Il fantomatico Fed Model II
Riprendo da dove avevo lasciato in sospeso la prima parte di questo articolo, e cioè con le due domande: il Fed Model funziona? E se funziona, ha senso? I tentativi di dimostrare che il Fed Model è utile nel valutare la convenienza relativa di bond e azioni e nel predire l’andamento del mercato azionario ovviamente non mancano. Hanno però una cosa che tutti li accomuna, e cioè il fatto di limitarsi a considerare i dati degli ultimi 25 anni.
La ragione di solito addotta è che solo dagli anni ’80 sono diventate disponibili le stime di consenso sugli utili operativi “prospettici” (i cosiddetti forward earnings, e cioè quelli attesi nei prossimi 12 mesi), che sono tipicamente usate per compilare il modello.
Si tratta purtroppo di un escamotage. I forward earnings hanno una relazione sufficientemente costante con gli utili storici da far logicamente pensare che utilizzare questi ultimi, anziché i primi, in uno studio statistico di più lungo periodo dovrebbe migliorare l’affidabilità dei risultati, e non certo inficiarla.
E questo perché uno studio di più lunga durata ci protegge dal rischio sommo di ogni analisi statistica, il data mining, ossia la più o meno inconsapevole selezione di quei dati che “dimostrano” a priori una ipotesi (in altre parole, 25 anni sono troppo pochi per capire se la correlazione tra bond yield ed earnings yield, evidenziata nel Fed Model, è casuale o no).
Il Fed Model non funziona
Ma cosa succede se si guarda a ritroso, spingendosi più indietro degli anni ’80? Ce lo racconta graficamente John Hussman, in un’analisi pubblicata su HussmanFunds.com :
Si scopre che: a) la relazione tra earnings yield (linea verde) e Treasury yield (linea viola) non è per nulla costante; b) l’earnings yield da solo consente di fare una previsione molto meno imprecisa dei rendimenti successivi del mercato azionario (linea blu).
L’earnings yield, ovviamente, è l’inverso del P/E. E ciò vuol dire che il buon, vecchio metodo del P/E, per quanto imperfetto, ci offre stime valutative più utili del Fed Model. L’aggiunta, nel Fed Model, del confronto con i bond yield non fa che distruggere l’utilità del P/E.
Ma allora a che si deve la popolarità del Fed Model? L’analisi statistica non ce lo può dire. Ma non si può non ricordare come il metodo del P/E, nelle sue diverse versioni, ci ammonisca ormai da un decennio che i mercati azionari sono sopravvalutati, mentre il Fed Model ci illude del contrario.
Il Fed Model non ha senso
Il grafico di Hussman mostra che il Fed Model, in sostanza, non funziona. Ma resta la necessità di capire se abbia un qualche senso. E’ mai possibile che i tassi d’interesse non influenzino le valutazioni e i rendimenti azionari?
Vorrei affidarmi qui alla magistrale trattazione che di questa questione (così come di altre) fanno Andrew Smithers e Stephen Wright nel loro Valuing Wall Street .
Il Fed Model, osservano Smithers e Wright, è nato non a caso verso la fine del bull market degli anni ’80-’90, quando l’ascesa delle Borse si accompagnò a inflazione e tassi nominali in ribasso. In questo contesto prese piede la “teoria” che un’inflazione in calo fa bene alle azioni.
E perché mai? Perché, sostiene la teoria, un’inflazione più bassa porta a tassi d’interesse più bassi, e tassi d’interesse più bassi aumentano il valore attuale dei flussi di utili (o dividendi) attesi in futuro. Quindi, più bassi tassi giustificano valutazioni più elevate e rendono del tutto plausibili gli alti P/E degli ultimi anni.
Se questo ragionamento sembra corretto è forse perché viene ripetuto ad nauseam in quella che Smithers e Wright chiamano ironicamente “broker economics”. La loro opinione è che si tratti di “supreme nonsense”, una enorme sciocchezza.
Andrebbe intanto notato che un ragionamento esattamente opposto era in voga negli anni ’50-’60, e cioè durante il bull market precedente a quello degli anni ’80-’90. Allora il boom azionario si accompagnò a un’inflazione in ripresa (non in calo!, com’è peraltro evidente nel grafico di Hussman riportato all’inizio di questo post), e la teoria dominante era che l’inflazione faceva bene alle azioni.
Perché? Ma perché l’aumento della dinamica dei prezzi avrebbe gonfiato anche gli utili societari, incrementando i rendimenti attesi delle azioni. E siccome le obbligazioni pagano un flusso di cedole e restituiscono alla scadenza un capitale che sono fissi, l’inflazione avrebbe reso le azioni più attraenti rispetto ai bond.
C’è in effetti di che sorridere: inflazione in calo che fa bene alle azioni, inflazione in aumento che fa bene alle azioni…nell’universo della “broker economics” tutto fa sempre bene alle azioni. Questo è marketing, non è scienza.
Azioni e bond sono diversi
Ma c’è una verità? In effetti, come notano Smithers e Wright, il ragionamento che la “broker economics” di oggi si sforza di applicare alle azioni è il corretto modo di valutare i bond. Se l’inflazione scende, i tassi scendono e i flussi di cassa futuri valgono di più: i prezzi dei bond salgono.
Come però tutti sanno, azioni e obbligazioni sono strumenti finanziari diversi. Se le cedole e il capitale dei bond sono fissi, gli utili (o i dividendi) non lo sono. I primi sono flussi nominali, che vengono intaccati dall’inflazione, i secondi sono flussi reali, indifferenti all’inflazione, perché con essa salgono o scendono.
La verità, per Smithers e Wright, è allora che le azioni (e le valutazioni azionarie) sono fondamentalmente indifferenti all’inflazione. E se si guarda a tutta l’evidenza, sfuggendo alla tentazione del data mining che spinge a selezionare quelle informazioni che permettono di “provare” una tesi preconcetta, si vedrà una cosa soltanto: tra bond yield ed earnings yield (o il suo inverso, il P/E) non c’è alcuna relazione. Il Fed Model confronta “mele e pere” ed è pertanto privo di senso.
Arrivati a questo punto il più è fatto. Il Fed Model non funziona e non ha senso. E l’investitore accorto si dovrebbe guardare bene dall’usarlo o dal farsene condizionare. Ci sono però due argomenti accessori che forse vale la pena affrontare, perché presentano delle insidie.
Fed Model e rendimenti reali
Il primo è il seguente. Se la difficoltà da superare è che i ritorni dei bond sono nominali e quelli delle azioni sono reali, ed è questo che rende bond e azioni non confrontabili, allora basta prendere i rendimenti reali dei bond, e il Fed Model può risorgere dalle ceneri.
Le obiezioni di Smithers e Wright sono di tre tipi:
a) usare i rendimenti reali è un’operazione che, nella pratica, di solito non viene fatta, probabilmente perché, di questi tempi, tende a mostrare che le azioni sono sopravvalutate;
b) il rendimento reale dei bond non può essere il giusto tasso di sconto dei flussi monetari attesi dalle azioni: le azioni sono più rischiose, bisogna aggiungere un premio al rischio;
c) utilizzare i rendimenti reali correnti non può in ogni caso consentire di mettere a punto un valido strumento di valutazione; ci vuole un benchmark esogeno o indipendente per evitare, ad esempio, di valutare un mercato azionario sopravvalutato con il metro di un mercato obbligazionario pure sopravvalutato (come accade oggi).
La conclusione, in risposta a questo primo argomento, è che il corretto tasso di sconto per valutare il mercato azionario, volendo a tutti i costi partire dai bond, può essere soltanto il rendimento reale dei bond nel lungo periodo, cui va aggiunto il premio di rischio azionario di lungo periodo.
La somma, per definizione, dà semplicemente il rendimento azionario di lungo periodo. In altre parole, il giusto tasso di sconto non può essere altro che il costo del capitale azionario, che è uguale, per definizione, all’earnings yield di lungo periodo (il costo del capitale per l’impresa è l’altra faccia del rendimento del capitale per gli investitori).
Da qualsiasi parte si prenda le mosse si arriva insomma a quel 6,75% circa che Smithers e Wright hanno chiamato “costante di Siegel”, perché è stato Jeremy Siegel, in “Stocks for the Long Run” a rendere pubblici i suoi meticolosi studi sui ritorni azionari di lungo periodo, straordinariamente stabili attorno al 6,75% negli ultimi due secoli.
Da quel 6,75% deriva ovviamente anche la pratica indicazione, familiare alla gran parte degli investitori, sul corretto P/E del mercato, stimato attorno a 14,5-15,0: l’uno è il reciproco dell’altro (100/6,75 = 14,8)
La difesa comportamentale del Fed Model
Il secondo argomento insidioso riguarda la presunta “giustezza” degli errori del Fed Model.
Tra i suoi sostenitori c’è chi riconosce che il Fed Model è irrazionale nel paragonare rendimenti nominali dei bond con rendimenti reali delle azioni, o, come abbiamo detto, “mele con pere”. Ma si spinge ad affermare che altrettanto irrazionali sono gli investitori.
Alle prese con scelte di portafoglio tra asset in concorrenza tra loro, come bond e azioni, gli investitori sarebbero vittime di un’”illusione monetaria.”
Si tratta di una difesa più credibile, anche se molto limitata (abbiamo già visto che il Fed Model ha pecche più profonde della semplice confusione tra flussi reali e nominali). In effetti, l’illusione monetaria (money illusion) è un’idea che ha origini nobili e il sostegno di molte prove. Nacque da John Maynard Keynes, fu sviluppata da Irving Fisher (1928), nel campo dei mercati dei capitali trovò ulteriore approfondimento negli studi di Franco Modigliani (1979).
E’ tuttavia curioso che la cosiddetta ipotesi Modigliani-Cohn, che indicava come gli investitori tendessero a scontare i flussi reali delle azioni a un tasso nominale, sia stata concepita in un contesto opposto all’attuale.
Nel 1979, sostenendo che l’alta inflazione prevalente portava a scontare i flussi attesi dalle azioni a tassi troppo elevati, Modigliani e Cohn correttamente argomentarono, contro l’opinione comune, che i mercati azionari erano sottovalutati. Di fatto anticiparono il grande bull market del 1982-2000.
Oggi, nell’uso corrente del Fed Model, si cerca di dimostrare che ai bassi tassi d’interesse prevalenti gli alti multipli del mercato azionario sono giustificabili. L’illusione degli investitori, nel 1979, riguardava i tassi di sconto eccessivi, oggi probabilmente riguarda sia l’eccessiva crescita attesa degli utili (o dei dividendi) sia i tassi di sconto troppo bassi.
L’uso tattico del Fed Model
E’ possibile che le cose stiano così. Ma quale potrà mai essere l’utilità di un modello che è soltanto, per così dire, “lo specchio di un’illusione”? I proponenti di questa interpretazione del Fed Model ne sottolineano la valenza tattica nelle scelte di asset allocation, e ritengono di essere riusciti a provarne le limitate capacità predittive in orizzonti temporali di breve termine (non oltre i 36 mesi).
Posta in questi termini, la questione si riduce a essere di scarsa rilevanza per l’investitore accorto, anche se la pretesa (difficile da provare) della presunta, limitata efficacia del Fed Model come strumento per l’asset allocation tattica dovesse essere fondata.
Gli aggiustamenti del portafoglio per motivi tattici e su orizzonti di breve periodo (in sostanza, i tentativi di “indovinare” se nell’arco dei prossimi mesi andranno meglio le azioni o i bond) dovrebbero essere evitati. Comportano costi elevati e soffrono di un’eccessiva aleatorietà, risultando in un rapporto rischio/rendimento che per il piccolo investitore può solo essere sfavorevole.
Semmai, a livello tattico, un’osservazione più utile viene da John Hussman. Nell’articolo che ho già citato, Hussman riferisce che, secondo le sue ricerche, c’è un impatto che i tassi d’interesse sicuramente hanno sui mercati azionari. E non riguarda i livelli dei tassi di mercato in relazione al fair value delle azioni, come sembra ipotizzare il Fed Model, ma il trend dei tassi (a prescindere dal loro livello) in situazioni di pronunciata sopra- o sottovalutazione delle Borse.
Ciò che Hussman dice di aver verificato è, cioè, che quando il mercato azionario è molto sopravvalutato, un trend rialzista dei tassi d’interesse diventa un potente innesco di processi di “rapida” regressione verso valutazioni più normali, e viceversa, quando il mercato azionario è molto sottovalutato, un trend ribassista dei tassi è un fattore che tende a risollevare speditamente le Borse dal loro stato depresso.
Conclusione: il vero e l’accettabile
In conclusione, il Fed Model non ci dice nulla sul valore fondamentale delle azioni, e, di conseguenza, non ha nulla da dirci sui rendimenti attesi delle azioni nel medio-lungo periodo (l’orizzonte di riferimento dell’investitore accorto).
Come strumento tattico, il Fed Model è uno “specchio di illusioni” di dubbia utilità per chi naviga alla giornata, e di nessuna utilità per chi, come l’investitore accorto, studia il ciclo solo per cercare di individuare i grandi punti di svolta.
A tal fine, il passo essenziale è dotarsi di strumenti di valutazione affidabili, che consentano di determinare quando le azioni si allontanano dal loro fair value. Solo a questo punto, la tattica può avere un ruolo. E l’andamento dei tassi, così come le illusioni monetarie degli investitori, possono diventare un fattore da considerare.
Introducendo il concetto di “conventional wisdom” (saggezza convenzionale), John Kenneth Galbraith (nella foto in alto), nel suo classico La società opulenta, scriveva che nell’analisi dei complessi fenomeni sociali ed economici il “vero” e il “semplicemente accettabile” sono in continua competizione. Alla lunga è il “vero” che si afferma ma nel breve è spesso l’accettabile ad averla vinta. E questo perché, in larga misura, noi tendiamo ad “associare la verità con la convenienza.”
Ed è questo quel che oggi possiamo dire del Fed Model: un’idea semplice e conveniente, divenuta pertanto accettabile. Ma non vera.
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