l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

Archivio per la categoria “metodi di valutazione”

Quanto è sottovalutato l’azionario europeo?

Scrivevo ieri, nel post Valutazioni azionarie e rendimenti attesi, che i mercati azionari europei sono più sottovalutati di quelli americani.

Per questi ultimi offrivo diversi dati puntuali relativi ai massimi di sottovalutazione toccati al fondo dei grandi bear market del passato e una stima aggiornata del CAPE, ossia del rapporto tra il prezzo e la media decennale degli utili. Continua a leggere…

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Valutazioni azionarie e rendimenti attesi

A ottobre, nel post Punto di svolta, scrissi che ero diventato compratore di azioni. Dopo aver giocato in difesa o scommesso al ribasso per quasi un anno e mezzo, sostenevo che la sottovalutazione dei listini azionari era diventata tale da convincermi ad accumulare gradualmente delle posizioni lunghe, ossia rialziste.

Ora che gli indici hanno fatto un altro tonfo, violando con decisione i minimi dello scorso autunno, è giusto chiedersi se quella mia scelta non sia stata sbagliata. Continua a leggere…

Gli investitori value sfidano il bear market

A cavallo dell’ultimo fine settimana di ottobre, quando gli indici di Borsa americani sono ridiscesi verso i minimi del 10 ottobre e quelli europei e asiatici sono sprofondati ancora più giù, ho di nuovo acquistato azioni. E qualcosa ho comperato anche nell’ultimo paio di giorni. Nei momenti di massimo sconforto e paura, ho preso atto di quello che faceva la massa e mi sono regolato di conseguenza: ho fatto l’opposto. Nel mio portafoglio di attività finanziarie, i titoli azionari, che avevo drasticamente tagliato al 15% già nella prima metà del 2007, sono così arrivati a costituire una quota del 55%. Continua a leggere…

La Formula di Greenblatt è vincente in Europa

Sei mesi fa andai alla presentazione dell’edizione italiana del Piccolo libro che batte il mercato azionario di Joel Greenblatt, e poi scrissi un post che è presto diventato il più letto di questo blog. Nell’articolo sintetizzavo il lavoro di Greenblatt e tessevo le lodi della sua Formula vincente, un geniale condensato della tradizione del value investing basato su due semplici criteri di valore e di qualità come il rapporto utili/prezzo e la redditività del capitale.

La reazione dei lettori, come ho accennato, fu di grande interesse, ma portò anche alla luce una questione a cui non seppi dare una risposta del tutto soddisfacente. La Formula – come dimostrava Greenblatt – aveva permesso di costruire portafogli azionari di enorme successo nel mercato americano. Ma in Europa era altrettanto efficace? Continua a leggere…

Tra bear market e Bear Stearns: dove va la Borsa?

“Quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo”. Tra gli investitori questo aforisma del filosofo George Santayana è tanto noto quanto, in pratica, disatteso. Soprattutto quando i mercati danno soddisfazione, perché salgono – come sta di nuovo accadendo dal 15 marzo, quando la Federal Reserve ha orchestrato il salvataggio della banca d’affari Bear Stearns – la capacità di prendere le distanze dall’attualità e “ricordare il passato” diventa una virtù rara.

Che le cose stiano così è tornato a farmelo presente, in modo un po’ scanzonato, l’ultimo commento settimanale di John Hussman, uno dei migliori gestori e analisti americani. Continua a leggere…

Il value investing secondo Pabrai

Tra i giovani eredi della tradizione del value investing uno degli investitori che più si è messo in luce negli ultimi anni, come documenta il sito GuruFocus.com, è Mohnish Pabrai. Il suo veicolo d’investimento, Pabrai Funds, è stato costituito nel 1999 e non ha, dunque, una lunghissima storia. Ma la brillantezza con cui ha superato il bear market del 2000-2002 e il rendimento annualizzato, al netto dei costi, del 29% che ha saputo ottenere dall’avvio a oggi consentono di dire che il personaggio ha della stoffa. Continua a leggere…

Borse, tassi e bufale a mezzo stampa

In un lungo articolo che copre due pagine dell’ultimo CorrierEconomia, Giuditta Marvelli si chiede come si possa investire con successo ora che, “dopo quattro anni positivi”, i mercati sono tutti ai massimi. La risposta è che da privilegiare sono ancora le azioni, per due motivi: le valutazioni sono “eque” e poi i tassi a breve, in America, hanno cominciato a scendere. I tagli dei tassi da parte della Federal Reserve, racconta Marvelli, sono “una specie di polizza assicurativa per le Borse“.

La conferma viene dall’amministratore delegato di Meliorbanca private, Giuliano Cesareo: “Quando i tassi americani scendono – e per ora accade – è statisticamente difficilissimo che le azioni vadano male.”

Il bear market dimenticato

Sembra tutto chiaro e quasi banale. Ma le cose stanno davvero così? Anche il più distratto o smemorato degli investitori dovrebbe ricordare cosa accadde tra il 2000 e il 2003, quando l’ultimo ciclo di riduzioni dei tassi da parte della Fed coincise con il più brutale bear market azionario del dopoguerra.

Gli indici di Borsa persero allora tra la metà e i due terzi del loro valore mentre la Fed abbatteva i Fed Funds dal 6,5% all’1,75% nel solo 2001, continuava l’opera con un altro taglio all’1,25% nel novembre 2002 e la completava con un’ultima riduzione all’1% nel giugno del 2003 (per la cronologia, vedi qui).

Nelle rassicurazioni semplicistiche dell’articolo di CorrierEconomia c’è dunque qualcosa che non quadra. Vediamo cosa.

Valutazioni “eque”?

Sulla questione delle valutazioni azionarie, che – o per miopia o per malizia – vengono così spesso descritte come “eque” se non “attraenti”, mi sono già più volte soffermato, da ultimo nel post I multipli di Borsa restano elevati. Continuare a riproporre, come fa anche l’articolo di Marvelli, il multiplo P/E, nella sua massima vaghezza, come una significativa misura di valore è un errore grossolano.

Stimare il giusto valore del mercato non è così elementare. Intanto, come scrive Aswath Damodaran in Investment Fables, Exposing the Myths of “Can’t Miss” Investment Strategies, bisognerebbe essere precisi con il tipo di utili a cui si fa riferimento. “Il più grosso problema con i P/E ratio sono le tante varietà di utili per azione che vengono utilizzate per calcolare il multiplo.”

Esistono – e la lista non è completa – gli utili trailing (degli ultimi quattro trimestri), correnti (dell’ultimo anno finanziario), prospettici (o forward, basati sulle stime degli analisti per il prossimo anno finanziario), fully diluted (che tengono conto dell’esercizio delle stock option assegnate al management), netti, operativi (che non tengono conto delle spese operative) e pro forma (che escludono gli effetti di operazioni straordinarie).

Il malcostume prevalente, negli ultimi 10-15 anni, a mano a mano che si gonfiavano le valutazioni di Borsa, è stato quello di far uso sempre più frequente degli utili prospettici, operativi e pro forma (insomma, tutte le varianti più idonee ad abbassare i multipli P/E), confrontandoli con gli utili netti e correnti del passato: un’opera di maquillage ingannevole ma ben riuscita, che ha finito per generalizzare l’uso di metri di valutazione falsati.

Ma i problemi non finiscono qui. Il P/E è infatti uno strumento di valutazione relativa: lo si usa per fare confronti tra titoli, settori, mercati, oppure tra il presente e il passato. Nel primo caso, la preoccupazione deve essere di uniformare i criteri contabili utilizzati, in modo da non usare “due pesi e due misure”. Nel secondo, è imperativo tenere conto del ciclo. Se no, nei punti di massima o di minima, gli utili tenderanno a essere o insostenibilmente elevati (boom) o straordinariamente depressi (recessione), risultando in multipli P/E insensati e fuorvianti: alti quando i mercati tendono a essere sottovalutati, nel pieno di una recessione; bassi quando i mercati sono sopravvalutati, nelle fasi di euforico boom.

Il P/E, insomma, è un utile strumento di valutazione se si è rigorosi nell’utilizzare un unico metro di riferimento nel calcolare gli utili, e se questi utili vengono poi “normalizzati” tenendo conto del ciclo.

L’ho già scritto, ma vale la pena ripeterlo: uno dei non molti analisti di indubbio prestigio, che seguono con rigore questo tipo di procedura, e rendono poi pubblici i risultati, è Andrew Smithers.

Riproduco qui la serie storica del Cyclically Adjusted P/E (CAPE) dell’S&P 500, che Smithers aggiorna trimestralmente sul suo sito:

Chi pensa che l’S&P 500, come la gran parte degli indici azionari, sia oggi “equamente” valutato dovrebbe riflettere: il mercato è in verità più caro di quanto non sia mai stato nella sua storia, con l’unica, poco rassicurante eccezione del picco stratosferico toccato nel 2000.

Anche a non volersi fidare di Smithers e del suo CAPE, è possibile fare una verifica utilizzando, anziché uno strumento di valutazione relativa, il metodo principe per calcolare il valore intrinseco o fondamentale delle azioni, e cioè il Dividend Discount Model (DDM).

La teoria finanziaria dice che il valore fondamentale di un’azione è dato dal valore attualizzato del flusso di dividendi attesi. La rappresentazione grafica di questo calcolo, applicata all’S&P 500, è stata pubblicata in questi giorni in uno studio della Federal Reserve di San Francisco. Eccola:

La linea tratteggiata rappresenta il valore fondamentale dell’S&P 500, il suo fair value, mentre la linea continua rappresenta il prezzo corrente, al netto dell’inflazione. Anche in questo caso è evidente quanto sopravvalutato sia il mercato azionario di oggi, meno costoso solo rispetto alle punte estreme del 2000. Il grafico della Federal Reserve è simile a quello di Smithers. E consente, con autorevolezza, di descrivere come chiacchiera infondata quella di chi continua a propalare il mito delle valutazioni azionarie attraenti.

Quando i tassi scendono…

Passiamo al secondo punto enfatizzato dall’articolo di CorrierEconomia: “Quando i tassi americani scendono è statisticamente difficilissimo che le azioni vadano male.”

Ho già detto che l’ultimo ciclo di riduzioni del costo del denaro, iniziato negli Usa nel gennaio 2001 e conclusosi nel giugno 2003, rappresenta una recente e flagrante smentita di questa presunta legge del mercato. Resta però interessante chiedersi, anche per rispetto al vecchio (e forse un po’ logoro) detto “Don’t fight the Fed” (“non lottare contro la Fed”) se esista una qualche affidabile correlazione tra movimento dei Fed Funds – i tassi a breve manovrati dalla Federal Reserve – e performance di Borsa.

Uno studio dettagliato, che copre il periodo dal 1955 a oggi, è stato pubblicato qualche mese fa da William Hester su HussmanFunds.com.

I risultati, in sintesi, sono i seguenti:

a) Dal 1955 a oggi ci sono stati 11 cicli (quello appena iniziato è il dodicesimo) in cui la Fed ha ridotto i tassi almeno una volta dopo averli alzati a più riprese. In media, l’S&P 500 ha fatto segnare rialzi annualizzati prossimi al 20% – dunque ben superiori alla media – nei sei, dodici e diciotto mesi successivi al primo taglio. C’è dunque un fondamento alla base del detto “Don’t fight the Fed”.

b) Tuttavia, le reazioni del mercato hanno mostrato una notevole variabilità (com’è evidente da quanto accadde nel 2001-2002), a cui è possibile dare senso se si tiene conto di due altri fattori: valutazioni e curva dei rendimenti (la relazione, cioè, tra tassi a lunga e tassi a breve, che riflette in primo luogo le attese economiche relative a crescita del Pil e inflazione).

Solo se si tiene conto di tassi a breve, valutazioni e attese incorporate nella curva dei rendimenti si può arrivare a una buona interpretazione dei dati.

I risultati sono riassunti nella tabella che segue, per la cui comprensione va subito detto che il P/E utilizzato da Hester è un multiplo dei Peak Earnings, cioè degli utili al picco del ciclo: una modalità di “normalizzazione” degli utili in base al ciclo ideata da John Hussman (vedi qui), e che porta a esiti affini al CAPE di Smithers.

Tre sono le osservazioni da fare:

a) le performance migliori – spesso addirittura esplosive – il mercato azionario le ha offerte in reazione a riduzioni dei tassi che avevano luogo in un contesto di valutazioni depresse (P/PE inferiore a 15), tipicamente verso la fine di un bear market;

b) in subordine, performance positive si sono registrate quando una curva dei rendimenti positivamente inclinata (con tassi a lunga più alti dei tassi a breve, nella tabella YC positively sloped) segnalava attese di una ripresa del ciclo economico;

c) diverso è stato l’esito quando le valutazioni erano elevate e i tagli dei tassi a breve hanno coinciso o fatto seguito a una fase di inversione della curva dei rendimenti (YC inverted), che segnalava attese di stagnazione o recessione: i ritorni del mercato sono stati negativi sia a 6 che a 12 o a 18 mesi (è stato così nel 2001-2002, ma anche nel ciclo di riduzioni dei tassi che accompagnò il bear market del 1968).

Quale di queste tre diverse tipologie è meglio applicabile alla situazione attuale?

Per Hester non ci sono dubbi. L’S&P 500 è scambiato oggi a 18,4 volte i Peak Earnings, un multiplo molto elevato anche se si rinuncia a normalizzare i livelli record dei margini di profitto (operazione che spingerebbe i multipli a livelli ancora più alti).

In secondo luogo, la curva dei rendimenti, nei mesi scorsi, è stata a lungo negativa, esprimendo attese di stagnazione e forse di recessione economica, non certo di ripresa. E’ tornata positiva solo di recente, quando il mercato ha cominciato a scontare una drastica riduzione dei tassi a breve.

Insomma, mercati azionari riccamente valutati e vicini ai massimi, in un contesto in cui i rendimenti obbligazionari segnalavano timori che la crescita lasciasse il passo a una fase di debolezza economica, non hanno storicamente risposto bene all’avvio di un ciclo di riduzioni del costo del denaro.

Era questa la situazione a cavallo tra il 2000 e il 2001. Ed è questa la situazione anche oggi.

L’idea che il mercato azionario sia “equamente” valutato è una bufala. E una bufala è anche l’altra idea che i tagli dei tassi siano, sempre e comunque, una panacea per le Borse.

I multipli di Borsa restano elevati

L’inchiesta di CorrierEconomia di oggi, che ho citato nel mio post Perché la Borsa italiana è maglia nera in Europa?, comprende anche un’intervista, in gran parte condivisibile, con Gianluigi Costanzo, responsabile di Generali Investments. C’è però un punto su cui vorrei sollevare delle obiezioni, ed è purtroppo il più importante. Dice Costanzo: “Le Borse non sono molto care e in genere il loro rapporto prezzo/utili è interessante. E Piazza Affari […] non fa eccezione.” E’ un punto di vista comune a molti investitori professionali, ma che pur riflettendo il consenso di mercato manca di obiettività.

Vorrei prendere a prestito le argomentazioni che ripropone, nella sua ultima lettera settimanale, John Hussman.

Guardiamo il benchmark dei benchmark, e cioè l’S&P 500. Sulla base delle stime di consenso, il rapporto prezzo/utili prospettici è oggi di circa 15 volte, un livello che molti investitori immediatamente riconoscono come familiare: si sa che la media storica del multiplo P/E, almeno per il mercato americano, gravita attorno a 14-15. Il fair value sembrerebbe non dover essere lontano da qui.

Il cattivo uso del P/E

Le precisazioni da fare sono però molte. Le stime di oggi calcolano gli utili operativi (accuratamente depurati di molte disavventure in cui incappano le società quotate) e non quelli netti. Le serie storiche del P/E, fino agli anni ’80, sono state compilate sulla base degli utili correnti e non di quelli prospettici (sistematicamente più elevati). Infine l’uso del P/E senza considerare l’andamento del ciclo è largamente svuotato di validità, come ho già argomentato nel post Sul cattivo uso del P/E e il P/E normalizzato.

Scrivevo in quel post:

Il grosso limite del P/E è che la base (il denominatore E) su cui si opera il confronto è molto “ballerina.” Gli utili sono una variabile economica volatile, molto più volatile del PIL, che pure, come chiunque sa, tende a oscillare tra fasi di crescita e stagnazione.

Basta guardare all’ultimo ciclo, in cui gli utili delle società americane, dopo il boom della seconda metà degli anni ’90, crollarono nel 2001 del 50% (cinquanta per cento!) quando l’economia Usa entrò in una breve e poco profonda recessione.

L’uso naive del P/E porta al paradosso che un titolo o un indice tenderà ad apparire sopravvalutato quando gli utili sono depressi (in una recessione), e sottovalutato quando gli utili sono insostenibilmente elevati (al picco del ciclo). Ma questo è un nonsenso.

E’ vero invece il contrario: le punte di sopravvalutazione si raggiungono quando gli investitori si lasciano andare all’ottimismo eccessivo (al picco del ciclo), e quelle di sottovalutazione quando è il pessimismo a farla da padrone (nel tunnel della recessione).

Il P/E, per diventare un buon strumento di valutazione, ha bisogno di un “filtro”, che stabilizzi la base di calcolo identificando un livello normale degli utili, “depurato” dai pronunciati alti e bassi del ciclo.

Il P/E normalizzato

Come osserva Hussman, è irrealistico pensare che il livello “normale” degli utili possa essere quello di oggi: ci troviamo infatti ben al di sopra del trend di lungo periodo (crescita media annua degli utili del 6% circa), probabilmente in prossimità del picco ciclico, in una situazione in cui una serie di fattori one-off (che in sintesi vanno fatti risalire al processo di globalizzazione) hanno consentito al settore corporate di far lievitare i margini di profitto addirittura del 50% al di sopra della norma.

Se si fa la tara per tutti questi elementi di eccezionalità, da quelli macroeconomici a quelli contabili, a quale conclusione si arriva?

Ce lo dice uno degli analisti più seri e stimati al mondo, Andrew Smithers (nella foto in alto), che ha da poco aggiornato, sul suo sito, un grafico con le serie storiche, relative all’S&P 500, del P/E “corretto in base al ciclo” (CAPE) e della q di Tobin (un parametro di valutazione proposto dal premio Nobel James Tobin e basato sul valore netto degli asset delle società quotate). Eccolo:

Se si dà credito ai calcoli di Smithers (e sarebbe bene farlo, dato che le sue misure di valore, tanto il CAPE che q, sarebbero state in passato un’ottima guida per gli investitori), l’S&P 500 risulta oggi sopravvalutato dell’83% rispetto alla media di lungo periodo. Un discorso analogo potrebbe essere applicato ai mercati europei.

Mercati sopravvalutati e ritorni deludenti

L’unico modo in cui è possibile riconciliare questa analisi con quella di chi, come Costanzo, ritiene i mercati di oggi “interessanti” sotto il profilo valutativo è di pensare che gli “ottimisti” il confronto lo facciano su un periodo storico che non si spinge più indietro degli anni ‘90. Ma così finiscono per confrontare delle Borse sopravvalutate con Borse ancor più sopravvalutate.

Chi percorre questo genere di scorciatoie farebbe bene a non ignorare anche un’altra annotazione. Osserva Hussman che dal 1998 a oggi il ritorno totale di un investitore nell’S&P 500 è stato uguale a quello di chi avesse “parcheggiato” i suoi risparmi in titoli del Tesoro a breve termine, ovviamente con una differenza fondamentale, e cioè che il rischio e la volatilità dell’investimento azionario sono stati enormemente superiori.

Si conferma così l’esperienza storica di generazioni di investitori: mercati sopravvalutati hanno sempre finito per offrire, nel medio-lungo periodo, rendimenti deludenti.

Sul cattivo uso del P/E e il P/E normalizzato

Un articolo apparso su Bloomberg News qualche giorno fa ha attirato la mia attenzione. Si trattava, d’altra parte, di un’esclusiva pubblicata con grande risalto e dal titolo sensazionale: “S&P 500 Stocks Are 45% Cheaper Than When Index Last Hit Record” (I titoli dell’S&P 500 sono il 45% meno cari di quando l’indice toccò i massimi del 2000”). Ne riporto, in una mia traduzione, alcuni passi salienti.

“I titoli dell’indice S&P 500 potrebbero essere ancora un “affare” dopo che il benchmark azionario americano ha sorpassato i massimi del 2000. Continua a leggere…

Blogger in contraddizione

Me ne rendo conto: in questo blog cominciano ad affiorare delle contraddizioni. E, in una certa misura, la cosa mi rallegra. Sin dall’inizio ho pensato che scrivere sarebbe servito a dare maggiore chiarezza alle esperienze e alle letture fatte nel campo degli investimenti. E per chiarire, prima di tutto bisogna portare alla luce le aporie, le contraddizioni.

Diceva Karl Popper  (nella foto) che “Il nostro interesse principale in scienza e in filosofia è, o dovrebbe essere, la ricerca della verità, mediante audaci congetture, e la ricerca critica di ciò che è falso nelle nostre varie teorie rivali.”

Io non sono nè scienziato nè filosofo, ma mi rendo conto che l’attività conoscitiva comincia con la scoperta di problemi. E così, mentre ieri finivo di scrivere i miei post sul fantomatico Fed Model, mi ha fatto piacere rendermi conto che proprio un problema mi si era appena parato davanti.

Stavo citando Valuing Wall Street, il libro di Andrew Smithers e Stephen Wright, e la loro conclusione che non c’è relazione tra rendimenti obbligazionari e rendimenti azionari per il semplice motivo che i primi sono condizionati dall’inflazione e i secondi no. Ovvero, le azioni sono indifferenti all’inflazione e per questo non ha senso valutarle in relazione ai bond (come fa il Fed Model).

E’ una conclusione che avevo fatto mia. Ma mentre la riportavo mi sono reso conto che cozzava con alcune tesi di un altro libro che apprezzo e che ho già citato su questo blog, e cioè Unexpected returns di Ed Easterling.

Valutazioni azionarie e inflazione

Nel post Cicli di mercato e rendimenti del 27 aprile scorso ho riassunto alcune delle conclusioni di Easterling, tra cui quella che i bear market e bull market secolari susseguitisi nella storia dei mercati azionari (otto nell’ultimo secolo) sarebbero causati dalle fluttuazioni del tasso d’inflazione.

Dunque, la difficoltà è di nuovo quella che pensavo di aver risolto verso la fine del post Il fantomatico Fed Model II, e cioè il ruolo giocato o non giocato dall’inflazione nei mercati azionari.

Proprio mentre schieravo due dei miei autori preferiti (Smithers e Wright) contro le debolezze dei sostenitori del Fed Model, è saltato fuori un conflitto con un altro autore (Easterling) alle cui tesi fino ad oggi avevo dato credito (anche su questo blog).

Come uscirne? Beh, in primo luogo verificando i termini esatti della questione. Sono così andato a controllare.

Questa è la citazione dal libro di Smithers e Wright (pp. 245-247):

“Dal punto di vista statistico, valutare le azioni in rapporto ai rendimenti obbligazionari o all’inflazione è un caso esemplare di selezione dei dati al fine di sostenere una tesi preconcetta, anziché usare i dati oggettivamente nel tentativo di scoprire la verità. […] Quando si utilizzano tutte le informazioni disponibili risulta chiaro che tra bond yield e dividend yield o multipli P/E non c’è in sostanza nessuna correlazione. Le previsioni teoriche sono dunque confermate dalla realtà.”

Cosa sostiene invece Easterling? Dopo aver individuato, nel corso del ventesimo secolo, quattro fasi caratterizzate da multipli P/E in espansione (bull market) e quattro fasi caratterizzate da P/E in contrazione (bear market), Easterling scrive (p.84):

“I periodi con P/E in aumento corrispondono a periodi in cui l’inflazione si muove verso una condizione di stabilità dei prezzi. I periodi con P/E in calo corrispondono a periodi in cui l’inflazione si scosta da una condizione di stabilità o verso un’inflazione maggiore o verso una maggiore deflazione.”

E’ quello che chiama “effetto curva Y”, perché incrociando i dati sui P/E di mercato con i tassi d’inflazione, Easterling ne ricava una rappresentazione a forma di Y.

A un’inflazione attorno al 2% corrispondono fasi di mercato come la seconda metà degli anni ’20, la prima metà degli anni ’60 o la seconda metà degli anni ’90, in cui il mercato si è spinto verso multipli P/E tra 20 e 40 (la gamba della Y). A un’inflazione al galoppo verso il 5%-10%-15% o in picchiata verso tassi negativi (deflazione) corrispondono fasi di mercato come gli anni ’30 o gli anni ’70, in cui i P/E sono crollati sotto il 10 (le due braccia della Y).

Che spiegazione dà Easterling dell’ “effetto curva Y”? A p. 135 scrive:

“Quando l’inflazione aumenta, il ritorno che gli investitori esigono dalle azioni aumenta, perché vogliono essere compensati per la maggiore inflazione. Di conseguenza, i prezzi azionari scendono a livelli dove possono assicurare ritorni futuri superiori. Quando l’inflazione diventa invece deflazione, il risultato è un calo degli utili futuri. E se l’attesa degli investitori è che gli utili in futuro scenderanno, anche i prezzi correnti caleranno.”

Broker economics e illusione monetaria

L’idea che gli investitori in azioni debbano essere compensati per la maggiore inflazione, come se le azioni fossero in tutto e per tutto uguali alle obbligazioni, è quanto abbiamo già visto definire da Smithers e Wright (nel mio post precedente) come l'”enorme sciocchezza” della “broker economics.” Si tratta della stessa “sciocchezza” che sembrano dimostrare tutti coloro che sono accecati da forme di illusione monetaria.

Mi fermo qui un attimo, per raccogliere e sintetizzare i termini del “problema.”

Mi sembra si possa dire che per Smithers e Wright il rapporto tra inflazione e azioni non deve esistere e infatti non esiste; mentre per Easterling (e la “broker economics”) il rapporto tra inflazione e azioni esiste ed è normale che esista. Siamo agli antipodi, sia nella teoria che nell’interpretazione dei dati.

Sui dati, non so per ora cosa dire. Qualcuno probabilmente si sbaglia e finisce per “dimostrare” più di quanto i dati non dicano. Cercherò di fare verifiche con altre fonti.

Sulla questione teorica, penso che l’investitore accorto, proiettato su un orizzonte di lungo periodo, debba stare dalla parte di Smithers e Wright.

Valutare le azioni come se fossero bond non ha senso, tanto più che esistono studi che confermano empiricamente come le fluttuazioni del livello dei prezzi si trasferiscano prontamente anche ai profitti. Al variare dell’inflazione varia in pari misura il flusso di utili attesi e non c’è dunque motivo perché cambi il valore intrinseco di un titolo azionario.

Utilizzare il Dividend Discount Model come fa la “broker economics” è davvero insensato.

Ci sono due osservazioni che vale forse la pena aggiungere. La prima riguarda l’indiscutibile esistenza di forme di illusione monetaria.

Si tratta di un fattore ininfluente se, come nel caso di Smithers e Wright, l’obiettivo dell’analisi è di identificare un rigoroso modello di valutazione dei mercati azionari nel lungo periodo. Ma probabilmente è un elemento che gli speculatori di breve periodo (a cui si rivolge in larga misura la “broker economics”) non possono ignorare.

E’ come dire che ai primi interessa capire il mercato come dovrebbe essere per poter sfruttare le inefficienze (e cioè le deviazioni dal fair value) del mercato come è, mentre i secondi pensano di poter raggiungere lo stesso obiettivo con la sola conoscenza del mercato come è.

I primi tirano dritto seguendo la loro misura del valore, convinti della sua obiettività e fondatezza, i secondi inseguono il mercato con la speranza di riuscire ad anticiparlo.

L’altra osservazione riguarda gli effetti negativi di un’inflazione che si allontani da una sostanziale condizione di stabilità dei prezzi. Sappiamo che questa è la prima preoccupazione delle banche centrali. E il motivo è che l’inflazione danneggia l’attività economica nel suo complesso, riducendo l’efficacia dei segnali di prezzo, aumentando l’incertezza e facendo lievitare il peso delle tasse.

L’orizzonte temporale: breve periodo o lungo periodo?

Nel corso del ciclo è indubbio che l’inflazione, e le azioni che le banche centrali mettono in campo per tenerla sotto controllo, finiscono per avere ricadute importanti sull’andamento di tutta l’attività economica, e quindi anche dei profitti societari.

Per lo speculatore che operi all’interno di un tale orizzonte temporale, e che sia ossessionato dai profitti del prossimo trimestre o del prossimo anno, si può capire che l’inflazione e i tassi diventino variabili in base a cui “valutare” le azioni.

Ma l’investitore accorto dovrebbe tenere lo sguardo proiettato nel lungo periodo. Le azioni, a differenza dei bond, sono strumenti con una durata finanziaria di svariati decenni (all’atto pratico, quando si consideri l’intero mercato, la duration si può considerare illimitata).

Una variabile reale, come i profitti, proiettata per una durata praticamente illimitata gode di una proprietà che in macroeconomia si chiama “neutralità monetaria”: è indifferente alle variabili monetarie come l’inflazione.

Alla fin fine, nella contraddizione tra Smithers & Wright da una parte e Easterling dall’altra mi sembra si sia aperto uno squarcio di luce: i primi operano concettualmente nel lungo periodo, il secondo nel breve.

Si tratterebbe ora di capire fino a dove si spinga il breve e dove cominci il lungo. E di capire ancora dove mi voglia e possa coerentemente collocare io.

Un elemento da considerare del libro di Easterling è che l’autore individua nel tasso d’inflazione il driver dell’evoluzione dei P/E per cicli di mercato che si spingono anche fino a 24 anni (nel caso del bull market del 1942-1965), mentre la durata media dei quattro bull market dello scorso secolo si ferma a 13,5 anni e quella dei bear market a 11,3 anni.

Anche per l’investitore proiettato nel lungo periodo, si tratta di cicli estesi con protratte deviazioni dal fair value, che in base alla rigorosa analisi fondamentale di Smithers e Wright andrebbero giudicate come irrazionali e, in ultima istanza, irrilevanti.

Ma se le cose stanno così (anche se devo aggiungere che l’analisi delle cause dei “cicli secolari” del mercato azionario, con la riduzione al fattore unico dell’inflazione, è una delle parti meno argomentate e convincenti del libro di Easterling) ci sarebbe, per l’investitore attento al valore, di che dubitare dell’efficacia dei soli strumenti di analisi razionale.

Cercherò nei prossimi giorni di scrivere della q di Tobin come strumento proposto da Smithers e Wright per l’individuazione del valore e delle strategie di investimento che da essa ricavano.

Ma per ora chiudo con un atto di pensosa – ma anche divertita – contemplazione dei limiti dell’indagine razionale, ricordando una famosa frase di John Maynard Keynes: “Non c’è nulla di così pericoloso come il perseguimento di una politica d’investimento razionale in un mondo irrazionale.”

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