l'Investitore Accorto

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Archivi per il mese di “agosto, 2008”

Recessioni, bear market e castelli in aria

Di come funzionino l’economia e i mercati finanziari molto ci sfugge. Qualcosa, però, si sa, come ad esempio che seguono dei cicli. A un’espansione fa seguito una recessione e dopo un bull market viene un bear market, un po’ come al giorno segue la notte. La regolarità, s’intende, non è la stessa. Economie e mercati sono espressioni della socialità umana, fenomeni storici segnati da un’intrinseca imprevedibilità. D’altra parte, non sono neppure totalmente impenetrabili, irrazionali e caotici. Ci sono delle costanti, magari instabili, magari non precisamente misurabili, che comunque ci possono aiutare a orientarci. E tra queste, la ciclicità è una delle più evidenti.

Osserviamo, per fare un esempio, il grafico che segue, a cura della Federal Reserve Bank di San Francisco. Mostra l’andamento del Pil americano dal 1946 all’inizio del 2008. Le fasce in grigio indicano le recessioni.

Negli ultimi 62 anni si sono alternate 11 fasi espansive e 10 recessioni. Nell’economia in rapida crescita che ha caratterizzato l’ultimo paio di secoli di storia umana, le espansioni durano molto più a lungo delle recessioni. E infatti, dal 1946 a oggi, negli Usa, le prime si sono protratte in media per 57 mesi, le seconde solo per 10. Sommando, si ottiene la durata media del ciclo economico americano, che è stata di 67 mesi, ossia poco più di 5 anni e mezzo.

Si tratta, come accennavo, di un ciclo piuttosto irregolare. Le recessioni oscillano tra i 6 e i 16 mesi (la più breve fu quella del 1980, le più lunghe, alla pari, quelle del 1973-75 e del 1981-82). Mentre le espansioni hanno avuto una durata variabile tra i 2 anni (1958-1960) e i 10 anni (1991-2001).

Per prevedere una recessione, dunque, non basta guardare il calendario!

Un esperimento mentale

D’altra parte, avere un’idea del ciclo economico, pur con tutta la sua instabilità, e delle sue dimensioni medie ci può essere d’aiuto. Per capirlo, proviamo a fare un piccolo esperimento mentale.

Immaginiamo di trovarci al settimo anno di un’espansione che ha fatto seguito a una delle recessioni più brevi della storia (otto mesi), la quale a sua volta è venuta dopo un’altra fase di crescita addirittura decennale, la più lunga della storia (per lo meno dal dopoguerra a oggi).

Immaginiamo anche che questi 204 mesi (17 anni) di crescita inframmezzati da solo otto mesi di una scialba contrazione (ricordiamolo, il rapporto medio tra espansioni e recessioni è di 57 a 10, non di 204 a otto) siano stati il frutto non tanto di rivoluzioni tecnologiche e “miracoli” di produttività senza precedenti, ma, in misura prevalente, di un’economia drogata dall’eccessiva disponibilità di credito (e conseguente accumulazione di debito).

A questa lunga onda espansiva, va infatti aggiunto, si sono accompagnate la più grande bolla azionaria della storia, la più grande bolla immobiliare della storia, e infine la più grande bolla del credito della storia – tutti fenomeni che hanno fortemente squilibrato e indebolito l’economia oggetto del nostro esperimento mentale.

Immaginiamo, infine, che i prezzi del petrolio aumentino del 600%, superando a spron battuto quei livelli che in passato hanno invariabilmente provocato delle crisi economiche. E che contestualmente, una dopo l’altra, scoppino tutte le bolle, provocando una corsa a vendere asset, ridurre i debiti, contrarre il credito.

A questo punto, dopo 204 mesi di espansione, interrotti solo da una breve pausa di 8 mesi, gli indicatori di crescita volgono bruscamente al peggio, scendendo da tassi annui di crescita superiori al 4% fino in prossimità dello zero.

Siamo alla fine dell’esperimento. Voi, a questo punto, su quale esito scommettereste? Recessione, sì o no?

La conclusione, per ora, sono costretto a tirarla da solo. Io scommetterei decisamente sulla recessione, e mi viene da aggiungere che non vedo come una persona ragionevole potrebbe fare altrimenti. Nelle previsioni, ben inteso, la certezza non esiste. Ma in base al quadro che ho illustrato, le probabilità sembrano troppo sbilanciate a favore dell’esito negativo per non puntare lì le proprie fiches.

Le previsioni della Federal Reserve

Bene, come penso chiunque avrà capito, quella che ho proposto di immaginare è in realtà la situazione in cui versa – da un po’ di tempo – l’economia americana.

Il mondo dell’economia e della finanza pullula di persone ricche di talento. Qualcuno, immaginandolo, penserà: beh, certo non sarà sfuggito che l’economia Usa è già in recessione o sta per cadervi. I più esperti l’avranno capito e fatto capire da un pezzo.

Vediamo se è davvero così, facendo ritorno a poco più di un anno fa e prendendo le mosse dalla Federal Reserve, la banca centrale americana, che è un concentrato di competenze e materie grigie orchestrato dal presidente Ben Bernanke, uno degli economisti più bravi al mondo.

Nel maggio dell’anno scorso gran parte degli ingredienti che ho illustrato nel mio esperimento mentale si erano già in qualche misura manifestati. Il Pil, ad esempio, aveva registrato una fase di crescita particolarmente debole nel quarto trimestre del 2006. Il prezzo del petrolio non si era certo ancora moltiplicato di 7 volte da quei 20 dollari a barile che quotava alla fine dell’ultima recessione americana, nell’autunno del 2001, ma aveva sfiorato gli 80 dollari: pur sempre un’impennata del 300%. Il mercato della casa era già in brusca contrazione e la crisi dei mutui subprime era sotto gli occhi di tutti.

Io, nel mio piccolo, avevo allertato i miei lettori degli evidenti pericoli di crisi economica (non solo in America), di un crollo degli utili e di un pericoloso bear market azionario in tre post in rapida successione, che forse vale la pena rileggere: “Utili record e utili normalizzati”, “Analisi strategica del ciclo” e “La prima bolla davvero globale”.

In quello stesso maggio, a Chicago, Bernanke tenne un discorso interamente dedicato all’analisi dei problemi nel mercato dei mutui subprime.

Le conclusioni, in sostanza, erano le seguenti:
– non ci sono segni di spillover, ossia di ricadute negative, sulle banche. I gruppi creditizi coinvolti sono operatori marginali, “in gran parte” neppure coperti dall’agenzia federale che assicura i depositi.
– i fondamentali economici dovrebbero sostenere la domanda di case. La crescita dei posti di lavoro e dei redditi dovrebbe garantire la sostenibilità dell’esposizione debitoria delle famiglie. Pertanto, la situazione critica nel settore dei mutui subprime avrà effetti “limitati” sul mercato immobiliare. La stragrande maggioranza dei mutui continuano a performare “bene.”

Come oggi sappiamo, queste conclusioni non avrebbero potuto essere più fuorvianti e sbagliate.

In quel periodo, la Federal Reserve faceva riferimento a un quadro di stime macroeconomiche (reso pubblico a febbraio) che prevedeva una crescita del Pil del 2,5%-3,0% nel 2007 e del 2,75%-3,0% nel 2008, un tasso di disoccupazione stabile al 4,5% e un’inflazione poco sopra il 2% nel 2007 ma in calo l’anno successivo.

Seguire l’evoluzione di queste stime è istruttivo.

A luglio, nel tradizionale rapporto semestrale consegnato al Congresso, la Fed si fece un po’ più cauta nella sua previsione di crescita per l’anno corrente (2,25%-2,5%) ma conservò l’assunto che le cose sarebbero andate meglio nel 2008, quando il Pil sarebbe cresciuto del 2,5%-2,75% e l’inflazione sarebbe tornata sotto controllo.

In merito a quest’ultimo punto, la Fed notava in particolare come “alcuni dei fattori che hanno esercitato pressioni sui prezzi in anni recenti già hanno cominciato ad attenuarsi, o sembrano comunque in procinto di farlo. L’andamento dei prezzi dell’energia e delle altre materie prime, implicito nei contratti future, suggerisce che le pressioni sull’inflazione core da essi derivanti dovrebbero diminuire.”

Di conseguenza, conclusero allora diversi analisti di spicco, tra cui ad esempio quelli di Goldman Sachs, era ragionevole attendersi che i tassi a breve (i Fed funds) restassero invariati al 5,25% per un bel po’.

Giusto? No, patetico wishful thinking, verrebbe da commentare oggi, brandendo senza misericordia il nostro senno di poi. In realtà, la crescita stava per implodere, l’inflazione per esplodere e i tassi erano in procinto di essere tagliati, in rapida successione tra settembre e aprile, dal 5,25% al 2%.

Da lì in poi – novità introdotta da Bernanke – le stime macroeconomiche della Fed vennero rese pubbliche a cadenza trimestrale, anziché semestrale. Continuiamo a seguirle.

A novembre la banca centrale tagliò di nuovo la previsione di crescita per il 2008 all’1,8%-2,5%, citando il deterioramento dei mercati della casa e del credito come motivi di preoccupazione.

In un’audizione di fronte al Congresso, i cui contenuti furono in genere descritti dai media come “deprimenti” (gloomy), Bernanke, pur non eludendo un’analisi dei rischi, si disse comunque convinto che la crescita, per quanto rallentata, sarebbe rimasta positiva a cavallo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008. Dopodichè, aggiunse, “pensiamo che a partire dalla primavera (2008, ndr), a mano a mano che i problemi creditizi si risolvono e, come speriamo, il mercato della casa comincia a toccare il fondo […] l’economia si riprenderà.”

Sappiamo ora che nel corso dell’ultimo trimestre del 2007 la crescita del Pil americano fu negativa (-0,2%). A marzo di quest’anno, poi, la Fed era alle prese col salvataggio di Bear Stearns e dopo di allora i problemi non si sono affatto risolti, anzi. A luglio c’è stato il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac e giusto ieri JP Morgan ha annunciato nuove perdite citando un marcato peggioramento degli spread e delle condizioni del mercato del credito nell’ultimo mese (novità che non avrebbe dovuto sorprendere chi, ad esempio, ha seguito la recente impennata nelle quotazioni dei credit default swaps, strumenti derivati utilizzati per assicurarsi contro i rischi di insolvenza).

E’ inoltre facile osservare che il mercato della casa non ha per ora dato alcun cenno di voler toccare il fondo (ne riparlerò più avanti) e che gli indicatori di crescita, dopo un effimero rimbalzo nel secondo trimestre dell’anno, dovuto ai 170 miliardi di dollari di incentivi fiscali approvati in fretta e furia dal Congresso e dalla Casa Bianca all’inizio dell’anno, sono tornati negli ultimi tempi a volgere al peggio (anche di questo parlerò più diffusamente nel seguito di questo post).

A posteriori, gli annunci novembrini di Bernanke, per quanto etichettati allora come “deprimenti”, appaiono contrassegnati da un irrealistico ottimismo.

A febbraio, col nuovo aggiornamento trimestrale delle previsioni macro, la Fed riduceva la stima del Pil per il 2008 all’1,3%-2,0%. E un ennesimo, più drastico taglio è stato annunciato a maggio, questa volta a una forchetta dello 0,3%-1,2%. Vedremo, tra pochi giorni, quali sorprese ci riserveranno le stime di agosto.

Gestione dei rischi, statistiche e lampioni

Un osservatore disincantato, a questo punto, potrebbe intravedere nella storia che ho ricostruito un filo rosso di continuità.

Esclusa la sistematica imperizia, verrebbe naturale supporre una tecnica di gestione dei rischi (penso a rischi di feedback negativi e di reputazione) così strutturata: di fronte all’elevata probabilità di un accadimento sgradevole e potenzialmente traumatico e destabilizzante, negare finché è possibile farlo senza distruggere la propria credibilità, ammettere quello che non può più essere negato, ma prestando bene attenzione a condire ogni annuncio negativo con delle rassicurazioni positive di prevalente portata (ad esempio, “stiamo attraversando un trimestre, al massimo due, di congiuntura bassa, ma già si vede la svolta e l’anno prossimo le cose andranno progressivamente sempre meglio”).

Forse, in questo approccio, ci sono diverse cose da salvare. Ma non dal punto di vista dell’investitore, il cui interesse non è quello di coltivare illusioni, ma di interpretare lucidamente la realtà.

In una seconda parte di questo post cercherò di illustrare altri esempi di “castelli in aria”, costruiti un po’ dovunque, in America come qui in Italia, da esponenti di diverse categorie (fonti di insidie costanti per un investitore) tra le quali alberga spesso l’interesse a negare, per quanto possibile, finché possibile, l’approssimarsi o l’instaurarsi di una recessione: analisti finanziari, esponenti di governo, amministratori di aziende quotate, giornalisti di media vicini alle istituzioni.

Cercherò anche di mostrare come alcune apparenti “contraddizioni” e ambiguità statistiche che, in qualche misura, continuano a velare l’evidenza di una recessione che dall’America si sta ormai estendendo all’Europa siano facilmente decrittabili, solo che lo si voglia.

Purtroppo, tale lavoro interpretativo è attivamente ostacolato da un fenomeno che già aveva scatenato l’arguzia di uno straordinario osservatore delle vicende umane. Diceva Mark Twain: “La gente di solito usa le statistiche come un ubriaco i lampioni: più per sostegno che per illuminazione”. Certa gente, mi permetto di aggiungere, in modo particolare.

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Mercati azionari, un rimbalzo senza qualità

Dai minimi di metà luglio i mercati azionari hanno in genere recuperato poco più di un terzo di quanto avevano ceduto nell’ondata ribassista che li aveva travolti nei due mesi precedenti. Il rimbalzo, partito con la ferocia tipica di uno short covering rally, ha poi perso d’intensità per il permanere di forti dubbi sulle prospettive dei settori immobiliare e del credito e, più nel complesso, di una congiuntura globale in progressivo deterioramento. Anche se, negli ultimi giorni, una nuova spinta rialzista è venuta dalla precipitosa caduta dei prezzi del petrolio e delle materie prime in genere.

Come cercherò di mostrare in altri post nei prossimi giorni, la mia percezione è che i fondamentali, nelle ultime settimane, siano peggiorati e che una certa parte degli analisti e degli operatori di mercato continui a coltivare pericolose illusioni. Il peggio non è passato, né nel settore immobiliare né in quello del credito. Mentre la crisi, partita dagli Usa, ha finito per globalizzarsi investendo in pieno l’Europa senza risparmiare l’Asia.

Se qualche mese fa la Federal Reserve era ancora in grado di promettere una graduale ripresa del ciclo americano a partire dalla seconda metà dell’anno, ora la sensazione sgradevole che si fa strada è che invece anche l’ultimo puntello dell’economia Usa – l’export – stia perdendo colpi via via che la congiuntura internazionale si appanna e si allunga la lista dei paesi sull’orlo della recessione: oltre agli Usa, la Gran Bretagna, la Spagna, l’Italia, la Germania, la Francia, il Giappone, il Canada…vale a dire, tutte le principali economie avanzate.

Qui, però, vorrei tralasciare l’analisi dei fondamentali e limitarmi a dare uno sguardo alla qualità, dal punto di vista tecnico, del rimbalzo delle Borse dai minimi di luglio. Come ho già fatto in passato, vorrei citare uno dei miei analisti preferiti, Brett Steenbarger (nella foto in alto), e il suo splendido blog TraderFeed.

In un post pubblicato ieri, Steenbarger osserva come i nuovi massimi fatti segnare da alcuni indici, come l’S&P 500, il Nasdaq e il Nasdaq 100, non si siano accompagnati a un’espansione del numero di titoli che – nei vari mercati americani (New York Stock Exchange, Nasdaq, American Stock Exchange) – hanno registrato nuovi massimi (New High) negli ultimi 20 giorni.

Quello che segue è il grafico che mette a confronto l’andamento dell’S&P500 con i New High. Come si nota, il numero (in blu) è in costante calo.

Inoltre, quando ieri gli indici Usa si sono spinti oltre i precedenti picchi della settimana precedente, a partecipare al rally sono stati solo alcuni comparti, mentre si è fatta notare l’assenza dei due settori che nell’ultimo anno hanno trainato al ribasso i mercati, e cioè finanziari e immobiliari.

La conclusione che ne ricava Steenbarger è che, sinora, il rimbalzo dai minimi di luglio non è convincente. Sia a livello di settori che di titoli, la partecipazione al rialzo è selettiva e, nel complesso, troppo angusta per ispirare fiducia.

In altri termini, quando muove al rialzo il mercato, in queste ultime settimane, si comporta come un esercito dove la truppa è riluttante a seguire i generali. Si tratta di una condizione che avevo già messo in evidenza in un post a metà maggio, e che allora, assieme a diverse altre considerazioni, mi aveva portato a concludere così:

“Il rally dai minimi di marzo, per quanto apparentemente vivace nell’andamento di prezzo degli indici, è stato in verità asfittico e fragile. Non è di questa pasta che sono fatte le fasi iniziali di un nuovo bull market, che sono invece cariche di energia repressa […] La situazione può cambiare. La mia analisi è senz’altro fallibile e incompleta. Ma, al momento, sarei molto sorpreso di vedere il rally continuare ancora per molto. Più probabile, mi pare, è che prima o poi si torni ai minimi di marzo per spingersi, magari, anche oltre.”

Si tratta di conclusioni che allora si sono rivelate corrette (le Borse fecero dietrofront esattamente una settimana più tardi) e che mi sento di confermare, più o meno immutate (la sola differenza, direi, è che il rally dai minimi di luglio è stato meno vivace di quello dai minimi di marzo) anche oggi.

Il Dow guadagna 300 punti? E’ un brutto segno

Spero che nessuno si sia troppo esaltato per il rialzo del 3% messo a segno l’altro giorno dagli indici azionari di casa nostra. Che fosse un brutto segno, l’ho pensato subito. Ma non sapevo come dirlo. Poi, grazie al blog The Big Picture di Barry Ritholtz, ho risolto il problema. Ritholtz cita infatti un’analisi di David Rosenberg, North American economist di Merrill Lynch, da cui risulta che queste spiritate fughe in avanti accadono solo in un bear market, ossia in un mercato ribassista.

Il rialzo del 3% della Borsa di Milano è coinciso, a Wall Street, con un rally di 331 punti, pari al 2,9%, dell’indice Dow Jones Industrial.

Ma di rialzi di 300 punti o più del Dow Jones in una sola seduta, nella storia dei mercati americani, c’è traccia solo negli ultimi due bear market, l’attuale e quello del 2000-2002.

Per l’esattezza, quello dell’altro ieri è stato il sesto rally di oltre 300 punti dall’avvio del ciclo ribassista iniziato l’ottobre scorso (un settimo rally da 336 punti si configura come un caso borderline, giacché ha avuto luogo il 18 settembre, subito prima che il mercato cambiasse direzione). Mentre nel 2000-2002, quando il Dow perse complessivamente il 38% del suo valore, i rialzi di questa entità furono addirittura 12 (per i dettagli, vedi la tabella alla fine).

Nel lungo bull market durato dall’autunno del 2002 all’autunno del 2007 di rally da 300 punti non c’è traccia. Il motivo è che movimenti così esagerati, nell’arco di una sola seduta, sono espressione di quella elevata volatilità che è una caratteristica tipica dei mercati ribassisti.

La stessa lezione può essere estesa al rally dei titoli bancari, che a Wall Street hanno recuperato il 30% circa da metà luglio, quando il Tesoro americano e la Fed sono intervenuti a sostegno di Fannie Mae e Freddie Mac, i due giganti malati del credito fondiario.

Rosenberg osserva come nel 2000-2002, quando nell’occhio del ciclone c’erano i titoli tecnologici, l’indice Nasdaq arrivò a perdere quasi l’80% del suo valore dopo aver percorso ben tre fasi di concitati rialzi superiori al 30%.

Insomma, i bear market rally possono anche impressionare – e far male a chi specula troppo incautamente al ribasso. Ma sono fuochi di paglia.

 

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