Mercato Usa della casa e prospettive del ciclo II
Nella prima parte di questo articolo ho riferito il parere di Martin Feldstein secondo cui i rischi di recessione negli Usa sono in aumento e non in diminuzione come sembra invece pensare la maggioranza degli investitori. Ho anche scritto come per Feldstein è il mercato della casa che continua a porre i problemi più gravi.
I consistenti cali dei prezzi dell’ultimo anno, che non hanno precedenti nella storia americana del dopoguerra, stanno facendo lievitare il numero di famiglie alle prese con debiti verso le banche superiori al valore degli immobili ipotecati (una condizione detta di negative equity).
C’è il rischio che si inasprisca sempre più la spirale perversa tra cali dei prezzi e insolvenze sui mutui con un impatto tale sulla ricchezza delle famiglie e il patrimonio delle banche da rendere possibile – nelle parole di Feldstein – una delle “recessioni più severe e durature degli ultimi svariati decenni.”
Per capire meglio i timori di Feldstein, in questa seconda parte vorrei in primo luogo concentrarmi sui prezzi delle case e vedere quali sono le prospettive del mercato Usa. Farò riferimento a un ottimo articolo apparso sul settimanale l’Economist la scorsa settimana.
Prendiamo dunque le mosse dai dati. Purtroppo, di statistiche sul mercato immobiliare Usa ce ne sono diverse, per lo più così selettive da diventare inaffidabili quando sono utilizzate come metro della situazione nazionale.
Come spiega l’Economist, anche se nessuno tra gli indici esistenti è del tutto soddisfacente, il meno imperfetto è senz’altro l’S&P/ Case-Shiller, il cui ultimo aggiornamento, riferito a febbraio (vedi grafico sotto con il tasso di variazione annua nell’ultimo ventennio), è stato reso pubblico il 29 aprile scorso.
L’indice S&P/ Case-Shiller ci dice in sostanza tre cose:
a) i prezzi a febbraio sono scesi, su base annua, tra il 12,5% (indice più ampio su un campione di 20 città) e il 13,6% (indice delle 10 città principali);
b) negli ultimi mesi la flessione dei prezzi è andata accelerando;
c) non ci sono segni che si sia toccato il fondo.
Tra i dati, si potrebbero citare anche i future sull’indice S&P/ Case-Shiller, i quali indicano che il mercato sconta un ulteriore calo dei prezzi del 20% circa prima del raggiungimento dei minimi nel 2010. Come però osserva l’Economist, si tratta di contratti a termine creati da poco e ancora molto illiquidi, che potrebbero offrire indicazioni poco attendibili.
Sul fatto che gli scenari di prezzo rimangano improntati al ribasso non c’è però dubbio. Lo si deduce facilmente dall’analisi della domanda e dell’offerta.
Le scorte di case invendute continuano a crescere e a detta dell’Economist c’è un eccesso di offerta stimabile in circa 1,1 milioni di unità immobiliari, su un totale di 4,06 milioni di unità in vendita alla fine di marzo.
Per quanto i costruttori abbiano drasticamente ridotto la loro attività, l’offerta è alimentata dall’afflusso sempre più numeroso di immobili messi all’incanto a conclusione delle procedure di pignoramento – aumentate ad aprile, secondo RealtyTrac, del 4% rispetto a marzo e del 65% rispetto a un anno fa.
A livello fondamentale, un modo per identificare delle soglie di supporto all’attuale crollo dei prezzi è quello di determinare quanto manchi al raggiungimento di valutazioni in linea con la media storica, anche se l’esperienza insegna che dopo un boom i prezzi tendono a eccedere al ribasso prima di ritrovare il fair value.
Gli analisti di Goldman Sachs, riferisce l’Economist, hanno elaborato un modello che mette in relazione i prezzi delle case al reddito disponibile delle famiglie e ai tassi d’interesse a lungo termine.
Risultato? Il livello d’equilibrio dovrebbe essere toccato solo dopo una caduta dei prezzi, a livello nazionale, del 20% circa dal picco. Il processo di correzione degli eccessi, secondo questo metro, sarebbe più o meno a metà del suo corso.
Un altro studio recente, a cura di Morris Davis dell’Università del Wisconsin-Madison e di Andreas Lehnert e Robert Martin della Federal Reserve, ha invece cercato di stabilire quale sia il livello di equilibrio nel rapporto tra prezzi e affitti – quello che spesso viene definito il P/E del mercato immobiliare.
La conclusione dello studio è che tra il 1960 e il 1995 il rendimento medio (rapporto affitto/prezzo) si è mantenuto in America molto stabile, in una forchetta compresa tra il 5% e il 5,5%. Dopodichè si è inabissato, per effetto dell’ascesa dei prezzi, fino a un minimo del 3,5% al picco del boom.
Secondo Michael Feroli, un analista di JP Morgan citato dall’Economist, l’indice S&P Case-Shiller dovrebbe scendere di un altro 10%-15% da qui alla fine del 2009 per riportare i rendimenti in linea con la media di lungo periodo.
Anche in questo caso, il crollo dei prezzi sembra essere, nella migliore delle ipotesi, appena a metà strada.
Effetti sull’economia del crollo del mercato immobiliare
Da qualsiasi parte si analizzi la situazione, la risposta è dunque che il mercato deve ancora scendere molto. Con quali effetti sull’economia?
Per capire meglio i motivi del pessimismo di Friedman vorrei utilizzare un’analisi dei nessi tra mercato immobiliare ed economia americana pubblicata un mese fa da Paul Kasriel, chief economist di Northern Trust.
S’intitola “How housing has affected the economic ecology” e ne raccomando la lettura a chi ha un po’ di dimestichezza con la lingua inglese e con la macroeconomia. Kasriel sa essere perspicace, essenziale e semplice e i suoi studi sull’economia americana sono tra i migliori e i più accessibili che io conosca.
Dell’analisi di Kasriel proverò qui a riferire i passi salienti.
In primo luogo, per capire gli effetti dello sboom è necessario non perdere il senso del contesto e della prospettiva. La crisi del mercato immobiliare fa seguito al più grande boom nella storia del dopoguerra.
Al picco, le vendite di case unifamiliari arrivarono a rappresentare il 16,3% del Pil rispetto a una media storica dell’8,4% (vedi grafico sotto, a cura di Northern Trust). Al settore immobiliare possono essere fatti risalire circa un terzo dei posti di lavoro creati nel corso del passato ciclo espansivo.
Inoltre, le peculiari caratteristiche del mercato americano hanno fatto sì che, in presenza di prezzi delle case in costante ascesa, le famiglie siano state in grado di rinegoziare i mutui (refinancing) e di ottenere prestiti dalle banche (home equity loans), ricavandone liquidità aggiuntiva che – al picco – è arrivata a essere pari al 6% del reddito disponibile.
(Su questo vedi anche la chiara spiegazione offerta nel riquadro Prezzi delle abitazioni e consumi delle famiglie negli Stati Uniti a p. 14 del capitolo Congiuntura e Politiche economiche del bollettino della Banca d’Italia del marzo 2006).
Una tale estrazione di risorse liquide dal bene casa (home equity extraction) sommata alle ingenti vendite nette di azioni che le famiglie hanno messo in atto verso il settore corporate (fino al 7% del reddito disponibile) consente di spiegare come mai la spesa per consumi abbia raggiunto, all’apice dell’ultimo ciclo espansivo tra il 2005 e il 2006, nuovi massimi storici pari al 96% del reddito disponibile.
Naturalmente, ora che il boom è diventato crollo, questi potenti fattori di espansione dei consumi e dell’attività economica si sono messi a operare in senso inverso.
La ricchezza immobiliare delle famiglie sta rapidamente diminuendo. C’è meno possibilità di estrarre risorse liquide dal bene casa. E’ più difficile ottenere un mutuo o un prestito garantito dall’immobile. Inoltre, il generale rallentamento dell’economia spinge all’insù il tasso di disoccupazione.
Non stupisce, di conseguenza, che la fiducia dei consumatori sia precipitata ai livelli più bassi dalla recessione del 1980 (vedi grafico sotto, a cura di Northern Trust).
Nè sorprende che i consumi siano entrati in sofferenza. In particolare, le vendite al dettaglio hanno iniziato a contrarsi in termini reali, facendo segnare nel primo trimestre un calo annuo del 2,4% (vedi grafico sotto, a cura di Northern Trust).Ad aprile, dato reso noto pochi giorni fa, la flessione è proseguita con un -0,3% in termini reali rispetto a marzo (il risultato, in ossequio alla “sbarazzina” tendenza che ha preso piede tra gli analisti e gli operatori di mercato nelle ultime settimane, è stato in genere accolto con soddisfazione).
Se il settore immobiliare continua a crollare e i consumi flettono è ovvio che anche in altri settori l’attività entri in difficoltà. L’ottimismo delle imprese, sia grandi che piccole, è sceso ai livelli più bassi dalla recessione del 1990 mentre sia l’utilizzo della capacità produttiva che la produzione industriale stanno diminuendo. Gli investimenti ne risentiranno.Crisi del mercato immobiliare e sistema bancario
C’è infine da considerare la dimensione finanziaria di questo ciclo immobiliare di boom seguito da crisi.
Le famiglie hanno fatto un ricorso esasperato al debito, arrivato a toccare il 52,5% del valore degli immobili residenziali – un livello senza precedenti. E i mutui ipotecari sono diventati la prima classe di debito nell’economia Usa, due volte più importanti dei titoli del Tesoro.
L’opinione comune è che le banche abbiano originato i mutui ma non li abbiano poi tenuti in portafoglio, finendo invece per distribuirli diffusamente nel mercato dei capitali attraverso le operazioni di cartolarizzazione.
Questa “conventional wisdom”, osserva Kasriel, corrisponde poco alla realtà.
In verità, negli attivi delle banche americane i mutui e i prestiti garantiti da immobili – senza dunque considerare i prodotti mortgage backed (obbligazioni ipotecarie o MBS) – sono cresciuti negli ultimi anni in modo cospicuo, passando dal 20% del credito totale nel 2001 al 30% nel 2006.
Molte MBS, poi, se sono state distribuite sono anche state a un certo punto riacquistate. Tant’è che, nel complesso, mutui e MBS, dunque tutte le attività variamente collegate al mercato immobiliare, sono arrivate a rappresentare il 60% dell’attivo delle grandi banche commerciali americane, un record storico come mostra il grafico sotto (a cura di Northern Trust).
“Qui sta il problema”, osserva Kasriel. “Il collaterale della più importante classe di debito nell’economia americana sta sperimentando i cali di prezzo più severi dal dopoguerra.”
Il risultato, come si è cominciato a vedere, saranno perdite massicce su un ampio spettro di classi di attivo, che ridurranno il sistema bancario in uno stato di debolezza e sottocapitalizzazione.Conclude Kasriel: “Anche se la Fed continuerà a prestare liquidità a basso costo al sistema finanziario, la domanda delle banche per l’offerta della Fed sarà debole dato che si troveranno prive del capitale per sostenere il credito al settore privato.”
La conseguenza ultima di questo stato di cose non può che essere duplice:
a) la recessione in corso (“current recession”, così si esprime Kasriel e io concordo) sarà più severa di quella del 2001, perché centrata sul settore delle famiglie, che conta per il 75% circa del Pil.
b) la ripresa, quando avrà inizio (per Kasriel non prima della fine di quest’anno), sarà lenta per l’inadeguato sostegno di un sistema bancario sottocapitalizzato: piuttosto che a V, sarà a forma di U o addirittura di L, il che vuol dire che più che una ripresa rischia di essere una stagnazione destinata a protrarsi almeno per tutto il 2009.
Non si può non essere d’accordo su tutta la linea!<br/>E non sei il solo:<br/>icebergfinanza.splinder.com<br/>uno dei “top blogger” di finanza che seguo ….<br/><br/>complimenti per il blog<br/><br/>saluti <br/>skipper
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