La rubrica Settimana finanziaria del Sole 24 Ore, a firma di Walter Riolfi, annunciava ieri – nel suo titolo – la comparsa di “Spiragli di ottimismo sui mercati.” L’occhiello chiariva che “tra gli operatori si attenuano i timori di recessione”, anche se il sottotitolo metteva in guardia come “la crisi del credito è lungi dall’essere conclusa e può frenare i consumi delle famiglie.” Rimproverandomi per le distrazioni che mi avevano impedito di condividere, nel corso della settimana, il più sollevato stato d’animo diffusosi a Il Sole 24 Ore, mi sono tuffato nella lettura dell’articolo.
Ho così appreso, tra l’altro, che:
a) la scorsa settimana “s’è parlato un po’ meno di recessione economica”;
b) i dati macroeconomici Usa dell’ultima settimana “sembrerebbero scongiurare l’evenienza estrema” (la recessione, ndr): vendite al dettaglio, produzione industriale e bilancia commerciale sarebbero infatti state un po’ superiori alle attese;
c) la Federal Reserve, dopo aver contemplato dieci giorni fa, per bocca di un suo esponente, uno scenario di recessione, si è mostrata “molto più cauta”. Il suo presidente Ben Bernanke, in particolare, ha previsto semplicemente una “crescita da lumaca” e poi un “andamento più sostenuto” verso fine anno;
d) Riolfi in persona è stato in questi mesi “poco convinto dell’imminente recessione Usa” e continua a esserlo, anche se resta “piuttosto scettico” sull’eventualità di una “forte ripresa” nella seconda metà dell’anno. Un “prolungato rallentamento economico negli Usa e in parte in Europa” è il suo scenario preferito. E come mai? Perché “la crisi del credito è lungi dall’essere conclusa […] e un credito ridimensionato significa pure un rallentamento dei consumi […]”;
e) infine, sempre Riolfi, rincuorato dal fatto che il suo cauto ottimismo sul fronte macroeconomico sembra finalmente diffondersi anche al di fuori delle stanze de Il Sole 24 Ore, si dichiara fiducioso sulle prospettive del mercato azionario. Magari non ci sarà un’inversione a “V” delle Borse (e cioè un rally altrettanto esplosivo quanto repentina è stata la caduta dai massimi). Ma “si dovrebbe vedere un buon recupero di parecchi titoli (specie medie capitalizzazioni) industriali, utility, tecnologici, le cui quotazioni sono state falcidiate.”
Ritorno alla realtà
Finita la lettura, mi sono stropicciato gli occhi. E ho cercato di ritornare con i piedi per terra.
Naturalmente, io non so cosa faranno le Borse nei prossimi mesi: inversione a “U”, “V”, “W”, o un altro tonfo del 20%. Né penso di sapere quali saranno i settori migliori. E non capisco come faccia Riolfi a prevedere scintille per i “falcidiati” titoli industriali, tecnologici e dei servizi di pubblica utilità.
Proprio a fianco all’articolo, il Sole 24 Ore pubblicava ieri una tabella con gli andamenti dei 18 macrosettori del mercato europeo, da cui era facile vedere come nell’ultimo anno utility, industriali e tecnologici hanno fatto tutti molto meglio dell’indice generale DJ Stoxx. Le utility, in particolare, sono state uno dei soli tre comparti a far registrare un andamento positivo (+3,8%) a 12 mesi. Dov’è la falcidie?
Purtroppo, l’abbozzo di analisi macroeconomica su cui poggiava l’articolo non era molto più accurato. Ed è su questo che vorrei concentrarmi, visto che è da qui che Riolfi sembra far discendere le positive aspettative di mercato propagate poi dalle pagine di un giornale influente come Il Sole 24 Ore.
Mi sono chiesto: ma è vero che i timori di recessione, tra gli operatori, si sono attenuati?
Per cercare di capirlo, sono andato a vedere un indicatore sintetico e sensibile, che consente di fare un’accettabile valutazione, e cioè il contratto US.recession.08 scambiato sul mercato di Intrade (di cui ho già diffusamente parlato nel post Mercati predittivi e recessione negli Usa).
Ecco il grafico:

Com’è evidente, dopo essersi impennato a partire dalla metà di ottobre (quando Wall Street cominciò la sua picchiata dai massimi), il contratto, da un mese circa a questa parte, si è stabilizzato in una stretta forchetta tra il 62% e il 70% di probabilità di recessione: insomma, due probabilità su tre – un livello molto elevato.Gli “spiragli” di ottimismo sono dunque da ieri visibili ai lettori del Sole 24 Ore, ma restano invisibili ai comuni investitori.
Bernanke: parole e fatti
Né ha senso farsi forza con le parole di Bernanke. Il suo ruolo istituzionale gli impone di seminare cautela quando c’è troppo ottimismo, e rassicurazioni quando si diffonde il timore.
A parole, un presidente della Fed non potrà mai permettersi di prevedere una recessione: verrebbe prontamente e giustamente accusato di contribuire a provocarla.
Nei fatti, i recenti interventi di politica monetaria, con tagli ai Fed Funds di 225 punti base negli ultimi 5 mesi, anche mediante il ricorso a procedure d’urgenza, bastano a evidenziare quanto i timori di recessione, alla Fed, siano elevati.
Dati macroeconomici da interpretare
Che poi “l’evenienza estrema” della recessione sia stata in qualche modo “scongiurata” dai dati macroeconomici dell’ultima settimana è un’interpretazione davvero curiosa.
L’articolo del Sole 24 Ore cita vendite al dettaglio, produzione industriale e bilancia commerciale. E già stupisce il fatto che non vengano citati dati, altrettanto recenti, ma eloquentemente negativi, come quelli sui sussidi di disoccupazione o sulla fiducia dei consumatori.
Vediamoli, nei grafici e nelle analisi di Northern Trust:

Il dato di giovedì ha fatto balzare la media mobile a 4 settimane delle richieste di sussidi di disoccupazione al livello di 347.250, il più alto dal giugno 2004. Il deterioramento, dagli inizi del 2006, non dà segni di tregua. Commenta Asha Bangalore di Northern Trust: “la debolezza del mercato del lavoro è persistente.”Naturalmente, le rilevazioni settimanali sui sussidi di disoccupazione integrano e aggiornano quella mensile sul mercato del lavoro nel suo complesso, l’ultima delle quali – diffusa il primo febbraio – ha offerto scoraggianti indicazioni.
Gli occupati a gennaio sono scesi di 17 mila unità e un indicatore importante come il rapporto tra quanti hanno perso il posto di lavoro nel corso del mese e il monte totale dei disoccupati nel settore civile è salito al 50,7% rispetto al minimo ciclico del 46,0% nel luglio 2006.
Come osserva Bangalore, ed evidenzia il grafico qui sotto (dove le fasce grigie rappresentano periodi di contrazione del Pil), un sensibile incremento di questo rapporto è tipicamente associato all’avvio di una recessione.

Curioso, dicevo, è anche il fatto che Riolfi non citi – tra i dati settimanali di un qualche interesse – quello sulla fiducia dei consumatori, diffuso venerdì. E’ stato peggiore del previsto, spingendo l’indice verso livelli molto più bassi di quelli della recessione del 2001 e paragonabili alla recessione del 1990-1991, come risulta chiaro dal grafico seguente, sempre tratto da Northern Trust:

Il sondaggio sulla fiducia dei consumatori non ha, dal punto di vista quantitativo, una stretta correlazione con l’andamento della spesa per consumi. Ma dal punto di vista qualitativo, è ovvio che un così marcato deterioramento può solo preoccupare.Tanto per cominciare, getta un’ombra sulla meno recente rilevazione relativa alle vendite al dettaglio di gennaio, che nel suo articolo Riolfi si sforza di presentare come una sorpresa positiva.
In verità, il frazionale incremento fatto segnare dalle vendite il mese scorso (+0,3%) è interamente ascrivibile all’aumento dei prezzi di prodotti alimentari e benzina (dunque, non delle quantità vendute). Ed è stato accompagnato da una revisione al ribasso delle vendite nel quarto trimestre del 2007, che già sulla base della stima iniziale erano state le meno dinamiche dalla fine del 2001 (quando l’economia Usa stava uscendo dalla recessione).
I bilanci in crisi delle famiglie Usa
Le vendite al dettaglio rappresentano poi solo una parte dei consumi complessivi delle famiglie, ed è sui secondi più che sulle prime che vale la pena concentrare l’analisi – come fa Paul Kasriel, chief economist di Northern Trust, nel suo ultimo Outlook mensile, pubblicato il 4 febbraio.
La motivata convinzione di Kasriel è che gli Usa siano con ogni probabilità già entrati in recessione (i dati ufficiali, soggetti ad ampie revisioni, sono sempre qualche mese in ritardo). E che a differenza del 2001, quando furono gli investimenti delle imprese a mettere in ginocchio l’economia, questa volta saranno i consumi delle famiglie a farlo – determinando una crisi di più difficile soluzione.
L’elemento di fondo, che Riolfi dimentica di menzionare nel suo articolo, è che le famiglie sono estremamente indebitate – per effetto della corsa all’acquisto di case, fin troppo incentivata dai tassi d’interesse negativi del triennio 2003-2005. Lo vediamo nel seguente grafico di Northern Trust, che mette in relazione l’indebitamento totale con il valore di mercato degli asset delle famiglie:

Il ricorso al credito non si è però tradotto solo nell’acquisto di case – mercato gonfiatosi a dismisura e che, com’è noto, sta ora contraendosi drammaticamente.
In parte ha infatti contribuito a spingere i consumi a livelli mai toccati prima in rapporto al reddito disponibile, come illustra il grafico seguente (PCE sta per spese per consumi personali mentre DPI significa reddito personale disponibile):

“La festa – osserva Kasriel – sta ora per finire.”
Non ci sono più aumenti dei prezzi delle case da utilizzare per avere maggiore, quasi indiscriminato accesso al credito. Al contrario, il collasso del mercato immobiliare ha messo in difficoltà tutto il settore finanziario, al punto che anche i tagli dei tassi a breve da parte della Federal Reserve, per un bel po’ di tempo, potranno fare ben poco per restituire dinamismo al credito.
Gravate di debiti, incapaci di accedere a nuovi crediti, anzi sotto pressione per ridurre una leva finanziaria eccessiva, le famiglie americane hanno nell’ultimo biennio fatto crescente ricorso – nel tentativo di fare quadrare i conti – alla cessione di altri asset finanziari, titoli azionari in particolare, che sono stati venduti al settore corporate.
Ma anche questa opzione, ora che le difficoltà delle Borse e la contrazione dei profitti aziendali impongono un freno a buyback e LBO, sta diventando sempre meno percorribile.
Resta una sola strada, conclude Kasriel, ed è la riduzione di livelli di consumo non più sostenibili.
Per tornare all’articolo di Riolfi, un altro dato che lui cita per illuminare i suoi “spiragli di ottimismo” è in fondo null’altro che l’ennesima dimostrazione di una domanda interna sempre più esangue.
“La bilancia commerciale è stata meno peggio del previsto,” scrive nel suo articolo. Ma vediamo il perché.
Le esportazioni a dicembre sono aumentate dell’1,5%, un dato positivo. Ma la vera ragione della sorpresa è stato il brusco calo delle importazioni, scese dell’1,1% dopo essere aumentate nei mesi precedenti.
Tutte le principali categorie di beni e servizi hanno mostrato il segno meno (a indicare una debolezza molto diffusa). E sul dato complessivo ha pesato in particolar modo il crollo delle importazioni di auto, scese del 9,4% su base mensile.
Il saldo commerciale migliora, dunque, perché la domanda interna è entrata in sofferenza, a partire dai beni più costosi e dove conta la disponibilità di credito, come l’auto.
Ovviamente, l’import è anche uno dei principali canali di trasmissione attraverso cui la crisi dell’economia Usa (e soprattutto dei suoi consumatori) si trasferisce all’estero, in un contagio ancora agli inizi.
“Spiragli di ottimismo” risulta a me difficile vederne. Una recessione negli Usa resta molto probabile ed è forse già iniziata.
Recessione e mercato azionario
Quanto al possibile impatto sui mercati azionari, scrivevo nel post Mercati azionari e rischi di recessione come in presenza di recessione i bear market americani dal 1950 a oggi abbiano avuto una durata media di 491 giorni – e cioè oltre un anno e quattro mesi. I massimi di questo ciclo sono stati toccati a Wall Street nella prima metà di ottobre, appena quattro mesi fa.
Se si prende la media come riferimento, e si assume, in linea col consenso e con l’evidenza dei dati, che una recessione americana è molto probabile, bisogna dunque mettere in conto – se non si vuole proprio essere degli sprovveduti – che il bear market azionario possa durare un altro anno.
Ci saranno dei rally, ma, in questo scenario, saranno dei bear market rally, cioè ritracciamenti in un trend ribassista o, in altre parole, trappole da evitare.
Naturalmente, le cose potrebbero andare diversamente. Magari anche per i motivi sbagliati, Riolfi potrebbe avere ragione. E se sarà così, sarò ben contento di riconoscerlo.
Come diceva Lord Keynes, “when the facts change, I change my mind. What do you do, sir?” (“quando i fatti cambiano, io cambio parere. E Lei, Signore, cosa fa?”)
La settimana scorsa, però, a dispetto degli “spiragli di ottimismo” annunciati dal Sole 24 Ore, i fatti non sono cambiati. Resto dunque del parere che ho già più volte espresso su questo blog, e ai miei lettori rinnovo l’invito a un’estrema prudenza.
P.S.: un’appendice a questo articolo – con altri grafici interessanti – può essere trovata qui.
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