l'Investitore Accorto

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Nouriel Roubini e la recessione americana

Nouriel Roubini, l’economista della New York University noto come Dr. Doom (Dottor Rovina) per aver anticipato le disastrose conseguenze della crisi dei mutui subprime che i più avevano sottovalutato, continua a far molto parlare di sé. Tant’è che anche i lettori di questo blog chiedono di sapere cosa io pensi di lui e delle sue tuttora sconfortanti previsioni.

Una discussione, avviata da Paolo, si è accesa ad esempio nei commenti al mio ultimo post, Pessimismo e contrarian investing. E’ tempo, forse, che dica la mia. Continua a leggere…

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La recessione del 2009: uno sguardo al consenso

Come disse il fisico Niels Bohr, “le predizioni sono molto difficili, specialmente per il futuro.” Questa massima si applica anche ai mercati finanziari. E ripetutamente, nel mio blog, ne ho portato le prove, mostrando come anche i migliori analisti siano spesso spiazzati dall’imprevedibile evolvere degli eventi. Ciò non vuol dire, d’altra parte, che ci si debba sforzare d’ignorare le opinioni di consenso. Conoscerle è utile. Non però al fine di farvi dipendere una strategia d’investimento ma, più semplicemente, per sapere quali aspettative già siano scontate nei prezzi di mercato.

Al centro delle preoccupazioni degli investitori c’è, in questa fase, la recessione che si è abbattuta su tutte le economie avanzate. Gli sguardi sono puntati sugli Usa, cuore della crisi e, al tempo stesso, dei mercati finanziari globali. Vediamo allora come si prevede che evolva la congiuntura americana.

Un ottimo sommario è stato pubblicato un paio di giorni fa dal blog Econbrowser, da cui riprendo i due grafici che seguono. Le previsioni incorporate sono tratte dall’ultimo sondaggio mensile del Wall Street Journal, condotto nella prima metà di novembre tra 55 dei più noti economisti americani.

Il primo grafico mostra l’andamento del PIL americano (linea blu) rispetto alla retta inclinata del tasso di crescita potenziale. Le barre verticali segnalano le recessioni. Le curve in rosso e in verde riflettono le previsioni di consenso pubblicate dal Wall Street Journal a novembre (rosso) e dicembre (verde). Come si vede, gli analisti nell’ultimo mese sono diventati più pessimisti e ora stimano che il PIL statunitense si contragga a un tasso annualizzato del 4,3% nel trimestre in corso, del 2,5% nel primo trimestre del 2009 e dello 0,5% nel secondo trimestre, per tornare poi a crescere moderatamente a un tasso dell’1,3% nel terzo trimestre del 2009 e del 2,0% nel quarto trimestre.

In base a queste previsioni, come si va configurando l’attuale recessione in confronto a quelle del passato? La risposta è ben visibile nel secondo grafico di Econbrowser. Sia per durata che per profondità, il consenso pensa che sarà simile a quelle del 1973-74 e del 1981-82, le due crisi economiche più pesanti del dopoguerra. Naturalmente, c’è chi pensa che le cose andranno anche peggio, come il team di analisti di Deutsche Bank (linea verde), le cui previsioni si trovano nel quartile dei più pessimisti tra quanti sondati dal WSJ.

Una recessione americana lunga 19 mesi, come oggi ci si aspetta, sarebbe un affare molto serio in base agli standard del dopoguerra, un periodo in cui le cicliche fasi di contrazione del Pil sono durate in media 10 mesi. A risalire più indietro nel tempo, si trova però di peggio. Nel 1902, 1910 e 1913 ci furono recessioni che si protrassero per oltre 20 mesi, mentre la crisi del ’29 vide l’economia contrarsi addirittura per 43 mesi di fila, come documenta quest’ultimo grafico, tratto da Bespoke Investment Group. La retta discendente evidenzia come la tendenza, nel tempo, sia stata verso recessioni di più breve durata – a testimonianza, si può presumere, di una migliorata capacità di gestire gli alti e bassi del ciclo sia da parte delle autorità che delle aziende. Una perizia che nell’America dell’era Bush, purtroppo, ha fatto difetto.

Un anno di recessione americana

E così il National Bureau of Economic Research (NBER), l’organismo incaricato di stabilire i punti di svolta del ciclo economico americano, ha finalmente pronunciato il suo verdetto e dichiarato che la recessione in corso è iniziata esattamente un anno fa, a dicembre del 2007. Pochi, a quel tempo, l’avevano capito.

Non l’aveva compreso la Federal Reserve, che, come  già ho raccontato nel post Recessioni, bear market e castelli in aria, un anno fa di questi tempi aveva da poco pubblicato un aggiornamento trimestrale delle sue stime macroeconomiche in cui tagliava la previsione di crescita per il 2008 all’1,8%-2,5% citando il deterioramento dei mercati della casa e del credito come motivi di preoccupazione. Ma in un’audizione di fronte al Congresso, il presidente Ben Bernanke si diceva convinto che la crescita, per quanto rallentata, sarebbe rimasta positiva a cavallo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008. Dopodichè, aggiungeva, “pensiamo che a partire dalla primavera (ndr, 2008), a mano a mano che i problemi creditizi si risolvono e, come speriamo, il mercato della casa comincia a toccare il fondo […] l’economia si riprenderà.”

Fallimenti convenzionali

Neppure gli esperti del settore privato, collettivamente considerati, se la sono cavata meglio. Per valutarne la performance sono andato a spulciare i dati raccolti dal Wall Street Journal nel sondaggio che svolge mensilmente tra oltre una cinquantina dei più noti economisti americani.

A dicembre dello scorso anno la probabilità che veniva mediamente assegnata a uno scenario di recessione era del 38%, in lieve aumento rispetto ai mesi precedenti. Solo 5 economisti su 54 ritenevano che i rischi fossero superiori al 50%: Kathleen Camilli di Camilli Economics, Ram Bhagavatula di Combinatrics Capital, David Rosenberg di Merrill Lynch, Richard Berner & David Greenlaw di Morgan Stanley, Paul Kasriel di Northern Trust.

Le stime cambiarono di poco nei mesi immediatamente successivi e lievitarono verso il 60% solo a marzo, per rimanere poi stabili a quel livello fino alla fine dell’estate. A settembre, gli economisti che calcolavano una probabilità di recessione superiore al 50% erano 27 su 55, all’incirca la metà. Chi si fosse affidato all’Economic Forecasting Survey del Wall Street Journal o a qualsiasi altra opinione di consenso diffusa dai media finanziari sarebbe stato indotto a pensare che la situazione era ancora molto incerta. Sappiamo ora che, in quel momento, la recessione era già in corso da 10 mesi.

La consapevolezza della gravità della situazione economica si è diffusa e radicata presso gli “esperti” solo a ottobre, dopo il fallimento di Lehman Brothers e il collasso delle Borse. Il campione del Wall Street Journal, nel sondaggio di ottobre, stimava una probabilità di recessione dell’89%. Tutti, a quel punto, avevano aperto gli occhi, e non serviva affatto un dottorato di ricerca in economia in un’università dell’Ivy League e magari l’incentivo di uno stipendio a sette cifre per capire che la recessione, come da allora si è cominciato a ripetere ossessivamente, sarebbe stata lunga e profonda.

L’ultimo sondaggio del Wall Street Journal dice che l’economia americana continuerà a contrarsi fino alla metà del 2009 e che una flebile ripresa comincerà a manifestarsi nel secondo semestre. Visti i precedenti, è giusto coltivare un certo scetticismo.

Gli esperti, in genere, non sanno prevedere il futuro. E anche quando hanno delle abilità superiori alla media, queste sono messe spesso sotto scacco da altre, conflittuali esigenze, come quella di compiacere particolari gruppi di interesse o di evitare di distaccarsi troppo dall’opinione comune, finendo per esporsi a rischi indesiderabili. Come disse John Maynard Keynes, col consueto acume, “la saggezza del mondo insegna che è cosa migliore per la reputazione fallire in modo convenzionale, anziché riuscire in modo non convenzionale.”

L’Investitore Accorto e la recessione: in cerca d’illuminazione

E l’Investitore Accorto, in questa complessiva débacle, come se l’è cavata? Io, naturalmente, come spesso ripeto, non sono un analista né un economista. Sono un giornalista, che si sforza di capire e di raccontare la realtà dopo aver sottoposto le analisi altrui a un esame critico e libero da secondi fini. Nella mia scarsa “saggezza del mondo”, l’idea di correre, così facendo, dei rischi reputazionali non mi sfiora. E questo mi ha aiutato. Comunque, non spetta a me fare bilanci. Della qualità del mio lavoro giudichino i lettori. Quello che segue è un breve sunto di come, nell’ultimo anno, ho raccontato la crisi dell’economia americana, che ha poi trascinato con sé il resto del mondo.

A settembre del 2007, nel post L’economia Usa e lo spettro della recessione, tracciavo un quadro ancora in chiaroscuro. Notavo come gli indicatori anticipatori del ciclo lasciavano al momento presagire “un periodo di bassa crescita, ma non il baratro della recessione.” E aggiungevo: “C’è chi pensa che i prezzi medi delle case siano destinati a flettere del 20-30% prima che il mercato tocchi il fondo. La crisi, cioè, è ancora agli inizi. Quello che è già evidente è che il collasso del settore immobiliare è il più grave dalla depressione degli anni ’30. Che questo basti a gettare la poderosa economia Usa nella recessione non è scontato. Per ora le famiglie americane hanno cominciato a stringere i cordoni della borsa ma non al punto da mandare in stallo la crescita.”

Il 21 ottobre del 2007, nel post Mini-crollo a Wall Street e prospettive di Borsa, il tono già si era fatto più allarmato. Davo la parola al bravissimo Paul Kasriel, chief economist di Northern Trust (come abbiamo visto, uno dei 5 su 55 che nel sondaggio di dicembre del Wall Street Journal avrebbero considerato probabile una recessione) e ne sposavo la conclusione che “una recessione negli Usa non può ancora essere data per certa. Ma le probabilità che sia evitata non sono poi così alte come molti pensano.”

Il 22 novembre del 2007, nel post Un bear market azionario è forse alle porte?, osservavo come “i rischi di recessione[…] sono in aumento,” e paventavo l’avvio di un bear market azionario. “Un quadro tecnico e fondamentale in peggioramento, e due enormi bolle – quella della casa e quella del credito – che hanno appena iniziato a sgonfiarsi, mi pare che rendano più credibile, almeno per ora, mettere in conto che le soglie di agosto non reggano a lungo.”

Agli inizi di gennaio, nel post Perché una recessione negli Usa è probabile, tracciavo un quadro ormai cupo della congiuntura e concludevo così: “Se, come appare dunque sempre più probabile, una contrazione dell’economia americana sarà nei prossimi mesi difficile da evitare, quale potrà essere l’impatto sull’Europa? […] E’ facile notare la stretta correlazione tra le economie americana ed europea negli ultimi due cicli, con la funzione di traino (sia nelle fasi ascendenti che in quelle discendenti) che gli Usa hanno storicamente esercitato. La conclusione, insomma, è che se gli Usa sono in procinto di cadere in recessione, la crescita europea potrebbe in pochi mesi squagliarsi come neve al sole.” (ndr, l’economia europea cominciò a contrarsi tre mesi dopo).

A metà gennaio, nel post Ci salverà la Federal Reserve?, citavo Paul Krugman e le sue sconsolate considerazioni sull’impotenza cui il crollo del mercato immobiliare condannava la politica monetaria della Federal Reserve. “E’ mai possibile che la Fed riesca a tagliare i tassi al punto da creare un altro boom immobiliare? […] E se non è possibile, quanto può davvero fare la Fed per aiutare l’economia?” si chiedeva Krugman. E io così osservavo: Può fare poco, sembra. Sia per sostenere i mercati che l’economia. Ma questa è la storia di tutte le bolle. Sono, purtroppo, eccezionali: nell’euforia che generano, e nelle depressioni che lasciano al loro passaggio.”

Di nuovo a metà gennaio, nel post Buffett, Gross e gli schemi di Ponzi delle banche, davo spazio alle amare considerazioni di Warren Buffett e Bill Gross sull’enormità della crisi finanziaria che incombeva. “La conclusione di Gross è che il sistema bancario è miseramente sottocapitalizzato per far fronte al collasso di tutti questi ‘schemi di Ponzi.’ Alcuni istituti salteranno, altri saranno ridimensionati. La forzata contrazione nell’attività di credito (credit crunch) renderà inevitabile una recessione. Il ‘sistema bancario ombra’ scomparirà e chi sopravvivrà – grazie anche agli energici interventi di politica monetaria e fiscale che le autorità metteranno in campo – […] si ritroverà in un sistema finanziario diverso, con nuovi rischi ma, sicuramente, meno effetto leva. […] Dunque, riassumendo, per Buffett il fondo della crisi è ancora lontano e ci vorranno anni per completare il lavoro di pulizia. Per Gross è scoppiata una bolla epocale fatta di speculazioni e schemi piramidali che costringerà a ridisegnare il sistema finanziario americano e globale. Per ogni investitore accorto non può che essere tempo di paziente attesa e grande cautela. Alla fine, per chi avrà saputo aspettare, le opportunità si ripresenteranno.”

A metà febbraio, nel post Recessione, Borse e ottimismo al Sole 24 Ore, polemizzavo con la rubrica “Settimana finanziaria” del Sole 24 Ore, che quella settimana annunciava, nel suo titolo, “Spiragli di ottimismo” sia per la congiuntura che per le Borse. L’autore, Walter Riolfi, dichiarava apertamente il suo “scetticismo” sulla possibilità di un’imminente recessione negli Usa. Faceva appello a una serie di dati macroeconomici diffusi in quei giorni, a suo giudizio “superiori alle attese”, e ai commenti di Ben Bernanke che aveva previsto una congiuntura di bassa crescita nel primo semestre seguita da un “andamento più sostenuto” nella seconda parte dell’anno. La mia critica era piuttosto dettagliata e in gran parte basata sulle analisi di Paul Kasriel, secondo il quale, scrivevo, “gli Usa sono con ogni probabilità già entrati in recessione.” Inoltre, “a differenza che nel 2001, quando furono gli investimenti delle imprese a mettere in ginocchio l’economia, questa volta saranno i consumi delle famiglie a farlo – determinando una crisi di più difficile soluzione.” Chiudevo così: “Spiragli di ottimismo risulta a me difficile vederne. Una recessione negli Usa resta molto probabile ed è forse già iniziata.”

Due giorni dopo tornavo sulla questione nel post Qualche grafico sulla crisi dell’economia Usa. Armato di nuovi e, a mio giudizio, ancor più persuasivi argomenti, scrivevo: “Appare evidente come solo l’export regga ancora. Per il resto, mercato della casa, consumi delle famiglie, servizi e occupazione sono o stanno entrando in una crisi sempre più cupa.”

Ai primi di maggio prendevo di petto, nel post Economia Usa, i rischi di recessione restano alti, l’ottimismo che si era diffuso tra analisti, media e mercati in conseguenza dell’effimera azione di stimolo esercitata dalla manovra fiscale introdotta dall’amministrazione Bush. Scrivevo così: “Sarà per il rally delle Borse, risalite del 15% dai minimi di marzo facendo segnare ad aprile il miglior risultato mensile dal 2003, sarà per un po’ di dati macroeconomici dalle apparenze rassicuranti, ma in queste due ultime settimane si è diffuso un ottimismo sulle prospettive dell’economia americana che mi pare ingiustificato. […] L’economia Usa, nonostante il sostegno che viene dal dollaro debole e da una domanda estera ancora tonica, resta un malato in via di peggioramento. […] Resto dell’avviso che anche i mercati azionari, nelle prossime settimane, esaurito lo spiritato bear market rally dell’ultimo mese e mezzo, torneranno a rammentarcelo.” (ndr, i mercati azionari volsero di nuovo al ribasso a partire dalla settimana seguente)

Pochi giorni dopo, l’11 maggio, nel post Tra bear market e Bear Stearns, dove va la Borsa?, citavo il leading index dell’ECRI (uno dei più prestigiosi centri privati di ricerca economica), secondo il quale le prospettive restavano “recessive”. E davo la parola ai fondatori dell’ECRI, Lakshman Achuthan and Anirvan Banerji: “L’economia sta transitando verso la recessione. Implica che almeno una delle due ultime stime trimestrali sul Pil, che sono state lievemente positive, e forse tutte e due, saranno riviste e corrette in dati di segno negativo entro l’anno prossimo. Oppure, vedremo uno o due trimestri di crescita negativa del Pil nel corso del resto dell’anno.” (ndr, entrambe le predizioni si sono poi avverate). “Mentre l’accertamento definitivo della recessione potrebbe dover attendere almeno un altro anno, resta il fatto che i nostri indicatori anticipatori non sono mai stati così deboli se non nel corso di una recessione.”

A metà maggio, nel post Mercato Usa della casa e prospettive del ciclo, citavo un articolo di Martin Feldstein, allora presidente del NBER, titolato “Ingannevoli statistiche sulla crescita offrono falso conforto”. L’articolo – riassumevo – “mette in evidenza come, dall’inizio dell’anno, l’economia americana ha cominciato a contrarsi un po’ in tutti i settori: è in calo l’occupazione (che ha toccato il suo picco a novembre), sono in diminuzione i redditi, continua a crollare il mercato della casa, scendono le vendite al dettaglio, flette la produzione industriale.” Il dato sul Pil del primo trimestre (+0,6%) andava trattato come una “statistica ingannevole che rischia di indurre un infondato senso di sicurezza, un po’ in tutti ma in particolare tra le autorità politiche e monetarie”. La spirale al ribasso dei prezzi delle case costituiva un gravo rischio per la ricchezza delle famiglie e il capitale delle istituzioni finanziarie. “Potrebbe produrre la recessione più severa e più duratura tra quelle degli ultimi svariati decenni.” Nella seconda parte citavo Kasriel e la sua analisi degli effetti del collasso del mercato immobiliare sulla solidità patrimoniale delle banche. Diceva Kasriel: “Anche se la Fed continuerà a prestare liquidità a basso costo al sistema finanziario, la domanda delle banche per l’offerta della Fed sarà debole dato che si troveranno prive del capitale per sostenere il credito al settore privato.” Per Kasriel erano ormai inevitabili una “grave recessione” nel 2008 e una “stagnazione destinata a protrarsi almeno per tutto il 2009”.

Il 9 giugno, nel post Informazione, rumore e scelte d’investimento, cercavo di portare un po’ di chiarezza su una serie di dati sul mercato del lavoro che erano stati oggetto di contraddittorie interpretazioni e che avevano mandato in fibrillazione le Borse, spingendole prima con forza al rialzo e poi con ancora maggiore prepotenza al ribasso. Concludevo così la mia analisi: “Le statistiche economiche di questa settimana sono non solo compatibili tra loro, ma anche coerenticon la gran parte delle evidenze degli ultimi mesi, provenienti dai più diversi ambiti dell’economia americana. Assieme, compongono un quadro che consente di affermare – per ora in modo probabilistico e senza certezze definitive – che una recessione, negli Usa, è già in corso da qualche mese.”

Il 25 luglio, nel post L’incredibile rally dei titoli finanziari, definivo insostenibile il bear market rally in corso e della congiuntura economica parlavo nei seguenti termini: “L’avvitamento della congiuntura che, in un anno elettorale, le autorità stanno tentando di combattere con tutti i mezzi – tra cui il condizionamento psicologico delle aspettative – avanza inesorabile. Lo dicono molti dati, ma tra i più chiari e affidabili ci sono il Leading Economic Indicator curato dal Conference Board (da noi noto come superindice economico) e il Leading Index dell’ECRI.”

Infine, il 13 agosto, nel post Recessioni, bear market e castelli in aria, ironizzavo un po’ sull’ostinazione con cui i più sembravano voler continuare a negare l’evidenza di una recessione in corso. Molta gente – scrivevo citando Twain“usa le statistiche come un ubriaco i lampioni: più per sostegno che per illuminazione.”

Ora che il NBER ha posto fine alle diatribe sulla possibile recessione del 2008, certificando che c’è, c’è stata e che ha avuto inizio – oibò – nel 2007, il motto di Twain resta, mi pare, la morale migliore di questa storia.

Economia Usa, i rischi di recessione restano alti

Sarà per il rally delle Borse, risalite del 15% dai minimi di marzo facendo segnare ad aprile il miglior risultato mensile dal 2003, sarà per un po’ di dati macroeconomici dalle apparenze rassicuranti, ma in queste due ultime settimane si è diffuso un ottimismo sulle prospettive dell’economia americana che mi pare ingiustificato.

Un segno della ritrovata fiducia ce lo dà il contratto US.recession.08, scambiato sull’information market di Intrade. Si tratta di uno strumento che consente di scommettere sulle probabilità di recessione negli Usa nel corso del 2008.

Come mostra il grafico che segue, negli ultimi 15 giorni – per l’esattezza a partire dal 24 aprile – il contratto è sceso bruscamente sotto la soglia del 55%, che aveva segnato il limite inferiore di una forchetta compresa tra il 55% e il 75% entro cui le aspettative degli scommettitori erano andate stabilizzandosi dall’inizio dell’anno. Continua a leggere…

Perché una recessione negli Usa è probabile

Per i mercati azionari le festività natalizie sono state portatrici più che altro di cattive notizie. Chi aspettava il rally di fine anno ha dovuto invece fare i conti con indici che sono tornati a testare i minimi di agosto e di novembre, sulla spinta di paure crescenti che una recessione negli Usa sia ormai inevitabile.

Il precario quadro tecnico è ben visibile nel seguente grafico settimanale dell’S&P 500:

E il motivo dominante è sinteticamente illustrato da un altro grafico che riporta le quotazioni del contratto USrecession.08, scambiato sul mercato predittivo di Intrade (di cui ho già scritto nel post Mercati predittivi e recessione negli Usa):

Il contratto esprime le probabilità assegnate dagli scommettitori al verificarsi di una recessione negli Usa nel 2008. Come risulta chiaro, tali probabilità si sono impennate da livelli poco inferiori al 50%, prevalenti tra novembre e dicembre, fino all’attuale 64%. Quali sono stati i motivi di una così rapida e drastica revisione delle aspettative?

Quelli facilmente quantificabili sono per lo meno tre, che vado a riportare in ordine cronologico.

Il 21 dicembre è stato pubblicato l’Index of Leading Economic Indicators (LEI) di novembre, in Italia noto come superindice economico. E’ il più affidabile degli indicatori anticipatori del ciclo economico americano.

Come scrivevo nel post Un bear market azionario è forse alle porte?, il LEI, con l’unica eccezione di un falso segnale nel 1966, ha correttamente segnalato, con un trimestre d’anticipo, tutte le recessioni Usa degli ultimi 50 anni.

Qual è dunque stato il suo più recente responso? Ecco il grafico, che traggo dalle analisi di Northern Trust (le fasce grigie indicano i periodi di recessione):

Dopo un flebile rimbalzo nel corso del terzo trimestre, l’indice è tornato a sprofondare con più decisione in terreno negativo.

Come nota Asha Bangalore di Northern Trust, cumulando il -0,5% di novembre con il -0,4% di ottobre si ottiene la più marcata flessione su base annua dal terzo trimestre del 2001, quando l’economia Usa era in recessione. Il messaggio, per Bangalore, è che “i rischi di condizioni economiche di notevole debolezza stanno rapidamente aumentando.”

Il secondo motivo delle aumentate paure di recessione sta nel sondaggio ISM tra i responsabili degli acquisti del settore manifatturiero, diffuso il 2 gennaio e relativo al mese di dicembre. Ecco il grafico dell’ISM manifatturiero, sempre tratto da Northern Trust:

Con la caduta a 47,7 l’indicatore, che è pure tra i più affidabili nell’anticipare l’evoluzione del ciclo Usa, si è portato su livelli che in passato hanno spesso segnalato l’instaurarsi di condizioni recessive.

Cautamente, Bangalore osserva come conferme dovranno essere attese nei prossimi mesi. Ma la possibilità che il dato di dicembre sia un falso segnale appare ridotta.

Tra i componenti dell’indice, due dei più importanti, e cioè produzioneordinativi, hanno evidenziato estrema debolezza, scendendo ai livelli più bassi dall’autunno del 2001, quando l’economia Usa era in recessione, come risulta chiaro da quest’altro grafico:

L’ultimo motivo di allarme, in ordine temporale, è venuto lo scorso venerdì con la pubblicazione delle statistiche sull’occupazione relative a dicembre. Il tasso di disoccupazione si è improvvisamente impennato dal 4,7% al 5,0%, una rapida inversione di rotta che è tipicamente associata all’avvio di una recessione, come evidenzia il grafico seguente:

E con la creazione di appena 18 mila nuovi occupati a dicembre, il tasso annuo di crescita della forza lavoro è sceso allo 0,9% dal picco ciclico del 2,1% del marzo 2006, come illustra quest’altro grafico:

L’aspetto più preoccupante, nota Bangalore, è che l’89% della già esigua crescita della forza lavoro registrata nel 2007 è dovuto a un metodo di destagionalizzazione dei dati che solleva molte perplessità tra gli economisti. E’ insomma probabile che le statistiche ufficiali sovrastimino, in questa fase del ciclo, la salute del mercato del lavoro Usa.

Recessione del mercato della casa, recessione del settore manifatturiero e flessione del mercato del lavoro, se confermate, potranno solo mettere in ginocchio i consumi, tanto più in un contesto in cui la crescente debolezza economica va a colpire i bilanci di famiglie Usa già sin troppo indebitate.

Se, come appare dunque sempre più probabile, una contrazione dell’economia americana sarà nei prossimi mesi difficile da evitare, quale potrà essere l’impatto sull’Europa?

Un’indicazione ci viene dal grafico seguente, tratto dall’ultimo World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale. Illustra il tasso reale annuo di crescita del Pil negli Usa, zona euro e Giappone:

Trascurando i dati nella banda grigia, che rappresentano previsioni per il prossimo anno (notoriamente non molto affidabili), è facile notare la stretta correlazione tra le economie americana ed europea negli ultimi due cicli, con la funzione di traino, nelle fasi ascendenti come in quelle discendenti, che gli Usa hanno storicamente esercitato. La conclusione, insomma, è che se gli Usa sono in procinto di cadere in recessione, la crescita europea potrebbe in pochi mesi squagliarsi come neve al sole.

Il mercato delle idee: Cina, dollaro e inflazione

Tra gli articoli degli ultimi giorni che ho trovato d’interesse ce n’è uno che individua delle analogie tra la situazione di oggi e i contesti in cui maturarono i crash del ’29 e dell”87. Questa volta, nel mirino, ci sarebbero i mercati cinesi. Un’altra analisi osserva tre fasi nel declino del dollaro e conclude che la sua svalutazione è destinata a continuare con ricadute negative sull’inflazione negli Usa.

Ecco i link a queste e ad altre storie.

Bolle e crash, come nel ’29 e nell”87

Interessante post su Alphaville, l’ottimo blog del Financial Times, che riprende un articolo di John Plender in cui si analizzano profonde affinità tra il crash del 1929, quello del 1987 e la situazione attuale.

All’origine delle crisi di mercato del ’29 e dell’’87 ci furono cambiamenti nei rapporti di potere tra un grande paese emergente e il centro del sistema economico internazionale, ossia Usa e Gran Bretagna nel ’29 e Giappone e Usa nell’87. Oggi la situazione sembra ripetersi, a grandi linee, nella relazione tra USA e Cina.

In tutti questi casi il perseguimento di politiche protezionistiche da parte della potenza emergente ha portato a crescenti squilibri nelle bilance dei pagamenti. E la manipolazione dei mercati valutari, tesa a limitare il deprezzamento della valuta dominante (la sterlina nel ’29, il dollaro nell’87 e oggi) ha finito per gonfiare enormi bolle speculative nei mercati della potenza emergente (Usa negli anni ’20, Giappone negli anni ’80, la Cina ai nostri giorni).

L’esito di questi processi è stato un crash catastrofico negli Usa degli anni ’30, con profonde ripercussioni sull’economia globale, e nel Giappone degli anni ’90, con conseguenze però in gran misura limitate a quel paese.

La conclusione dell’analisi di Plender è che un crash dei mercati cinesi appare ora l’esito più probabile degli squilibri attuali. Quali però potranno essere le ripercussioni a livello globale resta da capire.

L’insostenibile leggerezza del dollaro

Il destino del dollaro sembra segnato. Lo scrive sul Wall Street Journal Richard Clarida, professore alla Columbia University, ex sottosegretario al Tesoro e ora consulente strategico globale di Pimco, il primo asset manager obbligazionario al mondo. E le opinioni di Clarida sono riprese e condivise da Barry Ritholtz nel suo blog, The Big Picture.

Il declino del biglietto verde, come documenta il grafico che riproduco qui sotto, ha attraversato dal 2001 tre fasi, scandite dagli orientamenti di politica monetaria della Federal Reserve.

Dal 2001 al 2004, con l’economia Usa in anemica ripresa e la Fed impegnata ad allentare drasticamente la leva dei tassi fino all’1%, il dollaro non ha fatto che deprezzarsi. E’ poi seguito un periodo di consolidamento, dall’estate 2004 all’estate 2006, che ha coinciso con l’irrobustirsi dell’espansione economica e la decisione della Fed di dare il via a una serie di “misurati” rialzi dei tassi.

A partire dall’agosto 2006 il dollaro ha però ripreso a deprezzarsi, via via che si manifestava un rallentamento dell’economia e la Fed si orientava prima verso una “pausa” nella stretta monetaria e poi invertiva rotta dando avvio a un nuovo ciclo di tagli.

Scoppio della bolla immobiliare e crisi creditizia forzeranno la Fed a mantenere espansiva la politica monetaria ancora a lungo. Questo servirà, forse, a evitare o quanto meno a rendere meno severa una recessione.

Ma come nota Ritholtz, riprendendo il detto reso famoso da Milton Friedman, in economia “non ci sono pasti gratuiti.” Il prezzo da pagare sarà un dollaro sempre più debole e, almeno negli Usa, il rischio di indesiderate pressioni sui prezzi.

Le probabilità di una recessione? Al 38%

Nel post Mercati predittivi e recessione negli Usa avevo parlato di uno strumento innovativo per monitorare i rischi di recessione negli Usa, un evento che per i mercati globali resta una delle minacce più incombenti.

Si tratta del contratto US.recession.08, scambiato sul mercato predittivo di Intrade. Il contratto segnala, mentre scrivo, una probabilità del 38% che l’economia americana cada in recessione nel prossimo anno.

Come evidenzia il grafico che riproduco qui sotto, le quotazioni hanno subito sensibili oscillazioni nel corso degli ultimi due mesi, in un ampio range tra il 30% e il 60%. I rischi sono comunque elevati, in un contesto che viene percepito dagli investitori come particolarmente volatile e incerto.

Le società più rispettate al mondo

Come ogni anno, Barron’s ha sondato i money manager americani per stilare una classifica delle società “più rispettate” al mondo.

Al primo posto – e mi fa piacere – c’è Berkshire Hathaway del grande Warren Buffett. Seguono Johnson & Johnson, Toyota Motor, Procter & Gamble, General Electric, Microsoft, Nestlé, Apple, Cisco Systems ed ExxonMobil.

Tra le europee, dopo Nestlé, si segnalano Novartis, Nokia, Roche e Royal Bank of Scotland.

E le italiane? Sottorappresentate, ma non del tutto assenti: nella top 100 riescono a entrare Eni (83esima), Unicredito Italiano (86esima) e Intesa Sanpaolo (92esima). Per tutte e tre si tratta di un passo avanti rispetto al ranking dello scorso anno.

C’è, insomma, anche un’Italia che in quanto a credibilità internazionale riesce a fare progressi. La classifica completa è consultabile su MSN Money.

Il mercato delle idee: mutui, tassi e CDO

Nel mercato delle idee espongo idee altrui che trovo stimolanti. In vetrina, oggi, ci sono John Hussman che giudica sopravvalutati e ipercomprati i mercati azionari, Bill Gross che prevede il diffondersi delle insolvenze sui mutui con la Fed costretta a tagliare i tassi a breve ma gli spread in aumento, e poi Paul Kasriel al quale appare sempre più difficile che sia evitata una recessione negli Usa. Controcorrente resta l’opinione di Ken Fisher, che giudica il pessimismo dei media come uno dei migliori indicatori contrari.

Mercati azionari troppo rischiosi

John Hussman suona l’allarme, e non per la prima volta. Cosa caratterizza il mercato azionario di oggi (o quanto meno, il benchmark per eccellenza, e cioè l’S&P 500)? Il fatto di quotare a un multiplo del picco ciclico degli utili superiore a 18, di essere ai massimi dell’ultimo quadriennio, di trovarsi oltre l’8% sopra la media mobile esponenziale a 52 settimane, in un contesto di rendimenti obbligazionari in ascesa.

Ci sono stati altri momenti, negli ultimi 50 anni, in cui l’S&P 500 ha affrontato un’uguale costellazione di fattori?

Sì, è accaduto altre sette volte e con questi esiti: nel dicembre 1961, quando il mercato perse poi il 28% in 6 mesi; nel gennaio 1973, quando seguì un crollo del 48% in 20 mesi; nell’agosto 1987, quando la caduta fu del 34% in tre mesi; nel luglio 1998, quando l’indice scese del 18% in tre mesi; nel luglio 1999, quando la flessione fu del 12% in tre mesi; nel dicembre 1999, quando il calo fu del 9% in due mesi; e infine nel marzo 2000, quando, come molti ricorderanno, iniziò un bear market che portò l’S&P 500 a dimezzare il suo valore nell’arco di 30 mesi.

Osserva Hussman che a voler rendere il confronto più selettivo, si potrebbe aggiungere un indicatore di sentiment, e cioè il fatto che, al momento, meno del 20% dei consulenti d’investimento sondati da Investors’ Intelligence si dichiara bearish (pessimista). Con questo quinto elemento descrittivo, i precedenti si restringono al gennaio 1973 (-48%) e all’agosto 1987 (-34%).

Hussman mette in chiaro che la sua non è una previsione, ma una semplice constatazione: il mercato di oggi è così sopravvalutato e ipercomprato da offrire una combinazione di rischi e rendimenti attesi estremamente sfavorevole.

Crisi del mattone e contagio

Per qualche settimana il mercato ha temuto che le difficoltà dei due fondi di Bear Stearns, messi in ginocchio da scommesse sbagliate nell’opaco mondo dei CDO, dessero il via a un effetto domino tra altri hedge fund e i broker primari che prestano loro ingenti quantità di denaro. Poi un salvataggio da 3 miliardi di dollari messo rapidamente in atto da Bear Stearns ha calmato gli animi.

Ma Bill Gross si chiede se siano davvero questi i rischi da cui gli investitori si devono guardare. La sua risposta è che il vero contagio è in arrivo da un’altra direzione, e cioè dalla marea di mutui ipotecari, a tasso variabile e (sino a oggi) a condizioni di estremo favore, che in America saranno soggetti a revisione nei prossimi mesi.

Stima Bank of America che si tratta di 500 miliardi di dollari di mutui nel 2007 (con una revisione media al rialzo del tasso applicato stimata in 200 punti base) e di 700 miliardi nel 2008, di cui circa i tre quarti sono subprime, riguardano cioè debitori di bassa qualità.

La catena di eventi che si sta mettendo in moto, per Gross, è chiara: le insolvenze, che tra i mutui subprime sono già al 7% del totale, si moltiplicheranno; e la crisi si diffonderà ben oltre il mercato subprime.

I prezzi delle case scenderanno ancora. La disponibilità di credito diminuirà. Molti investitori in CDO che ora vantano rating di BBB o anche A si ritroveranno in mano dei pezzi di carta senza valore. E gli spread, anche nei mercati apparentemente meno correlati a quello americano, punteranno al rialzo mentre la liquidità eccessiva, di cui oggi tutti parlano, diventerà un ricordo.

E’ possibile che tutto questo prenda le forme di un semplice ritorno alla razionalità piuttosto che di una crisi globale. Ma Gross prevede che in ogni caso, per assicurarsi contro il montare dei rischi, la Federal Reserve comincerà nei prossimi sei mesi a tagliare i tassi a breve.

Esuberanza contenuta

Per Mark Hulbert, analista di lungo corso del sentiment del mercato (è dal 1980 che tiene sott’occhio le raccomandazioni di 160 newsletter finanziarie americane), gli umori non sono ancora quelli tipici di un top delle Borse.

L’ottimismo è tutt’altro che pervasivo, come rivela l’Hulbert Stock Newsletter Sentiment Index (HSNSI), un indicatore che condensa il sentiment di quegli autori di newsletter che praticano strategie di market timing di breve termine. L’HSNSI segnava 40,6% verso la fine della settimana scorsa, rispetto al 62,4% dei massimi di fine febbraio.

L’analisi contraria rivela dunque come manchi quell’“esuberanza irrazionale” che si manifesta tipicamente alla fine di un bull market. Le Borse, per Hulbert, possono ancora salire.

L’incoraggiante pessimismo dei media

Ken Fisher, che nel 2000 diventò bearish e dall’estate del 2002 tornò a essere bullish, resta molto ottimista sulle prospettive dei mercati azionari. E quali sono i motivi, che cita nel suo ultimo articolo per Forbes?

Intanto, il fatto che i media, a larga maggioranza, non hanno mai creduto al bull market iniziato quasi 5 anni fa e continuano a non crederci, ammonendo a ogni passo che gli utili record sono insostenibili e che il mercato, dall’alto dei nuovi massimi di questi giorni, è costoso. Finchè l’ultimo di questi “Orsi” non sarà diventato “Toro”, le Borse, per Fisher, continueranno a salire.

Quanto ai più fondamentali problemi valutativi, Fisher osserva che il mercato è molto meno costoso che nel 2000. I nuovi massimi recenti sono apparenti, dato che non tengono conto dell’inflazione. In termini reali l’S&P dovrebbe toccare quota 1800 prima di stabilire davvero un nuovo record. Inoltre, dal 2000, gli utili sono saliti del 57%. E per quanto i paventati rischi di insostenibilità possano anche essere fondati, non c’è segno che un’inversione del trend sia imminente.

Consumatori alle strette

Paul Kasriel di Northern Trust analizza la brusca decelerazione delle vendite al dettaglio negli Usa. In termini reali, il dato del secondo trimestre potrebbe segnare un calo del 4,9% annualizzato, dopo la crescita del 2,5% del primo trimestre.

Nel complesso, i consumi privati, nel trimestre da poco concluso, faticheranno a raggiungere un tasso di crescita dell’1%-1,5% rispetto all’ancora esuberante +4,2% del primo trimestre. Bisogna essere ciechi per non vedere che il collasso del mercato della casa sta “strangolando” le famiglie americane, sostiene Kasriel.

Né è sensato lasciarsi illudere dai segnali positivi che sono venuti di recente dai sondaggi sulla fiducia dei consumatori. Uno studio della Federal Reserve di Filadelfia ha infatti dimostrato che l’andamento del sentiment non ha alcuna valenza predittiva in relazione ai consumi.

Senza una riduzione dei tassi la recessione sarà difficile da scongiurare. E’ una conclusione a cui Kasriel si aspetta che arrivi anche la Federal Reserve, ma non prima dell’incontro del FOMCdel 31 ottobre, quando saranno diffuse anche le prime stime sul Pil del terzo trimestre. E quando potrebbe essere ormai troppo tardi per evitare il peggio.

Un sistema di disequilibrio instabile

Nouriel Roubini si interroga sulle prospettive del sistema di cambi semi-fissi, ancorati al dollaro, instaurato nell’ultimo decennio da molti paesi emergenti dell’Asia, e in parte responsabile per i crescenti squilibri delle bilance dei pagamenti a livello globale (il cosiddetto Bretton Woods 2, o BW2).

Gli Usa, la prima economia al mondo, ne sono diventati anche il maggiore debitore, con disavanzi che vengono sempre più finanziati dalle banche centrali asiatiche a tassi particolarmente bassi. Nel 2006 il deficit delle partite correnti americano ha toccato gli 811 miliardi di dollari, pari al 6,1% del PIL. E il dato è destinato a crescere nel 2007.

I paesi emergenti dell’Asia hanno tratto vantaggio dall’ancoraggio al dollaro debole perchè i tassi di cambio molto sottovalutati hanno consentito l’accumulo di ingenti riserve valutarie e il perseguimento di aggressive politiche di crescita economica e di industrializzazione basate sull’export.

Ma per Roubini BW2 si sta tramutando da un sistema di “disequilibrio stabile”, come molti l’hanno definito, a uno di pericoloso disequilibrio instabile. Già diversi paesi asiatici lo hanno abbandonato. E altri lo faranno, perchè i suoi limiti, in termini di surriscaldamento economico, rischi d’inflazione e bolle sui mercati finanziari, si stanno facendo sempre più evidenti.

 

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