l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

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Classifiche dei fondi: come evitare le trappole

Lunedì scorso la sezione Patrimoni&Finanza del CorrierEconomia, il supplemento settimanale del Corriere della Sera, si apriva con un articolo a tutta pagina che discorreva, in avvio di semestre, di cosa potrà fare la Borsa da qui a fine anno. Giusto per andare sul sicuro, le autrici del pezzo, Giuditta Marvelli e Francesca Monti (che non conosco e che sono istintivamente portato a ritenere brave e in ottima buona fede) si erano premurate di stilare una classifica dei “magnifici 20”, e cioè dei fondi azionari italiani “più brillanti e costanti negli ultimi 5 anni”.

A cinque manager tra i venti “campioni” avevano poi fatto sette domande: cosa farà il mercato, quale sarà il titolo migliore, quale sarà il settore migliore, etc. etc. L’articolo era un resoconto delle risposte.

In sé, questo tipo di prodotto giornalistico è molto comune nell’informazione finanziaria, e non solo in Italia. Si fanno delle classifiche di performance. Si individuano gli “esperti” che sembrano più bravi degli altri. E si chiede loro di dare indicazioni semplici e puntuali (preferibilmente numeriche, in modo che la loro “attendibilità” risulti più persuasiva).

I lettori, ahimé, sono di solito attratti da questi servizi come le mosche dal miele (mi piacerebbe essere più generoso nei loro confronti: sono i veri datori di lavoro di ogni giornalista. Ma sento il dovere di dire che purtroppo, come vedremo, la metafora di Esopo è in questa circostanza la più accurata).

Se la pagina del CorrierEconomia ha catturato la mia attenzione è stato dunque non per l’originalità o la bontà dell’idea ma per due altri motivi.

In primo luogo, spiccava la cura non comune nel compilare la classifica, che era ponderata in base alle performance a sei mesi, a un anno, a tre anni e a cinque anni (il “lungo periodo”, secondo l’articolo). Da ciò derivava l’ambizione dichiarata di mettere in evidenza i fondi non solo “più brillanti” ma anche “più costanti”.

E poi mi ha colpito il ventaglio molto ristretto delle previsioni dei cinque “campioni” prescelti, schierati “a testuggine”, come un sol uomo.

Il guadagno atteso a fine anno per il Mibtel veniva posto a +3% da Giordano Beani di BNL azioni Italia Pmi, a +7% da Alessandro Pacchiani di Oyster italian value, a +6% da Fausto Artoni di Azimut trend Italia, a +8% da Luca Mori di Capitalia small cap Italy e a +7% da Francesco Agnès di Fondersel Pmi.

Che valore informativo può avere tutto questo? In estrema sintesi, dovendo scegliere una sola parola, direi: nullo. Ma per chi abbia il piacere di analizzare un po’ le cose, le lezioni da trarre sono diverse e, forse, sorprendenti.

Vediamole, ordinate in tre parti: il valore delle previsioni, il valore delle classifiche, il valore del consenso.

Il valore delle previsioni

Ricordo bene che la prima volta che mi misi a riflettere davvero sul valore delle previsioni degli esperti fu nel 2001, quando incappai in un monumentale studio della banca centrale svedese, la Riksbank, intitolato How good is the forecasting performance of major institutions?
Lo studio analizzava 52 mila previsioni a un anno (dunque a breve termine) di 250 importanti istituzioni, relative a Pil e inflazione in 6 paesi nell’arco di un decennio (1991-2000). In breve, i risultati erano i seguenti:

a) Le previsioni erano poco accurate. L’errore medio era di 1,1 punti percentuali per il Pil e 0,6 per l’inflazione: di più per il PIL forse perché è una misura più complessa, intrinsecamente più difficile da prevedere; e di meno per l’inflazione forse perché le banche centrali hanno acquisito esperienza e autorevolezza nel guidare le aspettative degli operatori economici verso dei target prefissati, che anche per questo, almeno nello scorso decennio, non sono poi stati mancati di molto.

b) Emergeva una tendenza a comportamenti gregari che spingeva chi faceva previsioni a gravitare verso il consenso; tuttavia tra chi esibiva una sistematica tendenza a fare meglio della media era frequente la capacità di andare contro il consenso, o comunque di ignorarlo.

c) Erano le istituzioni meno note che in genere registravano i risultati migliori. Le istituzioni più importanti e più note all’opinione pubblica, come il Fondo Monetario Internazionale o l’Ocse, facevano sistematicamente peggio della media (forse perché, per il loro ruolo e le loro dimensioni, seguono procedure più complesse che portano alla pubblicazione di previsioni meno tempestive e aggiornate).

Questi risultati erano davvero interessanti, perché, dal punto di vista dell’opinione pubblica e dei media che l’informano, erano del tutto controintuitivi. Io, a essere sincero, non fui tanto sconvolto.

Nel 2001 avevo quasi dieci anni di esperienza come reporter economico-finanziario. Avevo seguito la pubblicazione di decine di importanti studi previsionali di banche centrali, governi, Ocse, FMI, etc. etc. e scritto centinaia di pezzi di analisi basati sulle stime e le valutazioni dei migliori economisti delle grandi istituzioni finanziarie.

Erano tutte fonti molto informate, perspicaci, brillanti, supportate da raffinati uffici studi e modelli macroeconomici. I risultati, in termini di accuratezza, erano mediocri e a volte fallimentari (anche se nei ragionamenti e nei modelli c’è una ricchezza enorme, che va al di là del valore delle previsioni…ma di questo, magari, parlerò un’altra volta).

Ho cominciato poi a occuparmi sempre di più di finanza e investimenti. E siccome è evidente anche a un profano che i mercati finanziari sono molto più volatili e balzani delle variabili macroeconomiche, mi sono stupito ancor meno nel verificare che se nel campo economico le previsioni erano spesso mediocri e talvolta fallimentari, nei mercati finanziari erano talvolta mediocri e molto più spesso fallimentari.

I veri guru non fanno previsioni

Col tempo ho anche imparato che, nel campo degli investimenti, i veri guru non fanno previsioni, e se proprio le fanno, non se ne servono poi molto nelle loro strategie. E per questo mi piace la citazione di Lao Tzu (nell’immagine in alto), che ho già riportato su questo blog:

“Quelli che hanno la conoscenza non fanno previsioni. Quelli che fanno previsioni non hanno la conoscenza.”
E’ uno scampolo di saggezza antica che resta più che mai attuale.

Per dimostrare quanto affermo, senza dilungarmi troppo, mi limiterò a un paio di brani tratti dalle lettere annuali agli investitori del più grande (e più saggio, tanto da essere soprannominato l’Oracolo di Omaha) tra gli investitori degli ultimi 40 anni, e cioè Warren Buffett.

Il primo è del 1986, pochi mesi prima del terribile crash dell’ottobre 1987.

“Occasionali epidemie di queste due contagiosissime malattie, paura e avidità, torneranno sempre a esplodere nella comunità degli investitori. La loro tempistica sarà imprevedibile. E le aberrazioni di mercato che produrranno saranno ugualmente imprevedibili, sia in termini di durata che di intensità.”

“Di conseguenza, noi (ndr: Buffett e Charlie Munger, il suo partner da una vita) non cerchiamo mai di anticipare l’arrivo o la dipartita dell’una o dell’altra malattia. Il nostro obiettivo è più modesto: ci sforziamo semplicemente di essere timorosi quando gli altri sono avidi e di essere avidi solo quando gli altri sono timorosi.”

Il secondo brano è del 1994.

“Continueremo a ignorare le previsioni politiche ed economiche, che sono una costosa distrazione per molti investitori e uomini d’affari. Trent’anni fa nessuno avrebbe potuto prevedere l’enorme espansione della guerra in Vietnam, i controlli dei prezzi e dei salari, i due shock petroliferi, le dimissioni di un presidente (ndr: Nixon), la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il crollo del Dow di 508 punti in un giorno (ndr: il 19 ottobre del 1987), o le fluttuazioni dei rendimenti a breve dei titoli del Tesoro dal 2,8% al 17,4%.” […]

“Una serie diversa di grandi shock accadrà di sicuro anche nel corso dei prossimi 30 anni. E di nuovo non cercheremo né di prevederli né di approfittarne. Se riusciremo a identificare società simili a quelle che abbiamo acquistato in passato, le sorprese esterne avranno effetti di poco conto sui nostri risultati di lungo periodo.”

Potrei fare una sfilza di altri esempi. Ma Warren Buffett dovrebbe bastare. I veri guru non fanno affidamento sulla illusoria capacità di prevedere dove andrà il mercato nei prossimi mesi o nel prossimo anno.

Il problema dell’induzione

Chi lo sa cosa potrà accadere, e come centinaia di milioni di investitori potranno reagire a quello che accadrà? Non lo sappiamo e nessuno lo può sapere (neanche i “campioni” della classifica di CorrierEconomia). E per costruire delle strategie intelligenti ed efficaci (come quella di Buffett) è indispensabile avere ben presenti i limiti della nostra conoscenza. Quello che non sappiamo, se ignorato, diventa molto più importante di quello che sappiamo.

Generalizzando, abbiamo qui a che fare con il problema dell’induzione, ovvero, nella spassosa trattazione che ne fa Nassim Nicholas Taleb nel suo The Black Swan, il “problema del tacchino induttivista”, che vorrei qui appena accennare.

Seguiamo il racconto di Taleb (che riprende i ragionamenti del filosofo Bertrand Russell) e immaginiamo un tacchino che viene ben nutrito giorno dopo giorno. Ogni nuova razione di cibo rafforzerà il suo convincimento che una delle regole generali dell’esistenza è di essere sfamato ogni giorno da un amichevole membro della razza umana, attento agli interessi del pennuto.

Ma il mercoledì pomeriggio prima della festa del Ringraziamento (il Thanksgiving, in cui è tradizione che ogni famiglia americana mangi il tacchino) qualcosa di inatteso accade. L’animale, mentre viene spennato, è costretto a rivedere le sue convinzioni.

Il valore delle classifiche

Va bene, dirà a questo punto qualcuno. Lasciamo perdere l’aspetto puntuale delle previsioni degli “esperti.” Ma l’articolo di CorrierEconomia ci fa capire altre due cose utili, e cioè a) quali sono i fondi migliori su cui puntare; e b) che un campione di gestori di questi fondi è unanime nel valutare con moderato ottimismo le prospettive del mercato azionario per il resto dell’anno (il 6-7% atteso nel 2007 è un po’ inferiore a quel 10% che è stato il rendimento annuo delle azioni nell’ultimo secolo).

Vediamo il primo di questi punti, e cioè il valore della classifica. Ho detto all’inizio che la meticolosità con cui la tabella di CorrierEconomia era compilata è stato uno dei due aspetti che hanno attirato la mia attenzione. Peccato che lo sforzo delle colleghe Marvelli e Monti, di per sé meritevole, sia andato in una direzione inutile, anzi dannosa.

Cinque anni, per valutare l’andamento del mercato azionario o la performance di un fondo, non sono il lungo periodo. Tanto più che i cinque anni qui considerati coincidono, quasi in toto, con il bull market iniziato in America nell’autunno del 2002 e in Europa nel marzo del 2003.

E’ stata una fase di mercato caratterizzata dalla persistenza non solo del trend rialzista delle borse di tutto il mondo, ma anche di altri tratti specifici come la sovraperformance dei mercati emergenti, delle small cap e dei titoli value.

Alcuni stili e settori, cioè, hanno fatto costantemente da leader, proprio come i titoli tecnologici, dei media e delle telecomunicazioni (TMT) avevano fatto da lepri (e che lepri!) nel bull market della seconda metà degli anni ’90.

Sappiamo poi com’è finita per quella massa di ingenui investitori (o tacchini induttivisti) che si sono buttati a capofitto ad acquistare titoli e fondi TMT tra il 1999 e il 2000. Le luminose stelle di una fase di mercato si sono trasformate nelle cadenti meteore della fase successiva (il bear market del 2000-2002).

La regressione verso la media

In tutto questo c’è una logica e ci sono delle costanti, che però non possono essere percepite se si pensa che il lungo periodo sia fatto di 5 brevissimi anni. Le epidemie di paura e di euforia, di cui parla Buffett, non riguardano solo i mercati finanziari nel loro complesso, ma anche singoli settori e stili del mercato.

Riflettono fluttuazioni della psicologia degli investitori e comportamenti gregari che si vanno a sovrapporre ai cicli dell’economia reale e che, nel lungo periodo, finiscono per essere governati (forse, ma non complichiamo troppo il discorso…) da una legge, comune a tanti fenomeni naturali e scoperta nel 1886 da Francis Galton: la regressione verso la media.

E’ proprio puntando su questo principio che il bravo investitore, come Buffett, cerca di essere euforico quando gli altri sono timorosi e timoroso quando gli altri sono euforici, oppure va a caccia di titoli interessanti tra quelli che sono ignorati dai più nei settori meno in voga, diffidando invece dei nomi sulla bocca di tutti, che popolano le pagine dei giornali.

Sono andato a controllare la classifica dei 20 campioni di CorrierEconomia, “i fondi azionari Italia più brillanti e costanti negli ultimi cinque anni”, sospettando che avrei trovato una selezione di specialisti dei titoli a piccola e media capitalizzazione e dello stile value (i settori di moda nell’ultimo quinquennio).

Cosa ho verificato, dopo una rapida ricerca su Morningstar? Che ai primi 9 posti ci sono solo specialisti delle mid e small cap.

Al decimo posto c’è il primo fondo classificato da Morningstar nella categoria large cap, e cioè Azimut trend Italia, che è anche il solo assieme a Schroder Italian equity (14° nella classifica di CorrierEconomia) ad avere la distinzione di battere – seppur di poco – il mercato in un orizzonte a 5 anni non essendo uno specialista dei titoli a piccola e media capitalizzazione.

I pochi altri fondi che investono in blue chip sono in coda alla classifica di CorrierEconomia, e, nonostante la qualifica di “campioni”, sono accomunati dalla caratteristica di avere performato peggio del mercato italiano sia a tre che a cinque anni.

Ultima annotazione: nella classifica non c’è nessun specialista dello stile growth.

Quali conclusioni si possono trarre da questa semplice analisi? La prima e più importante è che l’investitore accorto dovrebbe evitare come la peste le interpretazioni semplicistiche di graduatorie come quella di CorrierEconomia.

La strategia contrarian

Proprio perché i titoli a piccola capitalizzazione hanno performato così bene negli ultimi anni, è in questo settore del mercato che sono concentrati i peggiori eccessi di sopravvalutazione. Chi punti oggi sulle small cap otterrà probabilmente risultati molto deludenti nei prossimi anni.

Il fatto, d’altra parte, che ai vertici della classifica di CorrierEconomia ci siano pochi fondi che investono in blue chip e nessuno che investe nello stile growth ci dice che lì probabilmente vanno cercati i “campioni” della prossima fase di mercato, i leader del prossimo futuro.

C’è qualcosa di nuovo e sconvolgente in questa lettura controintuitiva e contrarian dell’articolo di CorrierEconomia?

Non per chi abbia letto un testo classico, che ha teorizzato forse meglio di ogni altro i benefici dell’”andare contro la folla”, come Contrarian Investment Strategies di David Dreman; o per chi abbia gustato un altro eccellente libro, Navigate the noise, investing in the new age of media and hype, di Richard Bernstein, che insegna con maestria a difendersi dal “rumore” così spesso diffuso, in campo finanziario, dai mezzi di comunicazione di massa (lettura obbligatoria, quest’ultima, per un giornalista finanziario che non si accontenti di fare, spesso senza saperlo, il venditore di fumo).

Cosa dice Dreman? Tra le 40 regole in cui sintetizza gli aspetti salienti del suo studio, la regola 23 afferma:

“Non farti influenzare dalla performance di breve periodo di un money manager, broker, analista, o consulente, a prescindere da quanto impressionante possa essere”.

Il motivo? Spesso chi eccelle per periodi che possono anche estendersi per degli anni ci riesce perché “gioca aggressivamente” a cavalcare i trend più in voga. Tipicamente, questo tipo di performance non viene sostenuta nel tempo e finisce anzi in colossali passi falsi.

La stessa regola viene confermata empiricamente nel lavoro di Bernstein, oggi chief US strategist di Merrill Lynch e al momento della pubblicazione del suo libro (2001) chief quantitative strategist della stessa banca d’investimenti.

Bernstein analizza 40 stili d’investimento nel periodo dal 1987 al 1999 e si chiede quali siano i risultati nel triennio successivo di quegli stili di investimento che sovraperformano o sottoperformano il mercato nel triennio precedente. Si conferma la legge della regressione verso la media, per cui la maggioranza di chi sovraperforma in un periodo finisce per sottoperformare nel periodo successivo, e viceversa.

Le tabelle di performance, ingenuamente pubblicate da molti media, e spesso ancor più ingenuamente interpretate dai lettori, finiscono per spingere molti piccoli investitori ad acquistare i “campioni” del passato quando sono a fine corsa e si accingono a diventare – non tanto per demerito dei singoli gestori quanto per la specializzazione dei fondi e le rotazioni settoriali del mercato – i “brocchi” del prossimo futuro.

Il valore del consenso

Concludo con qualche considerazione su come si possa interpretare il consenso molto asfittico dei cinque money manager intervistati da CorrierEconomia.

Calcola Crestmont research di Ed Easterling che, nei 106 anni dal 1901, l’indice Dow Jones ha oscillato tra -16% e +16% nel 50% dei casi, mentre nel rimanente 50% ha avuto ritorni annuali superiori a +16% o inferiori a -16%. Oppure, applicando una diversa griglia, solo nel 31% dei casi (meno di un anno ogni tre) la performance è caduta nella forchetta tra -10% e +10%. Nel 48% degli anni (quasi uno ogni due) ha superato il +10% mentre nel 21% dei casi (poco più di un anno ogni cinque) è stata inferiore a -10%.

La volatilità delle Borse è dunque elevata e spesso molto lontana dal rendimento medio di lungo periodo (+10%). Che i nostri cinque gestori prevedano ritorni per il Mibtel del +3%, +6%, +7%, +7% e +8% appare dunque anomalo e sospetto, ed è questo, come dicevo, il secondo elemento che ha attirato la mia attenzione sul paginone di CorrierEconomia.

Cinque previsioni sono troppo poche per sapere se siano in qualche modo rappresentative del consenso di mercato. Ne possiamo aggiungere altre, di prima qualità, tratte dal numero di Barron’s del 18 giugno.

Come ogni semestre, Barron’s ha sondato, in un lungo e dettagliato report (il cui valore sta nelle analisi e non nelle previsioni), le opinioni del suo panel di esperti, composto da 12 famosi investitori: Bill Gross, Mario Gabelli, Meryl Witmer, Fred Hickey, Art Samberg, Felix Zulauf, Archie MacAllaster, Scott Black, John Neff, Marc Faber, Oscar Schafer e Abby Joseph Cohen.

Il responso? Alcuni non hanno indicato stime per l’S&P 500 nell’anno in corso. Ma tra chi l’ha fatto, Gabelli ha detto +5%, Hickey ha detto di aspettarsi un crollo, Samberg ha indicato +10%, Zulauf ha previsto “un decente rialzo”, Black +7%, Neff +8%, Faber -10%, Schafer “non molto per il resto dell’anno” e dunque un risultato finale attorno a +5/10%, Cohen +13%.

Su nove previsioni, due sono dunque negative, una è superiore alla media, le altre sei sono raccolte nello stesso ristretto ventaglio dei cinque gestori di CorrierEconomia.

La mancanza di diversità è una patologia da temere

Non c’è unanimità di vedute, ma c’è meno diversità di quanto non sia normale riscontrare. Vuol dire che ci si può fidare? No, al contrario. I mercati finanziari operano come efficienti macchine di sconto quando riflettono le fisiologiche diversità di opinioni della moltitudine degli investitori.

Quando le opinioni cominciano a cristallizzarsi in un consenso sempre più ristretto (come accadde ad esempio tra il 1999 e l’inizio del 2000) è segno che bisogna stare in guardia.

Punti di vista sempre più omogenei sono un segnale di inefficienza, che precede traumatici aggiustamenti (al rialzo come al ribasso). Insomma, quando tutti prevedono le stesse cose – che proprio perché sono previste sono anche già scontate dal mercato – vuol dire che sta per accadere l’inaspettato.

Un investitore che ha trasformato in un’arte la sistematica e spesso vincente scommessa contro il convergere delle previsioni degli “esperti” è Ken Fisher, che spiega bene la sua tecnica in due articoli apparsi su Forbes nel 2000 e nel 2003.

Cosa prevede Fisher per l’anno in corso? Come mostrano i due altri articoli a cui rinvio, è molto ottimista sia a livello macroeconomico che di mercato. La sua stima è di guadagni per l’indice azionario mondiale tra il 10% e il 40%.

Dubito che questo accadrà. Ma ho finito per parlare forse troppo di previsioni. La mia opinione resta, con Buffett, che gli investitori migliori non fanno affidamento sulle previsioni da un anno all’altro per investire bene.

Se uno però vuole proprio togliersi lo sfizio, senza per questo farvi dipendere la sua strategia di portafoglio, meglio, molto meglio utilizzare la tecnica di Fisher: quello che è previsto da molti è improbabile che accada perché è già stato scontato dal mercato.

Avevo detto in avvio che, in estrema sintesi, l’articolo di CorrierEconomia andava considerato inutile.

Ma con un po’ di analisi è stato possibile estrarne un paio di utili lezioni “contrarie”: diffidare del consenso degli “esperti” e, soprattutto, tenere bene a mente che le classifiche di performance di breve termine, che riflettono al massimo una fase di mercato senza coprire neppure un ciclo completo, sono delle trappole. Esaltano quei vincitori di ieri che finiranno spesso per essere i perdenti di domani.

Spero che Giordano Beani, Alessandro Pacchiani, Fausto Artoni, Luca Mori e Francesco Agnès, se dovessero mai leggere questo articolo, non se ne abbiano a male. Io non so se siano dei bravi investitori, degli investitori baciati dalla sorte o un misto delle due cose.

Ho solo voluto dire che l’articolo e i dati pubblicati da CorrierEconomia non consentono di saperlo. Ed essere consapevoli di quello che non sappiamo è importante. Ci aiuta a evitare gli errori più gravi.

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Blogger in contraddizione

Me ne rendo conto: in questo blog cominciano ad affiorare delle contraddizioni. E, in una certa misura, la cosa mi rallegra. Sin dall’inizio ho pensato che scrivere sarebbe servito a dare maggiore chiarezza alle esperienze e alle letture fatte nel campo degli investimenti. E per chiarire, prima di tutto bisogna portare alla luce le aporie, le contraddizioni.

Diceva Karl Popper  (nella foto) che “Il nostro interesse principale in scienza e in filosofia è, o dovrebbe essere, la ricerca della verità, mediante audaci congetture, e la ricerca critica di ciò che è falso nelle nostre varie teorie rivali.”

Io non sono nè scienziato nè filosofo, ma mi rendo conto che l’attività conoscitiva comincia con la scoperta di problemi. E così, mentre ieri finivo di scrivere i miei post sul fantomatico Fed Model, mi ha fatto piacere rendermi conto che proprio un problema mi si era appena parato davanti.

Stavo citando Valuing Wall Street, il libro di Andrew Smithers e Stephen Wright, e la loro conclusione che non c’è relazione tra rendimenti obbligazionari e rendimenti azionari per il semplice motivo che i primi sono condizionati dall’inflazione e i secondi no. Ovvero, le azioni sono indifferenti all’inflazione e per questo non ha senso valutarle in relazione ai bond (come fa il Fed Model).

E’ una conclusione che avevo fatto mia. Ma mentre la riportavo mi sono reso conto che cozzava con alcune tesi di un altro libro che apprezzo e che ho già citato su questo blog, e cioè Unexpected returns di Ed Easterling.

Valutazioni azionarie e inflazione

Nel post Cicli di mercato e rendimenti del 27 aprile scorso ho riassunto alcune delle conclusioni di Easterling, tra cui quella che i bear market e bull market secolari susseguitisi nella storia dei mercati azionari (otto nell’ultimo secolo) sarebbero causati dalle fluttuazioni del tasso d’inflazione.

Dunque, la difficoltà è di nuovo quella che pensavo di aver risolto verso la fine del post Il fantomatico Fed Model II, e cioè il ruolo giocato o non giocato dall’inflazione nei mercati azionari.

Proprio mentre schieravo due dei miei autori preferiti (Smithers e Wright) contro le debolezze dei sostenitori del Fed Model, è saltato fuori un conflitto con un altro autore (Easterling) alle cui tesi fino ad oggi avevo dato credito (anche su questo blog).

Come uscirne? Beh, in primo luogo verificando i termini esatti della questione. Sono così andato a controllare.

Questa è la citazione dal libro di Smithers e Wright (pp. 245-247):

“Dal punto di vista statistico, valutare le azioni in rapporto ai rendimenti obbligazionari o all’inflazione è un caso esemplare di selezione dei dati al fine di sostenere una tesi preconcetta, anziché usare i dati oggettivamente nel tentativo di scoprire la verità. […] Quando si utilizzano tutte le informazioni disponibili risulta chiaro che tra bond yield e dividend yield o multipli P/E non c’è in sostanza nessuna correlazione. Le previsioni teoriche sono dunque confermate dalla realtà.”

Cosa sostiene invece Easterling? Dopo aver individuato, nel corso del ventesimo secolo, quattro fasi caratterizzate da multipli P/E in espansione (bull market) e quattro fasi caratterizzate da P/E in contrazione (bear market), Easterling scrive (p.84):

“I periodi con P/E in aumento corrispondono a periodi in cui l’inflazione si muove verso una condizione di stabilità dei prezzi. I periodi con P/E in calo corrispondono a periodi in cui l’inflazione si scosta da una condizione di stabilità o verso un’inflazione maggiore o verso una maggiore deflazione.”

E’ quello che chiama “effetto curva Y”, perché incrociando i dati sui P/E di mercato con i tassi d’inflazione, Easterling ne ricava una rappresentazione a forma di Y.

A un’inflazione attorno al 2% corrispondono fasi di mercato come la seconda metà degli anni ’20, la prima metà degli anni ’60 o la seconda metà degli anni ’90, in cui il mercato si è spinto verso multipli P/E tra 20 e 40 (la gamba della Y). A un’inflazione al galoppo verso il 5%-10%-15% o in picchiata verso tassi negativi (deflazione) corrispondono fasi di mercato come gli anni ’30 o gli anni ’70, in cui i P/E sono crollati sotto il 10 (le due braccia della Y).

Che spiegazione dà Easterling dell’ “effetto curva Y”? A p. 135 scrive:

“Quando l’inflazione aumenta, il ritorno che gli investitori esigono dalle azioni aumenta, perché vogliono essere compensati per la maggiore inflazione. Di conseguenza, i prezzi azionari scendono a livelli dove possono assicurare ritorni futuri superiori. Quando l’inflazione diventa invece deflazione, il risultato è un calo degli utili futuri. E se l’attesa degli investitori è che gli utili in futuro scenderanno, anche i prezzi correnti caleranno.”

Broker economics e illusione monetaria

L’idea che gli investitori in azioni debbano essere compensati per la maggiore inflazione, come se le azioni fossero in tutto e per tutto uguali alle obbligazioni, è quanto abbiamo già visto definire da Smithers e Wright (nel mio post precedente) come l'”enorme sciocchezza” della “broker economics.” Si tratta della stessa “sciocchezza” che sembrano dimostrare tutti coloro che sono accecati da forme di illusione monetaria.

Mi fermo qui un attimo, per raccogliere e sintetizzare i termini del “problema.”

Mi sembra si possa dire che per Smithers e Wright il rapporto tra inflazione e azioni non deve esistere e infatti non esiste; mentre per Easterling (e la “broker economics”) il rapporto tra inflazione e azioni esiste ed è normale che esista. Siamo agli antipodi, sia nella teoria che nell’interpretazione dei dati.

Sui dati, non so per ora cosa dire. Qualcuno probabilmente si sbaglia e finisce per “dimostrare” più di quanto i dati non dicano. Cercherò di fare verifiche con altre fonti.

Sulla questione teorica, penso che l’investitore accorto, proiettato su un orizzonte di lungo periodo, debba stare dalla parte di Smithers e Wright.

Valutare le azioni come se fossero bond non ha senso, tanto più che esistono studi che confermano empiricamente come le fluttuazioni del livello dei prezzi si trasferiscano prontamente anche ai profitti. Al variare dell’inflazione varia in pari misura il flusso di utili attesi e non c’è dunque motivo perché cambi il valore intrinseco di un titolo azionario.

Utilizzare il Dividend Discount Model come fa la “broker economics” è davvero insensato.

Ci sono due osservazioni che vale forse la pena aggiungere. La prima riguarda l’indiscutibile esistenza di forme di illusione monetaria.

Si tratta di un fattore ininfluente se, come nel caso di Smithers e Wright, l’obiettivo dell’analisi è di identificare un rigoroso modello di valutazione dei mercati azionari nel lungo periodo. Ma probabilmente è un elemento che gli speculatori di breve periodo (a cui si rivolge in larga misura la “broker economics”) non possono ignorare.

E’ come dire che ai primi interessa capire il mercato come dovrebbe essere per poter sfruttare le inefficienze (e cioè le deviazioni dal fair value) del mercato come è, mentre i secondi pensano di poter raggiungere lo stesso obiettivo con la sola conoscenza del mercato come è.

I primi tirano dritto seguendo la loro misura del valore, convinti della sua obiettività e fondatezza, i secondi inseguono il mercato con la speranza di riuscire ad anticiparlo.

L’altra osservazione riguarda gli effetti negativi di un’inflazione che si allontani da una sostanziale condizione di stabilità dei prezzi. Sappiamo che questa è la prima preoccupazione delle banche centrali. E il motivo è che l’inflazione danneggia l’attività economica nel suo complesso, riducendo l’efficacia dei segnali di prezzo, aumentando l’incertezza e facendo lievitare il peso delle tasse.

L’orizzonte temporale: breve periodo o lungo periodo?

Nel corso del ciclo è indubbio che l’inflazione, e le azioni che le banche centrali mettono in campo per tenerla sotto controllo, finiscono per avere ricadute importanti sull’andamento di tutta l’attività economica, e quindi anche dei profitti societari.

Per lo speculatore che operi all’interno di un tale orizzonte temporale, e che sia ossessionato dai profitti del prossimo trimestre o del prossimo anno, si può capire che l’inflazione e i tassi diventino variabili in base a cui “valutare” le azioni.

Ma l’investitore accorto dovrebbe tenere lo sguardo proiettato nel lungo periodo. Le azioni, a differenza dei bond, sono strumenti con una durata finanziaria di svariati decenni (all’atto pratico, quando si consideri l’intero mercato, la duration si può considerare illimitata).

Una variabile reale, come i profitti, proiettata per una durata praticamente illimitata gode di una proprietà che in macroeconomia si chiama “neutralità monetaria”: è indifferente alle variabili monetarie come l’inflazione.

Alla fin fine, nella contraddizione tra Smithers & Wright da una parte e Easterling dall’altra mi sembra si sia aperto uno squarcio di luce: i primi operano concettualmente nel lungo periodo, il secondo nel breve.

Si tratterebbe ora di capire fino a dove si spinga il breve e dove cominci il lungo. E di capire ancora dove mi voglia e possa coerentemente collocare io.

Un elemento da considerare del libro di Easterling è che l’autore individua nel tasso d’inflazione il driver dell’evoluzione dei P/E per cicli di mercato che si spingono anche fino a 24 anni (nel caso del bull market del 1942-1965), mentre la durata media dei quattro bull market dello scorso secolo si ferma a 13,5 anni e quella dei bear market a 11,3 anni.

Anche per l’investitore proiettato nel lungo periodo, si tratta di cicli estesi con protratte deviazioni dal fair value, che in base alla rigorosa analisi fondamentale di Smithers e Wright andrebbero giudicate come irrazionali e, in ultima istanza, irrilevanti.

Ma se le cose stanno così (anche se devo aggiungere che l’analisi delle cause dei “cicli secolari” del mercato azionario, con la riduzione al fattore unico dell’inflazione, è una delle parti meno argomentate e convincenti del libro di Easterling) ci sarebbe, per l’investitore attento al valore, di che dubitare dell’efficacia dei soli strumenti di analisi razionale.

Cercherò nei prossimi giorni di scrivere della q di Tobin come strumento proposto da Smithers e Wright per l’individuazione del valore e delle strategie di investimento che da essa ricavano.

Ma per ora chiudo con un atto di pensosa – ma anche divertita – contemplazione dei limiti dell’indagine razionale, ricordando una famosa frase di John Maynard Keynes: “Non c’è nulla di così pericoloso come il perseguimento di una politica d’investimento razionale in un mondo irrazionale.”

Investire: arte, scienza, narrazione

Lo scopo di questo blog è di imparare a investire. Come? Facendo ricorso ai grandi maestri. E come si riconosce un “grande maestro”? Direi dalla bontà dei suoi risultati e/o dal rigore, obiettività e qualità scientifica delle sue indagini. In altre parti di questo blog ho parlato dell’investire come di un’arte. Ora invoco la scienza. Dunque, investire è arte o scienza? Probabilmente, per ora, entrambe le cose e azzardo qui una spiegazione.

Investire sta sempre più diventando anche una scienza, una disciplina razionale e sperimentale in un campo di attività umana complesso e in rapida evoluzione.

Alle ipotesi propriamente testate si accompagnano quelle in fase di dibattito e verifica, ma questo nocciolo di ricerca comunque scientifica, anche se spesso immatura, resta immerso in un universo di saperi artigiani, di intuizioni artistiche e di narrazioni mitologiche.

Districarsi in questo ginepraio non è facile. E forse uno degli scopi che mi propongo con questo blog è proprio cercare, almeno un po’, di separare quello che possiamo dire di sapere – e cioè le provvisorie “verità” della scienza degli investimenti – dalle “storie”, che sono poi spesso affabulazioni interessate e ingannevoli.

Vorrei citare a questo proposito Valuing Wall Street , un bellissimo libro di Andrew Smithers e Stephen Wright, su cui avrò modo di tornare. Smithers e Wright sono due eccellenti analisti ed economisti inglesi, che nel libro spiegano perché e come utilizzare uno strumento di valutazione, la q di Tobin, per evitare i bear market azionari più catastrofici e migliorare i rendimenti di portafoglio nel lungo periodo.

Scrivono dunque Smithers e Wright, in un capitoletto introduttivo titolato “l’economia dei broker” (la traduzione è mia):

“[…] L’economia è una disciplina complessa. Il risultato è che gli economisti hanno difficoltà a uscire dall’incertezza, sono continuamente in disaccordo tra di loro […] Ma c’è una cosa che li dovrebbe unire, e che in effetti li unisce quasi tutti. Ed è il fatto che dovrebbero per lo meno tentare di affrontare le loro questioni in modo scientifico. L’opinione condivisa in merito all’approccio scientifico è che procede 1) formulando ipotesi, 2) sottoponendo le ipotesi all’esame dell’osservazione, e se i dati le smentiscono, 3) rigettando le ipotesi stesse.”

“La disciplina economica è difficile perchè formulare ipotesi semplici che possano essere testate e rigettate in maniera conclusiva, in un mondo complesso, è difficile. Ciononostante, il principio resta.”

“La q di Tobin è in effetti un esempio particolarmente valido di concetto affermatosi grazie al metodo scientifico […] Il contrario è invece vero dell’‘economia dei broker’. Mentre uno scienziato respinge un’ipotesi che si riveli incoerente con i dati, i broker in genere rifiutano quei dati che siano incoerenti con le loro ipotesi.”

“La diversità d’approccio deriva dalle differenti motivazioni. Gli scienziati che rigettano dati in conflitto con le loro ipotesi sono disprezzati e vengono in breve messi al margine […] “L’ipotesi” di un broker è che le azioni sono fantastiche. E qualsiasi broker che rifiuti questa ipotesi si troverà in breve senza lavoro. […] Gli scienziati sono pagati per cercare la verità; i broker, per vendere azioni.”

“I broker possono naturalmente cercare supporto in criteri di valutazione i più vari, ma se l’evidenza risulta in contrasto con ‘l’ipotesi che le azioni sono fantastiche’, farne uso non avrà per il broker alcun senso dal punto di vista commerciale. Per questo motivo, un certo numero di indicatori che vengono regolarmente impiegati dai broker sono in contrasto con l’analisi del valore, in teoria così come in pratica.”

Nel prossimo post, mi propongo di illustrare, con l’aiuto di Smithers & Wright e di un altro grande analista e investitore, John Hussman, un caso particolarmente appariscente e fuorviante di “economia dei broker” in azione: il cosiddetto Fed Model.

Analisi strategica del ciclo II

Il mio precedente post, Analisi strategica del ciclo I, si può riassumere in poche idee: a) Ai fini di una profittevole gestione del portafoglio, l’esame assiduo e minuzioso del ciclo economico è, per l’investitore accorto, una tentazione da respingere. b) Può essere utile, invece, un’analisi strategica che sia esclusivamente mirata a individuare i grandi punti di svolta segnati dall’approssimarsi di una recessione, un evento relativamente raro (verificatosi, ad esempio, solo nove volte negli Stati Uniti dal dopoguerra a oggi). c) Nel riconoscere per tempo una recessione, l’investitore accorto sa di non poter far conto né sul mercato né sulle forze che più lo condizionano, come banche centrali, governi, consenso dei grandi operatori e analisti.

Si tratta di “giocatori” che hanno in genere l’interesse a posporre, per quanto possibile, questa sgradevole ma inevitabile fase della vita economica, di solito negandola (spesso anche a se stessi). Oppure che, anche quando la considerino imminente e ineluttabile, si guardano bene dal dirlo, per non vedersene attribuita la responsabilità (penso, in questo caso, alle banche centrali). L’opera di rimozione è resa facile dal fatto che le recessioni si materializzano alla fine di un ciclo espansivo, quando l’ottimismo prevale e il successo arride, momentaneamente, a chi più ha rischiato.

d) L’investitore accorto deve quindi usare la sua testa, e fare ricorso ai buoni consigli di una minoranza di analisti, di comprovata perspicacia, e fuori dal coro.

Proverò adesso a calare questa griglia di idee, piuttosto vaghe e di largo respiro, nella realtà di oggi.

Analisi del ciclo attuale

I mercati azionari sono in una fase “toro”, senza correzioni significative, da oltre quattro anni – una delle espansioni più lunghe del dopoguerra. Hanno superato indenni anche il primo biennio del ciclo presidenziale Usa (2005-2006), tipicamente caratterizzato da una certa debolezza delle Borse (e il ciclo presidenziale è stato sinora uno degli strumenti più affidabili di analisi ciclica del mercato).

E’ vero che si lasciavano alle spalle i ribassi particolarmente pronunciati del bear market del 2000-2002. Ma è altrettanto vero che, nel punto di massima inflessione – nell’ottobre del 2002 negli Usa, e nel marzo del 2003 in Europa – non avevano ancora raggiunto livelli valutativi in linea con la media storica.

L’attuale rally, cioè, è partito da uno stato di sopravvalutazione e si sta spingendo verso una condizione di bolla paragonabile al 2000 (anche se all’impazzimento per i titoli TMT si sono oggi sostituite manie più sofisticate e/o esotiche come il private equity, i credit derivatives, e la Cina).

L’ultima recessione, negli Usa, è di 6 anni fa. Fu blanda e di corto respiro grazie all’imponente reazione della Federal Reserve, che portò i tassi addirittura all’1%, e all’aggressivo uso della leva fiscale da parte dell’amministrazione Bush, che partendo da una virtuosa condizione di surplus ha fatto sprofondare il bilancio federale in un pesante deficit.

Quella breve recessione accadeva poi a 11 anni dalla recessione precedente del 1990: uno iato di una durata senza precedenti, e reso possibile dalle politiche troppo espansive della Fed e dall’euforia “millenaristica” per la new economy, che travolse gli americani – e non solo – in prossimità dell’anno 2000.

Un quindicennio di crescita drogata ha lasciato gli Usa, il cuore del sistema globale, male attrezzati per il futuro: un enorme deficit commerciale, un grande deficit di bilancio, famiglie molto indebitate e tassi di risparmio negativi, un dollaro in balia delle decisioni d’investimento delle banche centrali asiatiche.

Non è una battuta osservare, come hanno fatto già in molti, che se gli Usa non fossero gli Usa, il Fondo Monetario Internazionale sarebbe già da tempo intervenuto con le sue amare ricette per cercare di porre rimedio a un tale strutturale dissesto.

Le osservazioni che ho fatto sin qui non sono le uniche possibili. In positivo si potrebbe parlare, a livello micro, della migliorata governance delle aziende, e, a livello macro, del fenomenale sviluppo dei paesi emergenti. E di altro ancora.

Ma soffermarsi a considerare, in un periodo di diffuso ottimismo, la fragilità del cuore del sistema e lo stato di sopravvalutazione dei mercati è forse la premessa essenziale, per l’investitore accorto che si cimenti in un’analisi strategica della congiuntura.

Squilibri strutturali e rischi di recessione

Siamo dunque a un punto del ciclo in cui è giusto chiedersi se, anziché la vigorosa spinta alla ripresa e alla crescita, non possano essere gli squilibri sottostanti a cominciare a dettare il passo dei mercati. Per l’investitore accorto, insomma, è arrivato il tempo della circospezione.

Un rapido giro d’orizzonte rivela che l’economia Usa è entrata, da alcuni trimestri, in una fase di rallentamento ma che il ciclo globale resta vigoroso (sin troppo, in paesi come la Cina).

L’opinione diffusa è che i problemi americani siano limitati al mercato immobiliare, e che la pausa, come è abbastanza comune a metà del ciclo e come già accadde nella fase centrale della scorsa decade, evolverà verso una rinnovata espansione, probabilmente già dal prossimo semestre.

Sarà. Ma alcuni dei miei economisti preferiti (non tutti, a dire il vero) non sono d’accordo. Penso, ad esempio, a Paul Kasriel di Northern Trust e Van Hoisington e Lacy Hunt di Hoisington Management , le cui analisi dell’economia Usa leggo sempre con viva attenzione.

L’ultimo “Quarterly Review and Outlook” di Hoisington & Hunt, in particolare, offre, in 5 pagine e 5 brevi ma puntuali capitoli, un’eccellente sintesi dei motivi che, a giudizio degli autori, stanno spingendo gli Usa verso la recessione. Provo a riassumerli.

1) La politica monetaria è restrittiva e l’andamento degli aggregati monetari ne è prova. Bisogna poi tener conto del fatto che, a causa dei lunghi ritardi con cui la leva dei tassi esercita i suoi effetti, i 100 punti base di aumento dei Fed Funds, messi in atto nella prima parte del 2006, devono ancora impattare l’economia.

2) Il ricorso al credito da parte delle famiglie è crollato del 6% in rapporto al reddito disponibile tra fine 2005 e fine 2006. Si tratta del secondo maggiore calo dal 1952, e di un fenomeno che in passato ha quasi sempre coinciso con una recessione.

3) Fasi di pronunciata contrazione del credito, come l’attuale, a seguito di periodi di rapida espansione, hanno sempre prodotto “drammatici” aumenti delle sofferenze e delle insolvenze. Segni di contagio sono già evidenti, a partire dai mutui ipotecari di minore qualità (sub-prime e Alt-A) a quelli di maggiore qualità (prime), ai mercati delle carte di credito e dei CDO (collateralized debt obligations), dove gli standard di credito sono stati molto irrigiditi.

4) Lo scoppio della bolla immobiliare è lungi dall’esaurire i suoi effetti. Le scorte di case invendute sono ai livelli più alti da 16 anni e le nuove case completate, a febbraio (ultimi dati disponibili), erano il 9,1% in più di quelle iniziate. E ciò vuol dire che i tagli alla produzione e all’occupazione sono solo agli inizi, in un processo, che, com’è tipico di un mercato poco liquido come la casa, è destinato a dipanarsi nell’arco di anni.

L’impatto sull’economia Usa sarà amplificato dal fatto che, in questa ripresa, il settore immobiliare ha creato il 31% della nuova occupazione complessiva mentre il rifinanziamento dei mutui ha probabilmente reso possibile metà della crescita dei consumi dell’ultimo triennio.

5) Gli investimenti in beni capitali, che esercitano un importante effetto “moltiplicatore” sul resto dell’economia, stanno entrando in recessione. Sono sensibili a due fattori – profitti e utilizzo della capacità degli impianti – che sono entrambi in flessione.

6) Diversi indicatori evidenziano rischi elevati di recessione, e in particolare due di grande affidabilità: il Superindice Economico (LEI) e l’Indicatore di Kasriel (KRWI, basato sulla curva dei rendimenti e sulla variazione annua della base monetaria, rettificata per l’inflazione). Negli ultimi 40 anni, il primo ha dato un solo falso segnale, il secondo nessuno, come risulta chiaro dai grafici n. 4 e n. 8 (a pagina 4 e 5) del documento di Hoisington Management.

La conclusione di Hoisington & Hunt è che una recessione negli Usa è ormai forse inevitabile. La leva fiscale è già stata sin troppo sfruttata, potrebbe produrre risultati solo in tempi lunghi, e in ogni caso la contrapposizione tra Presidente e Congresso promette solo paralisi fino alla scadenza del mandato di Bush.

Quanto alla leva monetaria, la Fed sembra per ora preoccupata più dell’inflazione che della crescita e, come accadde a cavallo tra il 2000 e il 2001, un cambio di rotta rischia sempre più di risultare tardivo.

Valutazione delle probabilità

Si tratta di osservazioni a mio parere persuasive. Ci sono, dicevo, analisti per cui nutro pure grande rispetto, come quelli di PIMCO o di BCA Research, i quali continuano a ritenere, con il consenso, che la fase di bassa crescita americana, per quanto delicata, non si trasformerà in recessione.

E c’è poi chi teorizza il cosiddetto decoupling, e cioè il graduale affrancamento dell’economia globale dal ruolo guida degli Usa. Secondo costoro, ci potrebbe anche essere una recessione negli Usa, senza però che Asia ed Europa se ne debbano troppo preoccupare.

Su quest’ultimo punto penso che un investitore debba essere in ogni caso scettico. E’ evidente che la straordinaria crescita dei paesi emergenti sta trasformando gli equilibri globali. Ma è altrettanto evidente che quando si parla di mercati, creature istintivamente poco amanti delle novità, sarà difficile che il ruolo guida di Wall Street sia messo tanto presto in discussione.

In particolare, la correlazione delle Borse europee a quella Usa è da molto tempo superiore al 90%. E trovo difficile immaginare che una recessione americana, con pesanti perdite a Wall Street, risulti, all’improvviso, indifferente o quasi agli indici da questa parte dell’Atlantico.

Il senso di questo lungo post è allora che, dal punto di vista di un investitore accorto, il tempo presente è non solo quello della circospezione ma dell’attiva cautela.

Il ciclo è in uno stadio avanzato. Le borse sono sopravvalutate. E i rischi di recessione negli Usa sono maggiori di quanto non venga riconosciuto dal consenso. In poche parole, il rally dei mercati appare scivoloso come una buccia di banana.

Analisi strategica del ciclo I

Lo stato d’animo dell’investitore accorto alle prese con l’analisi del ciclo dovrebbe essere innanzitutto di diffidenza. I su e giù dell’economia e delle Borse sono infatti sin troppo discussi e analizzati in tutte le salse, con in genere un unico, negativo risultato: quello di indurre l’investitore a entrare e uscire continuamente dal mercato, facendo lievitare costi e tasse a scapito dei rendimenti.

Piuttosto del nevrotico e confuso agitarsi, sulla spinta delle ondate emotive che spesso colorano le analisi du jour – o quanto meno l’interpretazione che si finisce per darne – è molto meglio un atteggiamento distaccato e passivo, attento alla corretta definizione dell’asset allocation e al periodico bilanciamento del portafoglio.

Come ho però cercato di evidenziare in un post di qualche giorno fa, Cicli di mercato e rendimenti, l’investimento passivo soffre pure di una seria limitazione in tempi di Borse molto sopravvalutate: assicura i rendimenti del mercato, che però rischiano di essere negativi anche per periodi ventennali, e accettabili solo nel lunghissimo termine (50 anni o più).

Crisi di fiducia e recessioni

Come se ne esce? Forse con quella che potrei chiamare l’analisi strategica del ciclo. Mi spiego.

A studiare un po’ di storia dei mercati azionari, si vede che i grandi ribassi (dei piccoli, e cioè delle fisiologiche correzioni di un bull market, è meglio non curarsi) hanno, grosso modo, due tipi di fattori scatenanti: crisi di fiducia che diventano in breve veri attacchi di panico, come nel 1987 o nel 2001, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, e le recessioni economiche, come – per stare agli ultimi 40 anni – quelle del 1970, 1974, 1980, 1982, 1990 e 2001.

Nel primo caso, i crolli di mercato sono improvvisi e convulsi, ma anche effimeri. Nel giro di qualche mese, gli indici ritornano ai livelli di partenza, dopo un terrificante “testacoda” che crea, distrugge, trasferisce enormi ricchezze, lasciando però in aggregato tutto come prima.

Nel secondo caso, l’evoluzione è più tortuosa e gli effetti di più lunga durata: gli indici perdono il 30%, 40%, 50% (o addirittura il 75%, quando partono da condizioni di “bolla” come il Nasdaq nel 2000) nell’arco di 1 o 2 anni e impiegano poi diverso tempo – decenni nel caso delle “bolle” – per tornare ai livelli iniziali.

Prevedere gli improvvisi attacchi di panico del mercato è impossibile (è il caso delle Torri Gemelle) o, per lo meno, estremamente problematico (nell’imminenza del Black Monday del 1987 ci fu chi liquidò le posizioni o andò “corto”, e divenne per questo celebre – ma non sapremo mai quanta parte giocò il caso nella straordinaria tempestività di quelle scelte).

Valutare i rischi di contrazione dell’attività economica, a livello globale o in un sistema-guida come quello americano, è invece possibile. E l’analisi strategica del ciclo solo a questo dovrebbe mirare: consentire all’investitore di non farsi cogliere impreparato dalla recessione, un evento che tende ciclicamente a ripetersi ogni 5-10 anni e la cui singolare rilevanza è data dal fatto di sommare in sé i caratteri della relativa prevedibilità e della brutale traumaticità.

Il mercato come barometro dell’economia?

Si potrebbe obiettare che non c’è barometro migliore del mercato stesso. Quale più tempestivo strumento di valutazione del ciclo dell’analisi tecnica degli indici? Saranno le Borse stesse (o l’analisi intermarket) ad avvertirci che una recessione è alle porte e che è arrivato il tempo di tirare i remi in barca…

Purtroppo le cose non stanno esattamente così. E’ nota la battuta del premio Nobel Paul Samuelson, il quale osservò ormai diversi anni fa come il mercato azionario avesse “previsto nove delle ultime cinque recessioni.”

E’ un’osservazione arguta, che però potrebbe essere forse aggiornata, nel senso inverso (“cinque delle ultime nove…”). Da un po’ di tempo, gli investitori sembrano collettivamente farsi prendere dall’euforia proprio quando una recessione è imminente, e soccombere alla sua ineluttabilità solo quando è tardi, e l’evidenza non può più essere negata.

Forse – ma qui azzardo un’interpretazione più discutibile di altre – nelle nostre economie così dominate dalla finanza, gli interessi tesi a far sì che continui il moto ascendente dei mercati dei capitali si sono fatti tanto pervasivi da mobilitarsi in massa e con evidente quanto momentaneo successo quando la minaccia di un’inversione del trend si profila all’orizzonte.

Sta di fatto che è di solito vano aspettarsi che siano le banche centrali, i governi, l’FMI, l’Ocse o il consenso degli analisti di mercato a lanciare allarmi sull’imminenza di una recessione. Si parlerà di rischi limitati, di “pause” o “rallentamenti” della crescita, di “squilibri” superabili.

Ma a prevedere correttamente una recessione saranno di solito pochi, bravi analisti fuori dal coro. Ed è forse per questo che il mercato azionario, espressione del consenso dei molti, si sta sempre più dimostrando, come nota l’economista Gene Epstein, un “indicatore anticipatore eccellente per quel che riguarda l’avvio di una ripresa economica, ma alquanto insensibile quando si tratta del profilarsi di una recessione.”

Vedremo in una seconda parte come questa analisi può essere applicata all’attuale fase del ciclo.

Il value investing secondo Warren Buffett

C’è un divertente e illuminante testo di Warren Buffett sul value investing, ed è la conferenza che tenne nel 1984 alla Columbia University per commemorare i 50 anni dalla pubblicazione di “Security Analysis“, l’opera di Benjamin Graham e David Dodd che creò un metodo per valutare le aziende e segnò la nascita dell’approccio agli investimenti basato sul “valore”. La conferenza s’intitola “I Superinvestitori di Graham & Doddsville” e prende le mosse dall’analisi delle straordinarie performance ottenute da un gruppo di investitori e amici, uniti da una comune appartenenza intellettuale: l’aver frequentato i corsi di Graham e Dodd alla Columbia University e perseguito poi, in modi spesso originali, l’identica ricerca di discrepanze tra il valore intrinseco delle aziende e i prezzi delle relative azioni.

Per i teorici dell’efficienza del mercato, osserva Buffett, l’idea che esistano titoli sottovalutati è anatema. Per costoro, fare meglio del mercato, anno dopo anno, è solo una questione di fortuna dato che nulla può meglio riflettere, in ogni singolo istante, il valore di un’azienda della sua quotazione di Borsa.

Si tratta, per Buffett, di un approccio astrattamente accademico che fa a pugni col buon senso e con la sua esperienza dei mercati. La parte conclusiva del discorso, che qui riporto, espone, in toni a tratti ironici e sempre accattivanti, il fermo convincimento nella perdurante superiorità della lezione di Graham e Dodd.

I superinvestitori di Graham & Doddsville

[…] Sono convinto che nel mercato c’è molta inefficienza. Gli investitori di “Graham & Doddsville” non hanno fatto altro che sfruttare con successo le divergenze tra prezzo e valore.

Quando il prezzo di un’azione può essere influenzato dal “gregge” degli investitori, e fissato al margine dalla persona più emotiva, o più avida o più depressa, è difficile sostenere che il prezzo di mercato sia sempre razionale. In realtà, i prezzi di mercato sono spesso privi di senso.

Vorrei dire una cosa importante a proposito del rapporto tra rischio e rendimento. Rischio e rendimento hanno a volte una correlazione positiva. Se qualcuno mi dicesse: “Ecco qui un revolver a sei colpi con dentro un solo proiettile. Perché non fai ruotare il tamburo e premi una volta il grilletto? Se sopravvivi ti do un milione di dollari.” Rifiuterei l’offerta, ribattendo forse che un milione di dollari non è abbastanza.

Questo qualcuno potrebbe allora offrirmi 5 milioni di dollari per premere il grilletto due volte. Ecco, in questo caso ci sarebbe una correlazione positiva fra rischio e ricompensa!

L’esatto opposto è vero nel caso del value investing. Acquistare un biglietto da un dollaro a 60 centesimi è più rischioso che acquistarlo a 40. Eppure la ricompensa attesa è maggiore nel secondo caso che nel primo. Maggiore è il ritorno potenziale, nel portafoglio orientato al valore, minore è il rischio.

Facciamo un rapido esempio. Nel 1973, il gruppo Washington Post aveva una capitalizzazione di Borsa di 80 milioni di dollari. Ma i suoi asset avrebbero potuto essere venduti, in quegli stessi giorni, a uno qualsiasi tra una decina almeno di possibili acquirenti per non meno di 400 milioni di dollari, e probabilmente per molto di più.

Il gruppo controllava il Post, Newsweek, e diversi canali televisivi in mercati importanti. Queste stesse proprietà valgono ora 2 miliardi di dollari, ed è chiaro che chi le avesse comperate per 400 milioni non si sarebbe comportato da pazzo.

Ora, se il crollo del titolo fosse stato ancora più forte, tale da ridurre la capitalizzazione a 40 milioni invece di 80, il beta sarebbe stato più alto. E per quanti pensano che il beta misuri il rischio, il prezzo più basso avrebbe reso il titolo più rischioso.

Ma questa è una logica da Alice nel Paese delle Meraviglie! Non ho mai capito perché dovrebbe essere più rischioso comperare proprietà del valore di 400 milioni di dollari al prezzo di 40 milioni piuttosto che a quello di 80 milioni […]

Certo, bisogna avere le conoscenze che ti consentono di arrivare a una stima complessiva del valore delle attività sottostanti. Ma mica occorre una precisione millimetrica.

Questo intendeva Graham quando parlava di margine di sicurezza. Non cerchi di acquisire attività del valore di 83 milioni per 80 milioni. Ti lasci un margine enorme. Quando costruisci un ponte, insisti che possa reggere 15 tonnellate, ma poi ci fai passare carichi da 5 tonnellate. Lo stesso principio vale per gli investimenti.

Per concludere, qualcuno tra voi più dotato di senso degli affari potrebbe chiedersi perché io dica queste cose. Far crescere il numero dei convertiti all’approccio orientato al valore ridurrà per forza di cose lo scarto fra prezzo e valore.

Ma quel che posso dirvi è che il segreto è noto ormai da 50 anni, da quando Ben Graham e David Dodd scrissero “Security Analysis”. Eppure, non ho notato nessuna tendenza a una maggiore popolarità del value investing, nei 35 anni in cui io l’ho praticato.

Sembra esserci qualche perverso tratto umano che rende difficili le cose semplici. Il mondo accademico, anzi, nell’ultimo trentennio si è allontanato ancor di più dall’insegnamento del value investing. Ed è probabile che le cose continuino così.

Le navi circumnavigheranno il pianeta, ma i membri della Società della Terra Piatta non faranno che crescere di numero. E quanti avranno letto Graham & Dodd continueranno a prosperare.

(la traduzione e le sottolineature sono mie)

Ma negli investimenti ci vuole fortuna?

Se anche i migliori a volte falliscono (viene alla mente il crack del fondo LTCM, che nel 1998 fece sprofondare nel fango 2 premi Nobel per l’Economia e uno dei più noti bond trader al mondo, ricoprendo di schizzi anche alcune banche centrali), forse tutto quello che davvero occorre, negli investimenti come in altre cose della vita, è un po’ di fortuna.

Il pensiero, comune ai tanti che affrontano le imprevedibili contorsioni dei mercati come se si trattasse di una puntata al lotto o al totocalcio, mi ha lambito la mente mentre sfogliavo un libro divertente e di successo, “Un matematico gioca in Borsa”, di John Allen Paulos.

A un certo punto l’autore scrive:

La logica del mercato azionario è estremamente riduttiva. Si può avere ragione per i motivi sbagliati e aver torto per i motivi giusti, ma per il mercato si ha solo ragione o si ha solo torto. Pensate alla storiella del maestro che chiede agli scolari: ‘Chi di voi sa indicarmi due pronomi?’ Visto che nessuno alza la mano, il maestro si rivolge a Tommy (Pierino nella versione italiana di questa storiella, ndr), che gli risponde: ‘Chi, io?’ Per il mercato, Tommaso ha ragione e quindi diventa ricco, anche se difficilmente prenderà ottimo in inglese.

Divertente. Ma le cose stanno davvero così? La logica riduttiva, in questo caso, potrebbe essere quella di Paulos, abbacinato dall’osservazione – vera ma parziale – che nel breve periodo l’investitore può avere ragione per i motivi sbagliati, o torto per quelli giusti, e ritrovarsi a essere, suo malgrado, vittima o beneficiario delle imperscrutabili fluttuazioni dei mercati.

Ma nel lungo periodo? Warren Buffett, LTCM, lo speculatore improvvisato o il sottoscritto siamo tutti sullo stesso piano, tutti ugualmente esposti alla possibilità di “avere ragione per i motivi sbagliati e aver torto per i motivi giusti?”

Investire è un’attività probabilistica

In verità non è così, come argomenta con efficacia Michael Mauboussin (nella foto in alto), chief strategist di Legg Mason e docente alla Columbia University, nel suo “More than you know”, un libro (purtroppo non ancora tradotto in italiano) tra i più stimolanti che abbia letto negli ultimi tempi.

Investire nel lungo periodo è un’attività non casuale ma probabilistica. Ci sono filosofie d’investimento – come quella sposata da Warren Buffett – che funzionano perché bene interpretano la natura dei mercati (Buffett è da oltre 40 anni che guadagna in media più del 20% l’anno, e diversi altri discepoli del value investing hanno ottenuto risultati paragonabili), e filosofie d’investimento – come quella adottata da LTCM – che non funzionano (il fondo delle superstar, nato per battere tutti i record, andò gambe all’aria dopo solo quattro anni di attività).

E’ qui dunque che all’investitore conviene soffermarsi: sulla bontà della filosofia e delle procedure che mette in campo piuttosto che sui singoli, estemporanei risultati. A guardar bene, infatti, una logica nei mercati c’è. E non è quella “riduttiva” di Allen Paulos, ma quella ancorata ai due pilastri del “valore” e del “rischio.”

Nulla aiuta ad avere successo quanto imparare a identificare gap tra prezzi (di mercato) e valore (dei titoli quotati) e ad assicurarsi correttamente contro il rischio, senza mai smarrire la consapevolezza della natura probabilistica delle scelte d’investimento.

L’aneddoto che Mauboussin racconta, per mettere in rilievo la differenza tra procedimento e risultato, e l’importanza almeno pari del primo rispetto al secondo, è in apparenza simile a quello scelto da Allen Paulos, ma conduce a conclusioni opposte.

Siamo a Las Vegas, e c’è un giocatore impegnato in una partita di blackjack. Con un diciassette in mano, il giocatore chiede ancora una carta, tra lo sbigottimento degli astanti e dello stesso dealer. La carta, per un fortunoso bacio della sorte, è un quattro. E il dealer commenta: Bel colpo!” Nota Mauboussin: sì, certo, bel colpo. Se lavori per il casinò, è così che vuoi che ogni giocatore si comporti.

Il “bel colpo”, insomma, è una nozione ambigua. Può anche essere frutto di un approccio ai mercati che prima o poi porta solo alla rovina.

La conclusione allora è che in un campo come quello degli investimenti, dove si opera sempre sulla base di informazioni incomplete e in assenza di certezze, le scelte vanno valutate non solo sulla base dei risultati ma anche della qualità del processo decisionale. E l’investitore accorto farebbe bene a preoccuparsi di elaborare un corretto e sistematico approccio ai mercati, disinteressandosi della fortuna.

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