Cicli di mercato e rendimenti
Uno degli autori che ha popolarizzato con maggior successo la bontà dell’investimento azionario di lungo periodo è Jeremy Siegel (nella foto), noto docente della Wharton School dell’Università di Pennsylvania. Il suo Stocks for the long run (tradotto in italiano con il più oscuro titolo di Rendimenti finanziari e strategie d’investimento) è un libro che non dovrebbe mancare nella biblioteca di ogni investitore.
La tesi di fondo è che non c’è scelta migliore di un portafoglio centrato sulle azioni, ben diversificato in fondi a basso costo, ETF o fondi indicizzati, e gestito in un’ottica di lungo periodo – indifferente cioè alle fluttuazioni ed emozioni del momento, causa degli errori che in modo più sistematico gli investitori finiscono per commettere.
Per chi è “eccitato dall’idea di riuscire a battere il mercato” Siegel suggerisce alcune strategie che sono servite in passato ad aumentare i rendimenti o quanto meno a ridurre la volatilità dei portafogli. Ma l’assunto di fondo, valido per tutti, è che “è sufficiente attenersi a una strategia di tipo buy and hold” (e cioè passiva).
Rendimenti azionari e obbligazionari
I dati alla base di queste conclusioni sono presentati in apertura di libro, e sono di un’evidenza palmare. I rendimenti reali (al netto dell’inflazione) delle azioni sono stati nel tempo molto costanti, e di gran lunga superiori a quelli di ogni altra classe d’investimento.
Dal 1802 al 1870? Il 7,0% composto annuo. Dal 1871 al 1925? Il 6,6%. Dal 1926 al 2001? Il 6,9%. E se consideriamo solo il periodo post-bellico, dal 1946 al 2001? Il 7,1%.
Insomma, per l’investitore che tiene lo sguardo fisso sul lunghissimo periodo guerre, crisi, crolli e boom, cambi di secolo e rivoluzioni tecnologiche finiscono per contare ben poco. Il collasso di un’azienda o anche di un sistema economico diventa opportunità per altri, e occasione di un nuovo inizio. L’enorme volatilità di breve periodo si trasforma in costante, rassicurante crescita.
Le azioni sono dunque rischiose? Solo per chi è miope.
Per capirlo basta confrontare quel 7% di crescita reale annua nell’arco dei due secoli di vita dei mercati dei capitali con l’accidentato e modesto percorso tracciato dai titoli di stato a lungo termine. Il rendimento reale è stato in questo caso del 4,8% nel 1802-1870, del 3,7% nel 1871-1925, del 2,2% nel 1926-2001 e solo dell’1,3% nel periodo post-bellico, dal 1946 al 2001.
Quelli dei bond sono rendimenti non solo molto più bassi, ma anche più volatili delle azioni.
Come osserva Siegel, “nel lungo periodo il rischio dell’investimento in titoli a reddito fisso di fatto supera il rischio connesso all’investimento in azioni.” E lo stesso si può dire del cash, delle obbligazioni a breve termine, degli investimenti immobiliari o delle materie prime.
Nel lungo periodo non c’è nulla di più redditizio e sicuro di un investimento ben diversificato in azioni.
Meriti e limiti dell’investimento passivo
Perché allora non accontentarsi del buy and hold? Perché, come ho accennato nel mio post Value investing o investimento passivo?, lambiccarsi con l’analisi del ciclo e gravarsi di costi per dispiegare strategie di hedging, se anche i ribassi più drammatici, nel lungo periodo, diventano degli insignificanti incidenti di percorso?
Diciamo subito che io non credo all’utilità di quelle forme di tactical asset allocation o di market timing che vengono utilizzate, in modo studiato, dagli investitori professionali, e in modi quasi sempre improvvisati dai piccoli risparmiatori per cercare di approfittare delle oscillazioni di mercato di breve periodo.
Scelte frequenti di investimento e disinvestimento fanno esplodere i costi, e la definizione del timing è troppo aleatoria per produrre i risultati sperati: alla fine, il buy and hold si dimostra più redditizio, comodo e sicuro.
Ma una strategia attiva di protezione dal rischio azionario diventa percorribile, anche per il piccolo ma accorto investitore, se si fissa lo sguardo sui cicli lunghi del mercato e dell’economia.
Lo stesso Siegel, nel libro citato, dove parla di “strategie per aumentare i rendimenti”, fa riferimento in particolare a due semplici ma efficaci ricette:
1) Andare controcorrente rispetto al sentiment nelle sue manifestazioni estreme, aumentando l’esposizione al mercato azionario quando la maggior parte degli investitori è pessimista, e riducendola quando tutti sono ottimisti;
2) Seguire l’offerta di moneta, sovrappesando le azioni quando le banche centrali (Federal Reserve in testa) abbassano i tassi a breve per dare ossigeno a un’economia in crisi, sottopesandole invece quando le minacce d’inflazione, generate da un’economia le cui risorse sono pienamente utilizzate, spingono le banche centrali verso politiche monetarie restrittive.
Si tratta di due consigli che, nel 2000, avrebbero potuto evitare il naufragio di molti investitori.
Ma i motivi per non accontentarsi delle gestioni passive non sono circoscritti alla ricerca di rendimenti superiori. Anzi, fondamentalmente, hanno per me a che fare con ragioni diverse, di tipo assicurativo.
E’ un approccio, questo, che ho maturato leggendo in particolare un libro, originale e persuasivo: Unexpected returns – understanding secular stock market cycles, di Ed Easterling, presidente di Crestmont Holdings, una società di consulenza e investimenti, e docente alla Southern Methodist University di Dallas.
Nel libro, Easterling analizza i rendimenti del mercato azionario americano dall’inizio del secolo scorso, anno per anno e aggregati per periodi via via più lunghi, mettendoli in relazione a tassi d’inflazione e valutazioni medie (espresse in termini di P/E, o rapporto prezzo/utili). Ne ricava una matrice piena di rivelazioni interessanti.
Cicli di mercato, P/E e inflazione
1) La volatilità dei mercati azionari è davvero elevata, più di quanto la gran parte degli investitori riesca a immaginare. Solo nel lunghissimo periodo – 60-70 anni – i rendimenti medi tendono ad appiattirsi verso quel 6%-7% reale già individuato da Siegel.
Ma per periodi più brevi – ad esempio un ventennio, tipico arco temporale di riferimento di molti investitori, che iniziano ad accumulare risparmio oltre la soglia dei 40 anni per cominciare ad attingerne all’ingresso in pensione – le fluttuazioni restano formidabili: si passa da ventenni, come il 1930-1950, in cui i rendimenti composti medi reali sono stati negativi, a ventenni, come il 1980-2000, in cui i rendimenti hanno toccato il 14% annuo.
2) Il fattore discriminante sono le valutazioni di partenza. P/E iniziali molto bassi (sotto il 10) producono rendimenti medi elevati. P/E iniziali alti (oltre il 20) portano a rendimenti medi deludenti.
3) I P/E tendono a oscillare attorno a una media di 14-15, ma si spingono periodicamente oltre il valore di 20 per poi scendere sotto a 10 (il picco di 42-43 toccato nel 1999-2000 è una aberrazione senza precedenti).
Sulla base del trend seguito dai multipli di mercato, si possono individuare nel secolo scorso 8 fasi complete, 4 ascendenti e 4 discendenti. Un nuovo ciclo discendente, tuttora in corso, e lontano dal chiudersi – visto che le valutazioni restano prossime ai valori massimi del passato – è iniziato nel 2000. Si tratta dei bull market e bear market secolari, secondo la definizione di Easterling.
4) Da cosa dipende l’oscillazione periodica dei P/E? Per Easterling il fattore determinante è l’inflazione.
Quando è bassa e stabile, i bassi tassi d’interesse che l’accompagnano e l’ottimismo degli investitori che ne deriva tendono a spingere verso l’alto le valutazioni del mercato, fino a generare le bolle del 1900, 1929, 1965, 2000.
Ma quando intervengono fattori di lunga durata che fanno deviare l’andamento dei prezzi o verso la deflazione o verso una maggiore inflazione, i P/E cominciano a contrarsi tracciando una snervante parabola che può durare anche decenni, come dal 1901 (P/E di 22,7) al 1920 (P/E di 5,3) o dal 1965 (P/E di 23,3) al 1982 (P/E di 7,3).
Investimento passivo e bear market secolari
Le conclusioni dell’analisi di Easterling, supportate da un meticoloso esame dei dati, sono poco confortanti per chi, come me, ha iniziato – sulla soglia dei 40 anni – a prendersi cura dei propri risparmi in prossimità del 2000. Ci aspettano lunghi anni, forse decenni, in cui i rendimenti medi, per chi si affida al buy and hold, saranno deludenti.
Nonostante la retorica di chi fa marketing più che consulenza, o di chi semplicemente preferisce non guardare in faccia la realtà, le Borse globali restano riccamente valutate: priced to perfection, prezzate per la perfezione, come si dice nel gergo anglofilo dei mercati.
E alcuni dei fattori che minacciano di squassare quella stabilità dei prezzi faticosamente conquistata negli ultimi anni un po’ in tutto il pianeta si stagliano già nitidi davanti a noi: bolla del mercato immobiliare (negli Usa come in molti altri paesi), bolla del credito (globale), squilibri delle bilance commerciali (Usa-Cina in primis), pressioni sulle materie prime energetiche, industriali, agricole.
Come dice Easterling, l’investimento passivo va benissimo per i bull market secolari. Ma noi, nonostante le rassicuranti apparenze degli ultimi 4 anni, siamo in pieno bear market secolare.
Per spuntare rendimenti accettabili in un orizzonte ventennale dovremo imparare a “remare”, e cioè ad assicurarci contro il rischio e a lottare attivamente contro le avversità di mercato.
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