l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

Analisi strategica del ciclo II

Il mio precedente post, Analisi strategica del ciclo I, si può riassumere in poche idee: a) Ai fini di una profittevole gestione del portafoglio, l’esame assiduo e minuzioso del ciclo economico è, per l’investitore accorto, una tentazione da respingere. b) Può essere utile, invece, un’analisi strategica che sia esclusivamente mirata a individuare i grandi punti di svolta segnati dall’approssimarsi di una recessione, un evento relativamente raro (verificatosi, ad esempio, solo nove volte negli Stati Uniti dal dopoguerra a oggi). c) Nel riconoscere per tempo una recessione, l’investitore accorto sa di non poter far conto né sul mercato né sulle forze che più lo condizionano, come banche centrali, governi, consenso dei grandi operatori e analisti.

Si tratta di “giocatori” che hanno in genere l’interesse a posporre, per quanto possibile, questa sgradevole ma inevitabile fase della vita economica, di solito negandola (spesso anche a se stessi). Oppure che, anche quando la considerino imminente e ineluttabile, si guardano bene dal dirlo, per non vedersene attribuita la responsabilità (penso, in questo caso, alle banche centrali). L’opera di rimozione è resa facile dal fatto che le recessioni si materializzano alla fine di un ciclo espansivo, quando l’ottimismo prevale e il successo arride, momentaneamente, a chi più ha rischiato.

d) L’investitore accorto deve quindi usare la sua testa, e fare ricorso ai buoni consigli di una minoranza di analisti, di comprovata perspicacia, e fuori dal coro.

Proverò adesso a calare questa griglia di idee, piuttosto vaghe e di largo respiro, nella realtà di oggi.

Analisi del ciclo attuale

I mercati azionari sono in una fase “toro”, senza correzioni significative, da oltre quattro anni – una delle espansioni più lunghe del dopoguerra. Hanno superato indenni anche il primo biennio del ciclo presidenziale Usa (2005-2006), tipicamente caratterizzato da una certa debolezza delle Borse (e il ciclo presidenziale è stato sinora uno degli strumenti più affidabili di analisi ciclica del mercato).

E’ vero che si lasciavano alle spalle i ribassi particolarmente pronunciati del bear market del 2000-2002. Ma è altrettanto vero che, nel punto di massima inflessione – nell’ottobre del 2002 negli Usa, e nel marzo del 2003 in Europa – non avevano ancora raggiunto livelli valutativi in linea con la media storica.

L’attuale rally, cioè, è partito da uno stato di sopravvalutazione e si sta spingendo verso una condizione di bolla paragonabile al 2000 (anche se all’impazzimento per i titoli TMT si sono oggi sostituite manie più sofisticate e/o esotiche come il private equity, i credit derivatives, e la Cina).

L’ultima recessione, negli Usa, è di 6 anni fa. Fu blanda e di corto respiro grazie all’imponente reazione della Federal Reserve, che portò i tassi addirittura all’1%, e all’aggressivo uso della leva fiscale da parte dell’amministrazione Bush, che partendo da una virtuosa condizione di surplus ha fatto sprofondare il bilancio federale in un pesante deficit.

Quella breve recessione accadeva poi a 11 anni dalla recessione precedente del 1990: uno iato di una durata senza precedenti, e reso possibile dalle politiche troppo espansive della Fed e dall’euforia “millenaristica” per la new economy, che travolse gli americani – e non solo – in prossimità dell’anno 2000.

Un quindicennio di crescita drogata ha lasciato gli Usa, il cuore del sistema globale, male attrezzati per il futuro: un enorme deficit commerciale, un grande deficit di bilancio, famiglie molto indebitate e tassi di risparmio negativi, un dollaro in balia delle decisioni d’investimento delle banche centrali asiatiche.

Non è una battuta osservare, come hanno fatto già in molti, che se gli Usa non fossero gli Usa, il Fondo Monetario Internazionale sarebbe già da tempo intervenuto con le sue amare ricette per cercare di porre rimedio a un tale strutturale dissesto.

Le osservazioni che ho fatto sin qui non sono le uniche possibili. In positivo si potrebbe parlare, a livello micro, della migliorata governance delle aziende, e, a livello macro, del fenomenale sviluppo dei paesi emergenti. E di altro ancora.

Ma soffermarsi a considerare, in un periodo di diffuso ottimismo, la fragilità del cuore del sistema e lo stato di sopravvalutazione dei mercati è forse la premessa essenziale, per l’investitore accorto che si cimenti in un’analisi strategica della congiuntura.

Squilibri strutturali e rischi di recessione

Siamo dunque a un punto del ciclo in cui è giusto chiedersi se, anziché la vigorosa spinta alla ripresa e alla crescita, non possano essere gli squilibri sottostanti a cominciare a dettare il passo dei mercati. Per l’investitore accorto, insomma, è arrivato il tempo della circospezione.

Un rapido giro d’orizzonte rivela che l’economia Usa è entrata, da alcuni trimestri, in una fase di rallentamento ma che il ciclo globale resta vigoroso (sin troppo, in paesi come la Cina).

L’opinione diffusa è che i problemi americani siano limitati al mercato immobiliare, e che la pausa, come è abbastanza comune a metà del ciclo e come già accadde nella fase centrale della scorsa decade, evolverà verso una rinnovata espansione, probabilmente già dal prossimo semestre.

Sarà. Ma alcuni dei miei economisti preferiti (non tutti, a dire il vero) non sono d’accordo. Penso, ad esempio, a Paul Kasriel di Northern Trust e Van Hoisington e Lacy Hunt di Hoisington Management , le cui analisi dell’economia Usa leggo sempre con viva attenzione.

L’ultimo “Quarterly Review and Outlook” di Hoisington & Hunt, in particolare, offre, in 5 pagine e 5 brevi ma puntuali capitoli, un’eccellente sintesi dei motivi che, a giudizio degli autori, stanno spingendo gli Usa verso la recessione. Provo a riassumerli.

1) La politica monetaria è restrittiva e l’andamento degli aggregati monetari ne è prova. Bisogna poi tener conto del fatto che, a causa dei lunghi ritardi con cui la leva dei tassi esercita i suoi effetti, i 100 punti base di aumento dei Fed Funds, messi in atto nella prima parte del 2006, devono ancora impattare l’economia.

2) Il ricorso al credito da parte delle famiglie è crollato del 6% in rapporto al reddito disponibile tra fine 2005 e fine 2006. Si tratta del secondo maggiore calo dal 1952, e di un fenomeno che in passato ha quasi sempre coinciso con una recessione.

3) Fasi di pronunciata contrazione del credito, come l’attuale, a seguito di periodi di rapida espansione, hanno sempre prodotto “drammatici” aumenti delle sofferenze e delle insolvenze. Segni di contagio sono già evidenti, a partire dai mutui ipotecari di minore qualità (sub-prime e Alt-A) a quelli di maggiore qualità (prime), ai mercati delle carte di credito e dei CDO (collateralized debt obligations), dove gli standard di credito sono stati molto irrigiditi.

4) Lo scoppio della bolla immobiliare è lungi dall’esaurire i suoi effetti. Le scorte di case invendute sono ai livelli più alti da 16 anni e le nuove case completate, a febbraio (ultimi dati disponibili), erano il 9,1% in più di quelle iniziate. E ciò vuol dire che i tagli alla produzione e all’occupazione sono solo agli inizi, in un processo, che, com’è tipico di un mercato poco liquido come la casa, è destinato a dipanarsi nell’arco di anni.

L’impatto sull’economia Usa sarà amplificato dal fatto che, in questa ripresa, il settore immobiliare ha creato il 31% della nuova occupazione complessiva mentre il rifinanziamento dei mutui ha probabilmente reso possibile metà della crescita dei consumi dell’ultimo triennio.

5) Gli investimenti in beni capitali, che esercitano un importante effetto “moltiplicatore” sul resto dell’economia, stanno entrando in recessione. Sono sensibili a due fattori – profitti e utilizzo della capacità degli impianti – che sono entrambi in flessione.

6) Diversi indicatori evidenziano rischi elevati di recessione, e in particolare due di grande affidabilità: il Superindice Economico (LEI) e l’Indicatore di Kasriel (KRWI, basato sulla curva dei rendimenti e sulla variazione annua della base monetaria, rettificata per l’inflazione). Negli ultimi 40 anni, il primo ha dato un solo falso segnale, il secondo nessuno, come risulta chiaro dai grafici n. 4 e n. 8 (a pagina 4 e 5) del documento di Hoisington Management.

La conclusione di Hoisington & Hunt è che una recessione negli Usa è ormai forse inevitabile. La leva fiscale è già stata sin troppo sfruttata, potrebbe produrre risultati solo in tempi lunghi, e in ogni caso la contrapposizione tra Presidente e Congresso promette solo paralisi fino alla scadenza del mandato di Bush.

Quanto alla leva monetaria, la Fed sembra per ora preoccupata più dell’inflazione che della crescita e, come accadde a cavallo tra il 2000 e il 2001, un cambio di rotta rischia sempre più di risultare tardivo.

Valutazione delle probabilità

Si tratta di osservazioni a mio parere persuasive. Ci sono, dicevo, analisti per cui nutro pure grande rispetto, come quelli di PIMCO o di BCA Research, i quali continuano a ritenere, con il consenso, che la fase di bassa crescita americana, per quanto delicata, non si trasformerà in recessione.

E c’è poi chi teorizza il cosiddetto decoupling, e cioè il graduale affrancamento dell’economia globale dal ruolo guida degli Usa. Secondo costoro, ci potrebbe anche essere una recessione negli Usa, senza però che Asia ed Europa se ne debbano troppo preoccupare.

Su quest’ultimo punto penso che un investitore debba essere in ogni caso scettico. E’ evidente che la straordinaria crescita dei paesi emergenti sta trasformando gli equilibri globali. Ma è altrettanto evidente che quando si parla di mercati, creature istintivamente poco amanti delle novità, sarà difficile che il ruolo guida di Wall Street sia messo tanto presto in discussione.

In particolare, la correlazione delle Borse europee a quella Usa è da molto tempo superiore al 90%. E trovo difficile immaginare che una recessione americana, con pesanti perdite a Wall Street, risulti, all’improvviso, indifferente o quasi agli indici da questa parte dell’Atlantico.

Il senso di questo lungo post è allora che, dal punto di vista di un investitore accorto, il tempo presente è non solo quello della circospezione ma dell’attiva cautela.

Il ciclo è in uno stadio avanzato. Le borse sono sopravvalutate. E i rischi di recessione negli Usa sono maggiori di quanto non venga riconosciuto dal consenso. In poche parole, il rally dei mercati appare scivoloso come una buccia di banana.

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