A tre decenni dalla crisi degli anni ’70, ci troviamo di nuovo a parlare, con quotidiano allarme, delle quotazioni del petrolio. Il superamento della soglia dei 100 dollari a barile ha creato comprensibile ansia. Quando finirà la corsa al rialzo? C’è il rischio che causi una recessione? Potrebbe riaccendere l’inflazione? E se le quotazioni non smettono di salire, vuol forse dire che il petrolio comincia a esaurirsi prima che siamo in grado di sostituirlo con un’altra fonte energetica? Infine, se come consumatori l’alternativa al pagare conti salati è per ora solo quella dell’”austerità”, come investitori c’è ancora spazio per fare profitti, con questo impetuoso bull market del petrolio e delle materie prime in generale?
Per non appesantire il discorso, prenderò in esame queste e altre questioni in una serie di post. Cercherò prima di sgombrare il campo da un paio di problemi introduttivi. Poi analizzerò le cose dal punto di vista economico. Infine, indosserò i panni dell’investitore.
Uno sguardo di lungo periodo
Se ci si vuole chiarire un po’ le idee, conviene fare un passo indietro rispetto alla cronaca concitata dell’attualità e partire da qualche grafico che illustri l’andamento del greggio nel lungo periodo.
Il primo, qui sotto, tratto da Moore Research Center, è un grafico mensile delle quotazioni in dollari del greggio di riferimento americano (il West Texas Intermediate o WTI) negli ultimi 25 anni.

Si vede come per quasi un quindicennio, se si esclude l’improvvisa impennata dell’estate 1990, conseguente all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, il prezzo abbia ristagnato in una forchetta tra 10 e 25 dollari al barile.
Poi, dal 1999, ha preso avvio l’attuale bull market. Prima un po’ in sordina, e poi con sempre maggiore intensità, tanto da far assumere al grafico un caratteristico profilo iperbolico. E’ stata rotta la soglia dei 40 dollari, nel 2004, poi quella dei 75 dollari, lo scorso autunno, e ora – parrebbe – anche quella dei 100 dollari.
Naturalmente, un grafico di lungo periodo può essere d’aiuto a impostare un’analisi se si evitano alcune illusioni ottiche. La prima riguarda l’impatto dell’inflazione.
Come si fa a capire fino a che punto le variazioni nel prezzo del greggio hanno a che fare con fattori propri di quel mercato (primo tra tutti il variare della domanda e dell’offerta) o riflettono invece la dinamica del livello generale dei prezzi? Bisogna depurare i prezzi del petrolio dagli effetti dell’inflazione, ricavandone così le sue quotazioni reali.
E’, ad esempio, quello che ha fatto Paul Krugman in questo grafico apparso qualche giorno fa sul suo blog, The Conscience of a Liberal:

Assumendo come base il prezzo in dollari del febbraio 2008, si nota come il greggio ha avuto, nel dopoguerra, due lunghe fasi di quotazioni basse e relativamente stabili – la prima fino al 1973, la seconda dal 1986 al 1999 – e due fasi di esplosivi rialzi – dalla prima crisi energetica del 1973 fino al picco storico dell’aprile 1980, e a partire dall’inizio di questo decennio fino a oggi.
In termini reali, i prezzi sono ormai tornati ai massimi di 28 anni fa.
Il secondo effetto distorsivo di cui bisogna tenere conto è la valuta. Il petrolio è quotato in dollari. E la moneta Usa, dal 2002, è entrata in un trend ribassista che le ha fatto toccare di recente, nei confronti delle altre principali monete, dei nuovi minimi.
Per capire quanta parte del rialzo delle quotazioni del greggio è conseguenza della debolezza del dollaro bisogna convertire il prezzo in altre valute, a partire dall’euro – la vera moneta forte degli ultimi anni.
E’ quanto ha fatto, ad esempio, la Federal Reserve di Dallas nella sua analisi del mercato dell’energia del trimestre scorso.

Fissando uguale a 100 il prezzo del barile di WTI nel gennaio 2002, il grafico mostra come da allora fino al terzo trimestre del 2007 la quotazione in dollari sia più che quadruplicata, mentre quella in euro è aumentata, più o meno, di due volte e mezza.
In una certa misura, l’apprezzamento del greggio è dunque un riflesso del deprezzamento del dollaro. Ma sotto c’è ben altro, perché il rally dell’oro nero risulta confermato anche se le sue quotazioni vengono espresse, anziché in dollari, in una valuta “forte”.
Cause del rally e prospettive
Nel prossimo post prenderò in esame alcune delle cause più evidenti della continua corsa del petrolio, che sono in parte di mercato (speculative), in parte geopolitiche, in parte legate a squilibri per lo più di breve periodo (l’andamento delle scorte), ma in ultima istanza fondate sulle tensioni di medio-lungo periodo generate da una domanda in crescita cui non è corrisposto, negli ultimi anni, un pari aumento della capacità produttiva (come già scrivevo a ottobre nel post Perché il prezzo del petrolio sale?).
Finirò per chiedermi se i problemi dal lato dell’offerta siano il frutto di un lungo periodo di inadeguati investimenti, o di una mutata strategia da parte dei paesi produttori, o costituiscano invece un più lugubre segnale d’allarme sul fatto che l’età del petrolio inizia a volgere al termine prima che l’umanità abbia trovato delle valide alternative energetiche.
Vedremo quali indicazioni se ne possono trarre per il futuro a medio termine. Da qui passerò poi a trattare le prospettive del mercato del petrolio e delle materie prime più in generale dal punto di vista dell’investitore.
Due caratteristiche, in particolare, dovrebbero risultare di notevole interesse:
a) le materie prime tendono a performare bene quando i mercati azionari vanno male e le economie entrano in recessione (sono dunque un asset che consente di migliorare il grado di diversificazione dei portafogli);
b) le materie prime tendono a seguire andamenti strettamente correlati tra loro e a tracciare cicli molto lunghi: nell’ultimo secolo ci sono stati altri tre bull market (1906-1923, 1933-1953, 1968-1982), la cui durata media è stata di 17 anni.
Se il passato si ripeterà (un se su cui è sempre raccomandabile nutrire dubbi), l’attuale bull market potrebbe insomma essere appena a metà del suo corso.
Al prossimo post, dunque.
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