito a rileggere.

Riassumendo le conclusioni di quello studio, scrivevo allora così:

Tre sono le osservazioni da fare:

a) le performance migliori – spesso addirittura esplosive – il mercato azionario le ha offerte in reazione a riduzioni dei tassi che avevano luogo in un contesto di valutazioni depresse (P/PE inferiore a 15), tipicamente verso la fine di un bear market (PE sta per Peak Earnings, e cioè utili al picco del ciclo, una misura “normalizzata” degli utili ideata da John Hussman);

b) in subordine, performance positive si sono registrate quando una curva dei rendimenti positivamente inclinata (con tassi a lunga più alti dei tassi a breve) segnalava attese di una ripresa del ciclo economico;

c) diverso è stato l’esito quando le valutazioni erano elevate e i tagli dei tassi a breve hanno coinciso o fatto seguito a una fase di inversione della curva dei rendimenti che segnalava attese di stagnazione o recessione: i ritorni del mercato sono stati negativi sia a 6 che a 12 o a 18 mesi (è stato così nel 2001-2002, ma anche nel ciclo di riduzioni dei tassi che accompagnò il bear market del 1968).

Quale di queste tre diverse tipologie è meglio applicabile alla situazione attuale?

Per Hester non ci sono dubbi. L’S&P 500 è scambiato oggi a 18,4 volte i Peak Earnings, un multiplo molto elevato anche se si rinuncia a normalizzare i livelli record dei margini di profitto (operazione che spingerebbe i multipli a livelli ancora più alti).

In secondo luogo, la curva dei rendimenti, nei mesi scorsi, è stata a lungo negativa, esprimendo attese di stagnazione e forse di recessione economica, non certo di ripresa. E’ tornata positiva solo di recente, quando il mercato ha cominciato a scontare una drastica riduzione dei tassi a breve.

Insomma, mercati azionari riccamente valutati e vicini ai massimi, in un contesto in cui i rendimenti obbligazionari segnalavano timori che una crescita vigorosa lasciasse il passo a una fase di debolezza economica, non hanno storicamente risposto bene all’avvio di un ciclo di riduzioni del costo del denaro da parte della Fed.

Era questa la situazione a cavallo tra il 2000 e il 2001. Ed è questa – se si sta ai tre parametri identificati da Hester – la situazione anche oggi.

Mercato casa e tassi

Allo scetticismo di Hester sulla possibilità che la Federal Reserve possa fare la differenza nell’attuale contesto di mercato si sono aggiunte, in questi giorni, le pessimistiche osservazioni di Paul Krugman sull’efficacia ridotta che lo strumento dei tassi a breve rischia di avere nella presente congiuntura economica.

In un post sul suo blog, The Conscience of a Liberal, Krugman osserva come il più importante canale di trasmissione della politica monetaria della Federal Reserve – molto più importante degli investimenti delle imprese – sia il mercato della casa.

Come mai? Per una questione di durata. Un mutuo per la casa può durare 30 anni, mentre per l’acquisto di macchinari un’impresa tipicamente si indebita a una scadenza attorno ai 5 anni. E se i tassi scendono dal 6% al 4%, la rata mensile per l’impresa scenderà appena del 5% ma quella del mutuatario del 20%.

La differenza è enorme e spiega perchè sia proprio il mercato immobiliare il settore dell’economia più sensibile alle manovre sul costo del denaro da parte della banca centrale.

In una recessione, dice Krugman, quello che tipicamente succede è che la Fed taglia i tassi, il mercato della casa si rianima, e da qui la ripresa della domanda si trasmette via via al resto dell’economia.

Ma si tratta di uno scenario realistico nella situazione di oggi? Per Krugman, niente affatto, visto che lo scoppio della bolla immobiliare è l’epicentro della crisi, e il ritorno a valutazioni realistiche appare ancora molto lontano, come dimostra il seguente grafico, a cura del Congressional Budget Office, sul rapporto tra prezzi e affitti (price-to-rent ratio):

Conclude Krugman: “E’ mai possibile che la Fed riesca a tagliare i tassi al punto da creare un altro boom immobiliare? […] E se non è possibile, quanto può davvero fare la Fed per aiutare l’economia?”

Può fare poco, sembra. Sia per sostenere i mercati che l’economia. Ma questa è la storia di tutte le bolle. Sono, purtroppo, eccezionali: nell’euforia che generano, e nelle depressioni che lasciano al loro passaggio.

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