l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

Blogger in contraddizione

Me ne rendo conto: in questo blog cominciano ad affiorare delle contraddizioni. E, in una certa misura, la cosa mi rallegra. Sin dall’inizio ho pensato che scrivere sarebbe servito a dare maggiore chiarezza alle esperienze e alle letture fatte nel campo degli investimenti. E per chiarire, prima di tutto bisogna portare alla luce le aporie, le contraddizioni.

Diceva Karl Popper  (nella foto) che “Il nostro interesse principale in scienza e in filosofia è, o dovrebbe essere, la ricerca della verità, mediante audaci congetture, e la ricerca critica di ciò che è falso nelle nostre varie teorie rivali.”

Io non sono nè scienziato nè filosofo, ma mi rendo conto che l’attività conoscitiva comincia con la scoperta di problemi. E così, mentre ieri finivo di scrivere i miei post sul fantomatico Fed Model, mi ha fatto piacere rendermi conto che proprio un problema mi si era appena parato davanti.

Stavo citando Valuing Wall Street, il libro di Andrew Smithers e Stephen Wright, e la loro conclusione che non c’è relazione tra rendimenti obbligazionari e rendimenti azionari per il semplice motivo che i primi sono condizionati dall’inflazione e i secondi no. Ovvero, le azioni sono indifferenti all’inflazione e per questo non ha senso valutarle in relazione ai bond (come fa il Fed Model).

E’ una conclusione che avevo fatto mia. Ma mentre la riportavo mi sono reso conto che cozzava con alcune tesi di un altro libro che apprezzo e che ho già citato su questo blog, e cioè Unexpected returns di Ed Easterling.

Valutazioni azionarie e inflazione

Nel post Cicli di mercato e rendimenti del 27 aprile scorso ho riassunto alcune delle conclusioni di Easterling, tra cui quella che i bear market e bull market secolari susseguitisi nella storia dei mercati azionari (otto nell’ultimo secolo) sarebbero causati dalle fluttuazioni del tasso d’inflazione.

Dunque, la difficoltà è di nuovo quella che pensavo di aver risolto verso la fine del post Il fantomatico Fed Model II, e cioè il ruolo giocato o non giocato dall’inflazione nei mercati azionari.

Proprio mentre schieravo due dei miei autori preferiti (Smithers e Wright) contro le debolezze dei sostenitori del Fed Model, è saltato fuori un conflitto con un altro autore (Easterling) alle cui tesi fino ad oggi avevo dato credito (anche su questo blog).

Come uscirne? Beh, in primo luogo verificando i termini esatti della questione. Sono così andato a controllare.

Questa è la citazione dal libro di Smithers e Wright (pp. 245-247):

“Dal punto di vista statistico, valutare le azioni in rapporto ai rendimenti obbligazionari o all’inflazione è un caso esemplare di selezione dei dati al fine di sostenere una tesi preconcetta, anziché usare i dati oggettivamente nel tentativo di scoprire la verità. […] Quando si utilizzano tutte le informazioni disponibili risulta chiaro che tra bond yield e dividend yield o multipli P/E non c’è in sostanza nessuna correlazione. Le previsioni teoriche sono dunque confermate dalla realtà.”

Cosa sostiene invece Easterling? Dopo aver individuato, nel corso del ventesimo secolo, quattro fasi caratterizzate da multipli P/E in espansione (bull market) e quattro fasi caratterizzate da P/E in contrazione (bear market), Easterling scrive (p.84):

“I periodi con P/E in aumento corrispondono a periodi in cui l’inflazione si muove verso una condizione di stabilità dei prezzi. I periodi con P/E in calo corrispondono a periodi in cui l’inflazione si scosta da una condizione di stabilità o verso un’inflazione maggiore o verso una maggiore deflazione.”

E’ quello che chiama “effetto curva Y”, perché incrociando i dati sui P/E di mercato con i tassi d’inflazione, Easterling ne ricava una rappresentazione a forma di Y.

A un’inflazione attorno al 2% corrispondono fasi di mercato come la seconda metà degli anni ’20, la prima metà degli anni ’60 o la seconda metà degli anni ’90, in cui il mercato si è spinto verso multipli P/E tra 20 e 40 (la gamba della Y). A un’inflazione al galoppo verso il 5%-10%-15% o in picchiata verso tassi negativi (deflazione) corrispondono fasi di mercato come gli anni ’30 o gli anni ’70, in cui i P/E sono crollati sotto il 10 (le due braccia della Y).

Che spiegazione dà Easterling dell’ “effetto curva Y”? A p. 135 scrive:

“Quando l’inflazione aumenta, il ritorno che gli investitori esigono dalle azioni aumenta, perché vogliono essere compensati per la maggiore inflazione. Di conseguenza, i prezzi azionari scendono a livelli dove possono assicurare ritorni futuri superiori. Quando l’inflazione diventa invece deflazione, il risultato è un calo degli utili futuri. E se l’attesa degli investitori è che gli utili in futuro scenderanno, anche i prezzi correnti caleranno.”

Broker economics e illusione monetaria

L’idea che gli investitori in azioni debbano essere compensati per la maggiore inflazione, come se le azioni fossero in tutto e per tutto uguali alle obbligazioni, è quanto abbiamo già visto definire da Smithers e Wright (nel mio post precedente) come l'”enorme sciocchezza” della “broker economics.” Si tratta della stessa “sciocchezza” che sembrano dimostrare tutti coloro che sono accecati da forme di illusione monetaria.

Mi fermo qui un attimo, per raccogliere e sintetizzare i termini del “problema.”

Mi sembra si possa dire che per Smithers e Wright il rapporto tra inflazione e azioni non deve esistere e infatti non esiste; mentre per Easterling (e la “broker economics”) il rapporto tra inflazione e azioni esiste ed è normale che esista. Siamo agli antipodi, sia nella teoria che nell’interpretazione dei dati.

Sui dati, non so per ora cosa dire. Qualcuno probabilmente si sbaglia e finisce per “dimostrare” più di quanto i dati non dicano. Cercherò di fare verifiche con altre fonti.

Sulla questione teorica, penso che l’investitore accorto, proiettato su un orizzonte di lungo periodo, debba stare dalla parte di Smithers e Wright.

Valutare le azioni come se fossero bond non ha senso, tanto più che esistono studi che confermano empiricamente come le fluttuazioni del livello dei prezzi si trasferiscano prontamente anche ai profitti. Al variare dell’inflazione varia in pari misura il flusso di utili attesi e non c’è dunque motivo perché cambi il valore intrinseco di un titolo azionario.

Utilizzare il Dividend Discount Model come fa la “broker economics” è davvero insensato.

Ci sono due osservazioni che vale forse la pena aggiungere. La prima riguarda l’indiscutibile esistenza di forme di illusione monetaria.

Si tratta di un fattore ininfluente se, come nel caso di Smithers e Wright, l’obiettivo dell’analisi è di identificare un rigoroso modello di valutazione dei mercati azionari nel lungo periodo. Ma probabilmente è un elemento che gli speculatori di breve periodo (a cui si rivolge in larga misura la “broker economics”) non possono ignorare.

E’ come dire che ai primi interessa capire il mercato come dovrebbe essere per poter sfruttare le inefficienze (e cioè le deviazioni dal fair value) del mercato come è, mentre i secondi pensano di poter raggiungere lo stesso obiettivo con la sola conoscenza del mercato come è.

I primi tirano dritto seguendo la loro misura del valore, convinti della sua obiettività e fondatezza, i secondi inseguono il mercato con la speranza di riuscire ad anticiparlo.

L’altra osservazione riguarda gli effetti negativi di un’inflazione che si allontani da una sostanziale condizione di stabilità dei prezzi. Sappiamo che questa è la prima preoccupazione delle banche centrali. E il motivo è che l’inflazione danneggia l’attività economica nel suo complesso, riducendo l’efficacia dei segnali di prezzo, aumentando l’incertezza e facendo lievitare il peso delle tasse.

L’orizzonte temporale: breve periodo o lungo periodo?

Nel corso del ciclo è indubbio che l’inflazione, e le azioni che le banche centrali mettono in campo per tenerla sotto controllo, finiscono per avere ricadute importanti sull’andamento di tutta l’attività economica, e quindi anche dei profitti societari.

Per lo speculatore che operi all’interno di un tale orizzonte temporale, e che sia ossessionato dai profitti del prossimo trimestre o del prossimo anno, si può capire che l’inflazione e i tassi diventino variabili in base a cui “valutare” le azioni.

Ma l’investitore accorto dovrebbe tenere lo sguardo proiettato nel lungo periodo. Le azioni, a differenza dei bond, sono strumenti con una durata finanziaria di svariati decenni (all’atto pratico, quando si consideri l’intero mercato, la duration si può considerare illimitata).

Una variabile reale, come i profitti, proiettata per una durata praticamente illimitata gode di una proprietà che in macroeconomia si chiama “neutralità monetaria”: è indifferente alle variabili monetarie come l’inflazione.

Alla fin fine, nella contraddizione tra Smithers & Wright da una parte e Easterling dall’altra mi sembra si sia aperto uno squarcio di luce: i primi operano concettualmente nel lungo periodo, il secondo nel breve.

Si tratterebbe ora di capire fino a dove si spinga il breve e dove cominci il lungo. E di capire ancora dove mi voglia e possa coerentemente collocare io.

Un elemento da considerare del libro di Easterling è che l’autore individua nel tasso d’inflazione il driver dell’evoluzione dei P/E per cicli di mercato che si spingono anche fino a 24 anni (nel caso del bull market del 1942-1965), mentre la durata media dei quattro bull market dello scorso secolo si ferma a 13,5 anni e quella dei bear market a 11,3 anni.

Anche per l’investitore proiettato nel lungo periodo, si tratta di cicli estesi con protratte deviazioni dal fair value, che in base alla rigorosa analisi fondamentale di Smithers e Wright andrebbero giudicate come irrazionali e, in ultima istanza, irrilevanti.

Ma se le cose stanno così (anche se devo aggiungere che l’analisi delle cause dei “cicli secolari” del mercato azionario, con la riduzione al fattore unico dell’inflazione, è una delle parti meno argomentate e convincenti del libro di Easterling) ci sarebbe, per l’investitore attento al valore, di che dubitare dell’efficacia dei soli strumenti di analisi razionale.

Cercherò nei prossimi giorni di scrivere della q di Tobin come strumento proposto da Smithers e Wright per l’individuazione del valore e delle strategie di investimento che da essa ricavano.

Ma per ora chiudo con un atto di pensosa – ma anche divertita – contemplazione dei limiti dell’indagine razionale, ricordando una famosa frase di John Maynard Keynes: “Non c’è nulla di così pericoloso come il perseguimento di una politica d’investimento razionale in un mondo irrazionale.”

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