l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

Archivi per il mese di “giugno, 2007”

Asset allocation: una fugace premessa

Ho deciso di scrivere di asset allocation da quando, oltre una settimana fa, nel mettere assieme il mio post Investor education, l’Italia a confronto, sono incappato nella ricerca di Borsa Italiana su Investitori retail e Borsa. Una parte che allora non ho citato riguarda la diversificazione (o meglio, la mancanza di diversificazione) nei portafogli degli italiani.

Dice il rapporto:

“Complessivamente, il 19,7% delle famiglie (italiane, ndr) nel corso del triennio 2001-2003 ha detenuto, acquistato o venduto strumenti azionari.”[…]

“Più della metà degli intervistati si ritiene a vario titolo un investitore ‘conservatore’”.[…]

“La detenzione diretta di azioni, in gran parte domestiche, assorbe circa un quarto della ricchezza finanziaria complessiva” (considerando anche l’investimento azionario indiretto attraverso fondi la detenzione di equity raggiunge il 31,7%, e risulta la seconda asset class per peso relativo in portafoglio dopo la liquidità). […]

“I dati di dettaglio rivelano come tale quota sia raggiunta investendo in un numero ridotto di titoli, attraverso portafogli molto concentrati. Il 93,5% degli investitori in azioni italiane possiede meno di 5 titoli, e 3 su 4 circa ne possiedono al massimo due.” (Queste azioni sono per l’84,1% Blue Chip, per il 7,2% mid & small caps, e per l’8,7% azioni dell’ex-Nuovo Mercato, una percentuale che pur essendo scesa di molto rispetto al 2001, resta nettamente sopra la sua quota di capitalizzazione complessiva, pari all’1,7%).

Purtroppo, e in una parola, si tratta di una gestione dei portafogli dissennata: troppo concentrati, troppo italiani, troppo sovrappesati sulle rischiosissime micro-cap dell’ex-Nuovo mercato.

E c’è pure una metà e passa del campione che si considera un investitore “conservatore”. Per certi versi conservatori lo sono sin troppo, nel senso che la preferenza per la liquidità è in genere eccessiva. Ma per la parte di investimento azionario, è evidente che molti non hanno ideadei rischi che corrono.

C’è dunque un bisogno enorme di parlare di asset allocation, di capire cos’è, a cosa serve, e come si fa.

Il libro migliore che io abbia letto a questo proposito è The Intelligent Asset Allocator di William Bernstein, un lavoro di grande valore divulgativo e giustamente famoso negli Usa, ma, temo, sconosciuto o quasi da noi.

Pubblicato 6 anni fa, non è mai stato tradotto in italiano. Ed è anche assente, per quel che ho potuto verificare, dai cataloghi di editori italiani che vendono opere in lingua inglese. E’ disponibile, su CDbox.it, la versione CD del libro, ma a un prezzo che sconsiglio. Molto meglio approfittare del dollaro debole e della ben più economica offerta di Amazon.com.

Ritornerò dunque quanto prima al libro di Bernstein per riflettere sulle sue lezioni più importanti e capire come si può diventare un “allocatore intelligente”.

P.S.:  Clicca qui per leggere l’articolo in cui ho poi approfondito la questione.

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TFR o previdenza integrativa?

Per 11 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato siamo alla stretta finale: entro la fine del mese devono decidere cosa fare del TFR, se mantenerlo in azienda o destinarlo alla previdenza integrativa. Siccome tutti ne parlano, io non lo farò. O, almeno, non lo farò con la cura e il dettaglio che l’argomento merita. Voglio soltanto segnalare tre utili e sintetiche letture, tra loro complementari: TFR e fondi pensione di Riccardo Cesari, Il gioco delle pensioni: rien ne va plus? di Giuliano Amato e Mauro Marè, e La pensione tradita di Beppe Scienza.

Il libro di Cesari spiega bene l’evoluzione del sistema pensionistico italiano, la genesi e le finalità del nuovo pilastro della previdenza complementare, il funzionamento di un fondo pensione e come dovrebbe essere gestito (e valutato nella sua performance) dal punto di vista finanziario.

Amato e Marè ragionano sulla previdenza complementare ponendo l’accento sui problemi di sostenibilità di lungo periodo del nostro sistema pensionistico in un’analisi ricca di confronti internazionali.

Scienza, infine, prende posizione, senza mezzi termini, a favore del mantenimento, per ora, del TFR in azienda, denunciando le inefficienze del nostro sistema dei fondi (fondi comuni e fondi pensione).

Dai tre libri vorrei trarre solo dei brevi assaggi, giusto per invogliare a leggerli.

Scrive nelle conclusioni Riccardo Cesari: “Le riforme del 1995 e del 2005 hanno avviato in Italia un’opera di correzione degli squilibri precedenti, rendendo più articolato e flessibile l’intero sistema previdenziale. Pilastro centrale del nuovo sistema sono i fondi pensione, uno strumento che può rivelarsi, per chi lo saprà sfruttare, un’adeguata contropartita al taglio delle prestazioni pubbliche.”

Vero in teoria, ma in pratica? Un limite del libro di Cesari, mi pare, è che opera confronti quantitativi sulla base di scenari ipotetici, prendendo come riferimento i rendimenti di mercato. Questo è utile a dimostrare la fondatezza teorica delle scelte che anche in Italia, come in molti altri paesi, si sta cercando di fare. E’ necessario al fine di illustrare le opportunità implicite in un nuovo modo di organizzare il sistema previdenziale. Ma poi, in pratica, nell’esperienza italiana, i rendimenti di mercato sono quelli effettivamente ottenuti dai fondi?

Beppe Scienza ci dice di no, facendo ricorso alle meticolose analisi del centro studi di Mediobanca, che ogni anno fa le pulci all’industria italiana del risparmio gestito.

Osserva Scienza: a gestire la previdenza integrativa saranno in sostanza gli stessi soggetti che già da 20 anni danno prova di sé con i fondi comuni. Con quali risultati? Dati di Mediobanca alla mano, Scienza dimostra che per ogni orizzonte temporale (5, 10, 15, 20 anni) fondi comuni e sicav italiani hanno reso meno dei Bot.

Una prima conclusione, legittima, è la seguente: “Ora c’è il rischio che la storia si ripeta: come i fondi comuni hanno fatto peggio dei Bot, così non stupirebbe che i fondi pensione facciano peggio del TFR.”

Ma c’è dell’altro. Nelle varie categorie (obbligazionari, azionari, azionari specializzati, etc.) i fondi italiani hanno in genere la sconsolante caratteristica di offrire rendimenti medi che sono inferiori al benchmark per una percentuale superiore ai costi (o, almeno, ai costi dichiarati).

Nota di nuovo Scienza: “uno scimmione che avesse scelto i titoli a casaccio avrebbe ottenuto risultati allineati a quelli di mercato, ossia un minus di gestione limitato alle commissioni dichiarate. E’ infatti ormai assodato che scegliendo con criteri casuali si ottengono alla lunga performance pari a quelle medie del settore.”

Come mai i fondi italiani fanno mediamente peggio delloscimmione che investe a casaccio? La risposta di Scienza è che purtroppo non si sa.

Non si può – e probabilmente non si potrà mai – appurare se i minus di gestione sono provocati da gestori incapaci o ladri o da chissà cos’altro. Il livello di trasparenza dei fondi comuni d’investimento italiani è infatti vicino allo zero. Ma se la cosa può consolare, quello dei fondi pensione si prospetta ancora inferiore.”

Il problema, per ciascuno di noi, comunque resta. La pensione pubblica sarà in futuro inadeguata a garantire una vecchiaia decorosa. E il TFR offre sì rendimenti sicuri, ma bassi, di poco superiori al tasso d’inflazione e dunque insufficienti ad accumulare nel tempo una rendita soddisfacente.

I mercati finanziari, se correttamente sfruttati, possono offrire di più. Ci vuole una migliore educazione finanziaria degli individui e delle famiglie e un sistema di gestori professionali più aperto, competitivo, trasparente.

Lo dicono con chiarezza Amato e Marè nelle conclusioni del loro libro: “Lo sviluppo di un vero mercato richiede che sia realizzata una genuina equiparazione delle diverse forme di previdenza complementare; che esse siano messe su un piano omogeneo di regole e di vincoli, così da permettere l’affermarsi di una vera concorrenza tra di esse.”

Purtroppo, come ho già scritto nel post Fondi chiusi e spirito dell’illuminismo, citando un bell’articolo di Andrea Moro, le scelte del legislatore italiano, condizionate dagli interessi delle parti sociali a scapito di quelli dei lavoratori, sono state a tal fine troppo timide e pasticciate.

Malauguratamente, non c’è più tempo per mezze riforme o per riforme mancate.

Come ci ricordano sempre Amato e Marè, “il gioco delle pensioni si avvicina al punto di non ritorno. L’invecchiamento della popolazione e l’approssimarsi della generazione del baby boom riducono la soglia di intervento, il margine per possibili riforme, ci avvicinano al punto della ‘fine della riforma’. L’innalzarsi dell’età dell’elettore mediano può avere come effetto quello che nessun governo possa avere in futuro, per molti anni, il capitale politico per introdurre misure di riequilibrio del sistema pensionistico e soprattutto per ripartire in maniera più equa tra le generazioni il costo dell’offerta delle prestazioni.”

“Perciò, ci stiamo avvicinando al rien ne va plus del gioco delle pensioni ed è opportuno fare scelte sagge e responsabili.”

Il mercato delle idee: liquidità, hedge fund e la Fed

Gli articoli raccolti nel mercato delle idee prendono questa volta in esame le cause e le possibili conseguenze del crollo dei due hedge fund gestiti da Bear Stearns; l’irrigidimento degli standard creditizi negli Usa; l’evoluzione della congiuntura economica; la salute del mercato Usa del lavoro e le prossime mosse della Fed; la correlazione tra i mercati azionari e i nessi tra globalizzazione e inflazione.

Nouriel Roubini, nel suo blog, riflette sul crollo di due fondi hedge di Bear Stearns, travolti dall’aggravarsi della crisi del mercato immobiliare Usa. I fondi investivano in CDO, strumenti poco liquidi, poco trasparenti e, come ora si comincia a capire, molto rischiosi a dispetto di rating irrealisticamente elevati. Il continuo approfondirsi della recessione nel mercato della casa, il rialzo dei tassi dei mutui ipotecari, il processo di riesame del merito di credito dei CDO, che oramai è in corso, e il riverberarsi delle pesanti perdite dei due hedge fund di Bear Stearns sul resto dell’industria dei fondi hedge e sui broker primari che prestano loro liquidità costituiscono un cocktail molto pericoloso. Per Roubini i rischi di contagio sono evidenti, e paragonabili a quelli innescati dal crollo del fondo LTCM nel 1998.

Barry Ritholtz, nel suo blog The Big Picture, riporta molti e interessanti dettagli sui motivi che hanno causato il collasso dei due hedge fund di Bear Stearns, e sulle possibili conseguenze. Si scopre tra l’altro che i fondi operavano con una leva di 20:1. L’asta per gli asset messi ora in liquidazione rivelerà il loro vero valore di mercato. E, di conseguenza, il valore di asset simili detenuti da tanti altri investitori nell’oscuro mercato dei CDO. Per alcuni di questi potrebbero essere dolori.

La crisi del mercato Usa dei mutui subprime sta inducendo un complessivo irrigidimento degli standard applicati all’offerta di credito, con ripercussioni che vanno ben oltre il settore immobiliare. Le vendite di case sono in caduta verticale, ma quel che più preoccupa Paul Kasriel di Northern Trust è l’impatto sull’offerta complessiva di liquidità negli Usa . Il tasso di crescita del credito totale, corretto per l’inflazione, è sceso dal 9% dell’ottobre scorso al 4,6% di maggio.

Il Superindice Usa resta debole e potrebbe calare di nuovo a giugno, come segnala Asha Bangalore di Northern Trust. Si noti che, a parte il falso segnale del 1966/1967, il LEI (Leading Economic Indicator) ha sempre correttamente anticipato le recessioni dell’ultimo mezzo secolo.

Ottimo sommario, in un articolo di Wolfgang Munchau per Eurointelligence, sul problema dell’eccessiva liquidità, che ha finito per gonfiare le valutazioni di un po’ tutti i mercati finanziari. Qual è la causa? Le politiche monetarie in America ed Europa, o l’accumulazione di riserve in Asia, che è il risultato di politiche di cambio supercompetitive? Probabilmente la seconda, nel qual caso la stretta della Federal Reserve e i rialzi della BCE potrebbero risultare ininfluenti. C’è il rischio che gli squilibri continuino a montare, e che le bolle sui mercati finanziari si gonfino ancora. Alla fine i danni saranno maggiori, anche se per gli investitori resta molto problematico capire quanto vicina, o quanto lontana, possa essere questa resa dei conti.

Paul McCulley, managing director di PIMCO, riflette con la consueta brillantezza sull’andamento del ciclo in America e le prossime mosse della Fed. I dati sull’occupazione, argomenta McCulley, probabilmente sovrastimano lo stato di salute del mercato del lavoro, com’è tipico nelle fasi avanzate del ciclo. C’è il rischio che la Fed, interpretando alla lettera le risultanze di un indicatore che si muove comunque in ritardo rispetto al ciclo, finisca per sottovalutare le difficoltà dell’economia Usa, rendendo inevitabile, con la sua inazione, una recessione. La strategia di PIMCO resta centrata su attese di debolezza ciclica e tassi a breve in calo.

Il sentiment index di Investor’s Intelligence evidenzia livelli molto bassi di pessimismo (i più bassi da 3 anni) tra gli autori di newsletter d’investimento americane. Il differenziale tra la percentuale di bulls e bears, e cioè tra ottimisti e pessimisti, è pure molto elevato. E siccome l’indice funziona come un buon indicatore contrario, si tratta di un segnale che dovrebbe suggerire cautela.

Quanto correlati sono i mercati azionari tra di loro? In genere abbastanza, risponde il blog Ticker Sense di Birinyi Associates. I mercati che si muovono più all’unisono con quelli Usa sono i mercati latinoamericani e, a seguire, quelli europei. I meno correlati restano i mercati asiatici e quello australiano. Le correlazioni sono aumentate nell’ultimo anno: una brutta notizia per quanti cercano di ridurre il rischio con la diversificazione dei portafogli.

Eric Chaney di Morgan Stanley pubblica un’interessante analisi sui rapporti tra globalizzazione e inflazione. Il raddoppio della forza lavoro globale, quella cioè operante in contesti economici aperti al commercio internazionale, sta esercitando una poderosa pressione al ribasso sui salari nominali. E l’apertura delle frontiere nazionali al libero scambio migliora la produttività aggregata. Dai tempi della caduta del muro di Berlino, l’una e l’altra sono cause di un processo deflazionistico che per Chaney non ha ancora compiuto il suo corso. Ma i rischi d’inflazione sono in agguato, in primo luogo per l’aumentato pericolo di reazioni protezionistiche ai processi di globalizzazione.

 

Blog e fondamenti del giornalismo

L’investitore accorto è un blog ossia un semplice bloc-notes, dove appunto in modo occasionale delle riflessioni sull’arte d’investire e dei pensieri laterali, ossia libere associazioni in qualche modo originate dai miei interessi professionali. Non è dunque un giornale. Ma si tratta comunque del divertimento, del passatempo, del giocattolo di un giornalista (il bloc-notes, per un giornalista, è anche un luogo ludico dove intrattenersi con parole e storie). E siccome i panni del giornalista mi piace indossarli e mi attardo a volte a osservarli mentre li porto o mentre altri li portano, mi ha fatto piacere scoprire ieri, un po’ per caso durante una visita in libreria, un bel libro su I fondamenti del giornalismo, di Bill Kovach e Tom Rosenstiel.

Il lavoro è stato pubblicato negli Usa nel 2001, ma mi era sfuggito. Fortunatamente, un piccolo editore torinese, Lindau, specializzato in testi di saggistica cinematografica, spiritualità, discipline orientali, esoterismo e sciamanesimo (e ora anche giornalismo…sui nessi ci si potrebbe sbizzarrire) ne ha da poco curato l’edizione italiana.

Ho cominciato a sfogliarlo e mi sembra un’opera notevole, frutto di un progetto ambizioso.

Sul finire degli anni ’90 un gruppo di professionisti americani dell’informazione cominciò a riunirsi all’Harvard Faculty Group, motivato da una preoccupazione: “l’informazione stava diventando intrattenimento e l’intrattenimento informazione.” E questa commistione stava fagocitando il giornalismo per sostituirlo con qualcosa di diverso, che “non si capiva bene se fosse pubblicità, intrattenimento, e-commerce, propaganda o cos’altro.”

Per due anni il gruppo, rinominatosi Committee of Concerned Journalists (Comitato dei giornalisti preoccupati), fece decine di assemblee pubbliche, incontrando migliaia di persone e centinaia di professionisti dell’informazione, realizzò sondaggi e ricerche col supporto di centri universitari, lanciò un Project for Excellence in Journalism che curò decine di studi sull’informazione in America, e alla fine partorì il nostro libro.

I nove principi fondamentali del giornalismo

L’opera contiene un’analisi dei principi che il processo di ricerca aveva individuato come i fondamenti del giornalismo, tanto dal punto di vista dei professionisti dell’informazione che dei suoi fruitori finali, e cioè i cittadini.

Si tratta di nove principi, i seguenti:

1. Il primo obbligo del giornalismo è nei confronti della verità.
2. La sua prima lealtà è verso i cittadini.
3.
La sua essenza è la regola della verifica.
4. Chi lo pratica deve mantenere l’indipendenza dai soggetti trattati.
5.
Deve fungere da osservatore indipendente del potere.
6.
Deve fornire un forum per le critiche del pubblico e l’intermediazione.
7. Deve aspirare a rendere interessante e rilevante ciò che è significativo.
8.
Deve fornire informazioni complete e proporzionate.
9.
Chi lo pratica deve poterlo fare secondo la propria coscienza.

Elencati così, in estrema sintesi, i principi offrono ampia materia di discussione. E infatti il libro, dopo averli enunciati, dedica 280 pagine a illustrarli e discuterli. Sono pagine che leggerò con cura. Ma, di primo acchito, sono nove fondamenti che mi piacciono, che condivido.

E che mi hanno spinto a chiedermi: come si misura il mio blog con questi principi?

Il mio blog e i fondamenti del giornalismo

L’investitore accorto ha visto la luce da poche settimane. E’ un divertimento allo stato nascente e dall’identità ancora confusa (sia perché, appunto, è allo stato larvale, sia perché una certa confusione creativa è sempre tipica dei bloc-notes). Ma metterlo a confronto con i nove principi mi pare comunque utile. E, in fondo, non posso farne a meno. Non riesco a scrivere senza sentirmi addosso i panni del giornalista. Ecco, allora, alcune iniziali riflessioni.

Verità e lealtà. Il blog è nato da uno sforzo di verità e lealtà nei miei confronti. Risponde a uno sforzo di chiarificazione personale. E questo per un fine di utilità. Superare confusioni, ignoranza, inganni e autoinganni è essenziale per investire con successo. Quella verità e lealtà che devo a me stesso, se voglio imparare a investire bene, le offro anche agli altri. Questo mio bloc-notes è pubblico, è un blog proprio per questo: penso che il mio sforzo possa essere utile anche ad altri e si possa arricchire se da altri viene condiviso.

Le mie intenzioni sono dunque ispirate da un desiderio di verità e lealtà. Anche se sono consapevole che quando uno sforzo diventa pubblico nascono altre ambizioni, come quella di essere riconosciuti, di essere apprezzati, di avere successo. Ma non voglio che questa sfera di sentimenti finisca per prevalere sulla prima. Vigilerò. So bene che il bravo investitore va per la sua strada, non si fa dominare dall’impulso di appartenere alla folla. E la mia strada, in questo blog, è appunto quella di imparare a essere un bravo investitore, di fare investor education in primo luogo rivolta a me.

Verifica. E’ un obiettivo ambizioso, faticoso, perché le verifiche non sono mai finite. E qualsiasi cosa ci arrischiamo a dire o a scrivere, soprattutto su temi complessi come è anche il soggetto di questo blog, corre sempre il rischio di essere smentita. Però penso che il mio sforzo vada in questo senso.

Cerco i grandi maestri, mi ispiro a loro, e li metto a confronto. Se ci sono aporie e difficoltà, magari soltanto nella mia comprensione, le espongo. Mi sforzo di documentare, arricchisco i miei testi di link. Un blog, in questo senso, aiuta perché si muove nell’universo ricco e interattivo di Internet, dove è naturale intessere incontri e confronti, realizzare verifiche. Gli algoritmi di Google, a tal fine, sono un grande passo avanti per ciascuno di noi.

Indipendenza dai soggetti trattati e dal potere. Sul primo punto ho da farmi degli appunti e capisco ora di dover essere più accorto. Ci sono dei grandi investitori che apprezzo più di altri, e nei confronti dei quali rischio di “appassionarmi” troppo. Sarebbe un errore. Un certo distacco e uno sguardo critico va conservato anche verso di loro.

Quanto all’indipendenza dal potere, mi sento più ferrato. Il potere, nel campo degli investimenti, sono in primo luogo le grandi banche, i grandi broker che hanno prodotti e servizi da vendere. E per vendere prodotti e servizi, finiscono per vendere “storie d’investimento” (raccomandazioni, analisi, etc etc). E’ un fiume di parole che travolge, che inonda i media finanziari e da lì si riversa nelle menti degli investitori, grandi e piccoli – ma soprattutto piccoli (e, spesso, sprovveduti).

Si tratta, spesso, di marketing con un valore di conoscenza periferico, e a volte inesistente. Ho visto troppi rating di “Buy” emessi entusiasticamente da grandi banche d’investimento nell’imminenza di importanti offerte pubbliche o sottoscrizioni di azioni, di cui le stesse banche erano lead manager, per non sapere che da queste raccomandazioni bisogna guardarsi.

Non mancano gli spunti utili, le informazioni interessanti, le analisi perspicaci, ma il grano e l’oglio (del conflitto d’interessi in cui le banche sono avviluppate) restano spesso confusi. Delle conclusioni di queste analisi è giusto dunque essere scettici. E infatti, nella scelta dei link per il mio blog, ho escluso in partenza i siti della ricerca sell-side delle banche d’investimento.

Ci sono, ovviamente, delle eccezioni. Due, in particolare, vorrei citarle subito: il gruppo di analisti che fa capo a Stephen Roach a Morgan Stanley e quello che fa capo a James Montier a Dresdner Kleinwort . I loro studi sono spesso controcorrente e sempre stimolanti.

Forum e intermediazione. I nuovi media nascono strutturalmente predisposti per questo: l’interattività. E il mio blog non vuole essere diverso. Sono convinto del valore del confronto con gli altri e non mi sfuggono (almeno non del tutto) le potenzialità della Rete. Sono però anche consapevole che nell’esaltare il carattere aperto delle nuove forme di comunicazione online si nasconde una possibile trappola.

Il webmaster o l’autore di blog è padrone dei suoi spazi. E ha gli strumenti, se vuole, per censurare il pubblico dibattito che in quegli spazi si svolge. Il sottile inganno dei nuovi media può essere allora quello di veicolare un’impressione di libertà che non corrisponda alla realtà. Una via d’uscita, come vedo fare in diversi blog di qualità, è dichiarare esplicitamente quali sono le regole che l’autore si impegna a far rispettare negli spazi di dibattito e commento del suo blog. E attenervisi, pena il pubblico discredito.

Rendere interessante e rilevante ciò che è significativo. E’ questo un altro punto delicato, di cui voglio leggere con cura la trattazione ne I fondamenti del giornalismo. Dedicare ampio spazio a questioni insignificanti può anche essere stata, fino a oggi, una via per conquistare facili ascolti. Ma il prezzo, alla lunga, è elevato, e sospetto che lo sarà sempre di più nella nostra era digitale.

Se Marshall McLuhan teorizzava, riferendosi alla vecchia televisione analogica, che “il mezzo è il messaggio”, oggi è forse possibile spingersi a pensare il contrario, e cioè che la prevalenza dei contenuti, almeno in prospettiva, diventa tale da far sì che “il messaggio è il mezzo”: messaggi poco significativi condannano anche il mezzo all’insignificanza, e sviliscono il lavoro dei giornalisti. Mentre un messaggio significativo ha la forza di imporsi da sé, senza sottostare alla dittatura del mezzo.

Rendere interessante e rilevante” ciò che è “significativo” resta comunque, anche nell’era digitale, non facile. Ci vuole cultura. Bisogna essere in grado di valutare cosa possa essere “significativo” (siamo nel campo del possibile, non del certo ed evidente) e cosa non lo sia. Siccome abbiamo la tendenza a ritenere importante quel poco che sappiamo, è facile cadere vittima di una sorta di “cortocircuito dell’anti-cultura”: quello che so è significativo, quello che non so è irrilevante. Essere consapevoli di questo rischio è un bel passo avanti. Ci sollecita a rimanere aperti e critici.

Per il resto, rendere interessante e rilevante ciò che può essere nuovo, complesso, sorprendente, in conflitto con l’opinione dominante, è una enorme fatica. Dei nove punti, lo confesso, è questo quello che mi mette più in difficoltà.

Informazioni complete e proporzionate. Per certi aspetti, siamo qui in presenza di una applicazione del principio di verità, e anche di quello di verifica. Per capire qualcosa abbiamo bisogno di stabilire relazioni e proporzioni, di confrontare punti di vista ben compresi e fedelmente riportati. E’ uno sforzo complesso, in cui è essenziale dare il meglio di sè anche se il risultato sarà sempre incompleto (un giornalista potrebbe lavorare tutta la vita nel tentativo di dare una sola notizia o scrivere un solo commento).

Per me vale quanto ho già scritto a proposito di verità e lealtà. Il mio impegno, in questo blog, è capire ed educarmi. E mi rendo conto che completezza e proporzionalità sono funzionali al mio scopo.

Secondo coscienza. Il blog offre a questo proposito una straordinaria opportunità. Sono l’editore di me stesso. Se ho una coscienza (e ce l’ho) questo è un luogo privilegiato dove coltivarla e farla crescere.

Investor education, l’Italia a confronto

Investire non è un’attività semplice e istintiva, come può essere giocare al “gratta e vinci” o partecipare alla lotteria di Capodanno. Si tratta invece di un’occupazione complessa, che richiede cultura e carattere, ossia, in una parola, formazione. Non sto dicendo nulla di nuovo. L’importanza della formazione degli investitori (investor education) per il buon sviluppo dei mercati finanziari è stata riconosciuta da tempo in tutto il mondo civile. E sono in tanti quelli che se ne occupano, ai più alti livelli. Vorrei allora proporre una mia parzialissima rassegna di quanto viene fatto in America, in Europa e in Italia, da cui purtroppo si intuirà quale sia il gap che noi dobbiamo ancora colmare.

Investor education in America

In America, leader indiscusso anche in questo campo, la financial literacy (alfabetizzazione finanziaria) e l’investor education sono preoccupazioni primarie di istituzioni sia pubbliche che private, con un’attenzione che si estende fino al mondo dei giovani e della scuola.

E’ questo il caso della Federal Reserve, la banca centrale, che ha un sito ad hoc per la formazione, con un’intera sezione riservata alle risorse educative per gli insegnanti, e che approfondisce i temi dell’education anche nella sua attività di ricerca.

Ma il settore privato non è da meno, a partire dall’American Association of Individual Investors, un’associazione non profit nata nel 1978 e diventata oggi una “potenza” con 150mila membri e un sito straricco di informazioni (in parte riservate agli iscritti ma in parte accessibili da tutti).

L’esempio americano è stato seguito in molti paesi. E un modo semplice per rendersene conto è fare un rapido tour dei luoghi dove si concretizza l’attività di investimento, e cioè i mercati organizzati.

NYSE, Amex, Nasdaq, così come CBOE, CBOTeCME, e cioè i principali exchange americani, offrono tutti, nei loro siti, delle ampie sezioni dedicate all’education, accessibili da chiunque gratuitamente.

Il NYSE, il mercato più grande, si vanta addirittura di essere “the most investor-friendly market in the world…dedicated to protecting the interests of all investors, large and small” (“il mercato al mondo più attento ai bisogni degli investitori, dedicato a proteggere gli interessi di tutti gli investitori, grandi e piccoli”). Lo annuncia proprio in apertura di un sito che, così come nel caso della Fed, è ricco, ben organizzato e comprende anche manuali, rivolti agli insegnanti, per l’educazione finanziaria nella scuola dell’obbligo.

Investor education in Europa

Ma neppure i mercati dei principali paesi europei trascurano le esigenze dei piccoli investitori, a partire dal LSE, che mette a disposizione una sezione con materiali didattici a due livelli, per principianti, dove vengono illustrate tutte le conoscenze di base, e per investitori esperti, dove si arrivano ad analizzare “tattiche e strategie.”

Ci sono poi corsi online più approfonditi su strumenti d’investimento come le azioni o i covered warrant e sussidi su come partecipare a uno dei 12mila “investment club” del paese o crearne di nuovi. Tutto il materiale è gratuito e accessibile da chiunque (i corsi online richiedono una semplice registrazione).

Deutsche Boerse, nella sezione del suo sito riservata agli “investitori privati”, ha una parte, chiamata “Knowledge Base”, dove è disponibile una dettagliata rassegna di tutte le conoscenze di base (“Basics Overview”), che va dalla struttura, funzionamento e storia del mercato, alla spiegazione degli indici e delle caratteristiche di tutti i vari strumenti d’investimento; c’è un segmento chiamato “First Steps” (primi passi), dove sono discusse le diverse strategie d’investimento o le differenze tra investire e speculare; c’è ancora un segmento “Trading Standards” dove sono chiariti gli aspetti più tecnici del trading e presentati una serie di altri servizi per gli investitori (newsletter, seminari, etc); c’è infine un glossario.

Euronext, che abbraccia i mercati francese, olandese, belga e portoghese, ha una sezione riservata all’education divisa in tre parti: una che illustra il funzionamento del mercato e le sue regole; una che illustra le caratteristiche di tutti gli strumenti quotati (e che comincia, naturalmente, con una pagina intitolata “What is a stock?”, cos’è un’azione); una, infine, riservata al centro di documentazione, ben organizzato tematicamente, con uno scaffale di documenti PDF mirati alla formazione degli investitori.

Ma c’è molto di più. Due link inviano all’ottimo sito della Fédération Francaise des Clubs d’Investissement e al sito collegato L’Ecole de la Bourse, una vera e propria scuola online (completamente gratuita), con sussidi, biblioteche, dizionari, etc. etc.

A Madrid la Bolsa ha una delle quattro sezioni principali del sito dedicata alla “Formaciòn”, con sei sottosezioni. Le prime due presentano corsi e master residenziali e a pagamento, ma le altre quattro mettono a disposizione preziose risorse online gratuite: un corso introduttivo, di taglio pratico e completo, che va dall’identificazione del profilo dell’investitore, alla scelta degli strumenti e dell’intermediario, l’analisi dei costi, l’esecuzione degli ordini, il monitoraggio del portafoglio, fino a concludersi con un sintetico “decalogo dell’investitore”; materiale per partecipare ai “Clubes de Inversiòn” (club d’investimento) o per costituirne di nuovi; otto guide online (“Guias del inversor”) che analizzano più in dettaglio tutti gli aspetti dell’attività d’investimento; e infine un glossario.

Investor education in Italia

E da noi? Cosa offre Borsa Italiana per la formazione dei piccoli investitori? In evidenza, per chi si affaccia al sito, c’è un glossario. Ma l’investitore paziente, meticoloso, e dotato di buon fiuto, potrà trovare in fondo alla sezione “documenti” una sottosezione intitolata, un po’ sibillinamente, “rubriche.”

Di che si tratta? Degli archivi di “Borsa informa”, comunicazioni quasi quotidiane contenenti calendari economici e sintesi delle nuove raccomandazioni emesse da analisti di banche e broker; e di Sotto la lente”, una rubrica settimanale che presenta, in modo piuttosto accademico, temi specifici di cultura finanziaria.

Ci siamo, dunque. Anche se un po’ a fatica, siamo arrivati all’investor education. Peccato, però, che oltre a una certa asciutta astrattezza, i vari numeri della “rubrica” si presentino completamente scollegati tra loro.

Un assiduo studente di questa sorta di “corso” di Borsa Italiana avrebbe così appreso, proprio all’inizio, il 3 ottobre 2005, cosa sono gli ETF; il 24 ottobre 2005 si sarebbe fatto un’idea dei covered warrant e il 28 novembre dello stesso anno sarebbe stato introdotto alle opzioni. E le azioni? Beh, cosa sia un’azione “Sotto la lente” finora non l’ha voluto rivelare. Però il 10 febbraio 2006 il nostro tenace studente avrebbe capito cosa sono le obbligazioni e il 21 luglio dello stesso anno avrebbe compreso anche i fondi comuni. Per avvicinarsi all’asset allocation avrebbe però dovuto fare ricorso a tutta la sua pazienza, e aspettare l’8 giugno di quest’anno.

Naturalmente a Borsa Italiana lavorano degli ottimi professionisti, che la formazione la sanno fare. Ma per intuirlo bisogna trasferirsi su un altro sito: Academy – Borsa Italiana. Qui la metodologia, come viene subito messo in chiaro, è rigorosa, e si fa ampio uso di quello “scaffolding” (ossia organizzazione della materia) che manca a “Sotto la lente.” E si applicano approcci innovativi, basati sulla centralità del discente e il “peer tutoring”.

Fantastico, verrebbe da pensare. E forse lo è, anche se la gran parte dei piccoli investitori non lo accerterà mai. Su Academy, infatti, si paga, e salato.

I corsi online “in autoapprendimento” costano mediamente attorno ai 200-300 euro per due-tre ore di utilizzo delle “piattaforme e-learning”, mentre i corsi “in aula”, della durata variabile tra i due e i cinque giorni, costano attorno ai 2.000-3.000 euro. Per chi abbia esigenze particolari, ci sono poi i corsi “in house”, customizzati. Ma qui la spesa presumibilmente lievita, e non viene precisata.

Investitori retail e Borsa

Un aspetto curioso della mia visita al sito di Borsa Italiana è che, a un certo punto, svoltando a sinistra anziché a destra nella sezione “documenti”, sono finito nella sottosezione “pubblicazioni” anziché in quella “rubriche”. E qui ho trovato BItNotes, una raccolta di analisi sulle “problematiche del mercato borsistico” curata dall’ufficio studi di Borsa Italiana.

Ho così scoperto che nel 2001 e poi di nuovo nel 2004 Borsa Italiana ha realizzato una ricerca su Investitori retail e Borsa nel nostro paese. Ho finito per leggere quella più recente, del 2004, ed è stato tempo ben impiegato. Anzi, se la cadenza triennale viene rispettata, spero di poter presto trovare sul sito anche un terzo rapporto, fresco di stampa. Ecco, comunque, quello che ho appreso:

a) “L’attività degli investitori retail in azioni è un fenomeno di dimensioni consistenti in Italia, sia per rilevanza sulla capitalizzazione del mercato azionario sia per numero di risparmiatori. Dal 1999 le famiglie italiane detengono stabilmente più del 25% della capitalizzazione complessiva del mercato azionario (circa la metà del flottante), rappresentando una quota importante di domanda e una fonte rilevante di risorse per le società che decidono di finanziarsi attraverso di esso.”

“Nel confronto con i principali mercati azionari a livello internazionale, la situazione italiana presenta una delle più elevate incidenze delle famiglie sulla proprietà delle società quotate.” Nel periodo 2001-2003 hanno detenuto oppure negoziato azioni italiane quotate circa 3 milioni di famiglie (14,1% del totale). C’è poi un 3,8% che ha investito direttamente in azioni estere e un 9,9% che ha investito indirettamente in azioni attraverso fondi comuni o gestioni patrimoniali. “Complessivamente, il 19,7% delle famiglie, nel triennio, ha detenuto, acquistato o venduto strumenti azionari.”

b) Il 43% degli italiani è catalogabile come “indipendente”, non è cioè disposto a delegare le decisioni di investimento. Ma con quali conoscenze opera in proprio? “Risulta in generale una situazione piuttosto povera dal punto di vista del grado di diffusione delle conoscenze finanziarie.” […]

“Tra venti famiglie di prodotti finanziari proposti ne sono note in media 11. I risultati di un sintetico quiz di 8 quesiti vero/falso indicano che in media vengono date tre risposte esatte su otto con un 11,6% degli intervistati che sbaglia o non sa rispondere a tutte le domande proposte.” “Solo il 40,4% dichiara di conoscere la differenza tra strumenti quotati e non quotati.”

c) Per il 92,3% l’intermediario di riferimento è una banca (percentuale che sale al 95% se si considera il canale online della banca tradizionale). Il canale online è utilizzato dal 9,6% del campione, le assicurazioni dal 7,5% (ma solo dall’1,5% per le azioni) e le Poste dal 4,2% (solo 0,7% per le azioni).

E quali sono le ragioni per la scelta dell’intermediario? Al primo posto è l’abitudine (il 48,6% degli intervistati), cui segue il buon rapporto con una persona all’interno dell’azienda (45,1%). Caratteristiche e costi del servizio sono poco citati. “Nel confronto col rilevamento del 2001 si nota una situazione di profonda staticità sia nella tipologia dell’intermediario che nelle motivazioni alla base della sua scelta.”

d) I livelli di soddisfazione nei confronti degli intermediari prescelti “presentano delle criticità”. In particolare, la maggiore insoddisfazione è espressa riguardo alla remunerazione degli investimenti e alle commissioni e costi del servizio con punteggi medi di 2,91 nel primo caso e 2,85 nel secondo (in una scala da 1, per niente soddisfatto, a 5, molto soddisfatto). Comunque, la frequenza di abbandono degli intermediari utilizzati è estremamente ridotta.

e) Le fonti d’informazione più importanti sono quelle relazionali, con l’impiegato di banca al primo posto (oltre il 40% dei casi), seguito da promotori finanziari, familiari e amici (attorno al 30%). Seguono carta stampata, TV (televideo) e Internet. Rispetto al 2001, aumenta l’importanza delle fonti relazionali e cala l’importanza di tutte le altre.

Il grado di soddisfazione è medio (3,6), ma in flessione rispetto al 2001. Tra chi si dice insoddisfatto la prima causa citata (nel 43% dei casi) è la difficoltà di comprensione delle informazioni. Pochi (15%) mettono in discussione il grado di affidabilità delle informazioni.

“Le richieste degli investitori vanno nella direzione di un’informazione sintetica, comprensibile e chiara, anche alla luce del tempo che tali soggetti dedicano all’attività di investimento (poco più di un’ora in media la settimana).”

f) Ecco le conclusioni del rapporto: “La domanda retail di azioni italiane quotate è un importante e significativo patrimonio per il mercato azionario italiano […] Si presenta però un quadro complessivo con rilevanti fragilità” […]

“Vi è infatti un generalizzato bisogno di ricostruire la fiducia nei confronti dei meccanismi che regolano i mercati finanziari e di coloro che operano sui mercati finanziari stessi, oltre che di una forte e continua opera di education […] La relazione con il mercato azionario è per certi aspetti ancora elementare e necessita […] di alimentarsi sulla base di una maggiore consapevolezza dell’importanza dell’investimento azionario in un’ottica di asset allocation ottimale” […]

“Il punto cruciale che sembra emergere è quello dell’informazione e dell’education. Al mercato l’investitore retail chiede un’informazione corretta, esaustiva e tempestiva e non soggetta alle logiche di conflitto di interesse; ai mezzi di comunicazione lo sforzo di semplificare e di rendere fruibili i temi finanziari.”

“Nel contempo torna in modo rilevante il tema della formazione finanziaria. Vi è, tra gli investitori retail, una diffusa incertezza su concetti basilari relativi ai temi finanziari […] Creare le condizioni per una maggiore consapevolezza delle scelte dovrebbe essere un obiettivo primario di tutti gli attori del mercato finanziario”. […]

La conclusione è ineccepibile. Ma se l’obiettivo è primario, gli “attori” perchè non lo perseguono? Viene il sospetto che per certi attori declamare l’importanza dell’investor education sia, appunto, una recita.

Gli italiani e l’informazione finanziaria online

Mi sono alzato stamani chiedendomi quale sia l’interesse degli italiani per l’informazione finanziaria online (è bizzarro, lo so, ma spero di non essere giudicato male). Non sapendo se esistano studi comparati affidabili e non volendo dedicare troppo tempo a questo mio assillo, ho imbastito un’estemporanea ricerca domenicale, giusto per ammazzare l’attesa per il ritorno di moglie, figli e suocera da una settimana di vacanza a Parigi.

Ho fatto dei confronti. La finanza è un fenomeno globale e la sua prima lingua è l’inglese. Sono così andato a vedere come si suddividano per nazionalità i lettori dei più prestigiosi siti di informazione finanziaria in lingua inglese: Bloomberg, Reuters, Wall Street Journal, Financial Times, Barron’s, The Economist. Continua a leggere…

Il mercato delle idee: curve, commodities e bolle

Tra gli articoli recenti che vado a esporre nel mercato delle idee ci sono le riflessioni di Barry Ritholtz sui dati americani sull’inflazione, un ammonimento di Mike Panzner tratto dall’andamento della curva dei rendimenti, le previsioni di PIMCO, che resta bullish sui mercati delle commodities, un’interessante ricerca di Michael Mauboussin sull’importanza del carattere per un investitore, le considerazioni di Northern Trust sui tratti sempre più speculativi del rally del mercato azionario cinese.

Le borse si sono entusiasmate per gli ultimi dati sull’inflazione Usa. Ma le statistiche sono ingannevoli, come ben argomenta Barry Ritholtz in The Big Picture.

La curva dei rendimenti Usa, dopo un protratto periodo di inversione, è tornata ad avere un’inclinazione positiva, in seguito al brusco rialzo dei tassi a lunga. Chi ha interpretato positivamente la novità, e sono i più, rischia di sbagliarsi di grosso, come mostra Mike Panzner su Bloggingstocks.

Il pessimismo sul dollaro va molto di moda. Eppure, forse anche per questo, il biglietto verde potrebbe essere a una svolta. Di nuovo Mike Panzner nel suo blog .

Bill Gross, “re dei bond” e fondatore di PIMCO, illustra le previsioni di medio-lungo periodo del suo gruppo: crescita globale sostenuta, tassi in ripresa, dollaro sempre debole, borse OK e rally di materie prime e valute emergenti.

Per BCA Research i mercati azionari restano attraenti rispetto agli asset concorrenti, anche dopo la recente ascesa dei rendimenti obbligazionari. Il consiglio è di continuare a comprare nelle fasi di debolezza (“buy the dips”).

L’ultimo paper di Michael Mauboussin è, come sempre, affascinante. Sono i tratti del carattere quelli che distinguono i grandi investitori, come d’altra parte sembra avere ben chiaro Warren Buffett nella ricerca di un successore alla guida del suo gruppo. Quali sono le caratteristiche che Buffett ritiene essenziali? L’abilità di riconoscere ed evitare i rischi gravi, la capacità di pensare in modo indipendente, la stabilità emotiva e il talento nel comprendere i comportamenti umani.

Ticker Sense ogni settimana tasta il polso di oltre 50 tra i più noti blogger finanziari, per conoscere le loro attese sui mercati azionari. Il sentiment resta in prevalenza negativo, una condizione che ha accompagnato tutto il rally dell’ultimo anno.

Crosscurrents di Alan Newman documenta il fervore speculativo che anima la Borsa americana. I volumi negoziati sono tornati a superare un multiplo di tre volte il Pil per la seconda volta nella storia (la prima, ovviamente, è stata nel 2000), l’holding period medio di un titolo azionario è sceso verso i 6 mesi, e la liquidità detenuta dai fondi è crollata ai livelli più bassi di sempre. Conclusione? Gli investitori sono quasi scomparsi e domina il trading di breve periodo in un mercato ipercomprato. Newman prevede una correzione almeno del 15% entro l’autunno.

Think BIG di Bespoke Investment Group osserva come il rally dei rendimenti obbligazionari americani, che alle scadenze decennali hanno superato di gran corsa la soglia del 5%, abbia colpito l’immaginazione dei media. Ne hanno parlato tutti con grande rilievo, anche i piccoli giornali di provincia, tra attese di continui rialzi. Quando il sentiment si fa così estremo – commenta il blog – è probabile che un massimo, per lo meno di breve periodo, sia stato raggiunto.

Northern Trust analizza la bolla del mercato azionario cinese, simile ormai al Nasdaq di fine anni ’90. Non solo il multiplo P/E ha toccato il livello irragionevole di 44 volte gli utili dello scorso anno, ma la volatilità è sempre più elevata, segno di un mercato molto speculativo. Solo negli ultimi sei mesi ci sono state 11 sedute in cui l’indice di Shanghai ha chiuso con variazioni superiori al 4%. Benché manchino dati precisi, c’è ampia evidenza del fatto che i piccoli investitori cinesi, che contano anche per l’80% delle transazioni nelle giornate più attive, ricorrono ampiamente al debito per “giocare” in borsa. Quando la bolla scoppierà – e non c’è dubbio che scoppierà – sarà difficile per le autorità evitare gravi ripercussioni sociali. E il colpo che verrà inferto ai consumi dell’emergente classe media cinese finirà per pesare sull’export di tutto il continente asiatico.

Sei ragioni per cui l’ascesa dei rendimenti obbligazionari è una minaccia per i mercati azionari: le illustra Barry Ritholtz su The Big Picture.

L’oro, negli ultimi mesi, ha subito una sensibile correzione. Ma per Prieur du Plessis c’è un lungo bull market ancora davanti a noi. Le analogie con il ciclo degli anni ’70, analizzate in un post sul blog Investment Postcards from Cape Town, sono suggestive.

 

Fondi chiusi e spirito dell’illuminismo

La riforma della previdenza complementare parte segnata da (almeno) due vizi che, in Italia, sono troppo comuni per essere casuali: l’insufficiente riconoscimento della libertà individuale e il difetto di concorrenza. Come ben argomenta Andrea Moro in un articolo pubblicato su La Voce , i fondi negoziali o chiusi, uno dei pilastri della riforma, sono troppo chiusi a causa dei vincoli imposti dagli accordi tra le parti sociali alla contribuzione del datore di lavoro.

Il risultato è che viene di fatto limitata la libertà di scelta del lavoratore e ridotta la concorrenzialità del sistema dei fondi previdenziali, con prevedibili ricadute negative su costi e rendimenti a danno degli interessi del lavoratore stesso. Continua a leggere…

I benefici del lungo periodo

Si sente spesso dire che il bravo investitore ignora le fluttuazioni di breve periodo e bada ai risultati di lungo periodo. Ma non sempre è chiaro il perché. E si finisce per fare il contrario, cercando il rapido profitto o battendo in ritirata al primo rovescio di mercato. Esistono dunque i benefici del lungo periodo? E quali sono? Continua a leggere…

Blogger in autoanalisi

Questo blog è appena agli inizi e nutro la ragionevole speranza che, col tempo, possa migliorare. La premessa da cui parto è che investire bene è un’attività di valore per l’individuo e la società. Ci può affrancare, in una certa misura, dalla necessità economica, liberando tempo ed energie per coltivare la nostra umanità, e contribuisce ad allocare con efficienza il risparmio con ricadute benefiche per la collettività intera.

La visione che ho dei mercati finanziari è dunque fondamentalmente positiva. Sono prima di tutto uno straordinario strumento di sviluppo economico. Solo in subordine è giusto soffermarsi a considerarne gli eccessi speculativi, le possibilità di abuso e di frode, soprattutto laddove siano male regolati.

Ma partire dal preconcetto negativo che i mercati finanziari siano covi di speculatori, trappole per il piccolo risparmiatore o casinò, è sbagliato.

Ci impedisce di valorizzarli per quello che sono o che possono diventare, ci dissuade dall’acquisire una cultura finanziaria al passo coi tempi, lascia campo libero a chi, da posizioni di potere e privilegio, ha tutto l’interesse a farci subire un “capitalismo infelice” (come è stato definito il “modello” italiano in una recente ricerca di Deutsche Bank) perché sregolato e sottosviluppato.

Il capitalismo, per me, è un sistema di mezzi, non di fini. E va pertanto assoggettato a criteri di giudizio pratici. Demonizzarlo non ha senso. Bisogna cercare di farlo funzionare e di renderlo utile, come può essere.

Obiettivi del blog

Posta questa premessa, gli obiettivi che mi prefiggo sono due: chiarirmi le idee su come si investa bene, ed essere di aiuto ad altri nel fare altrettanto. In relazione a questi obiettivi valuterò i miei progressi e i miei fallimenti.

A questo riguardo, c’è un cruccio che mi accompagna dai primi giorni in cui ho cominciato a mettere assieme il blog. Nel selezionare i link da inserire, ho fatto una lunga scrematura dei miei “favoriti”. Mi sono subito reso conto che di pagine italiane ce n’erano troppo poche. Mi sono allora messo a cercare. Ma di materiale online che io ritenessi utile per un investitore non ho trovato granché, ed è per questo che, nonostante gli sforzi, i link italiani del mio blog sono, per il momento, appena il 9% del totale.

Senza dubbio mi sarà sfuggito qualcosa e cercherò di rimediare nelle prossime settimane. Ma l’impressione che ho tratto sinora dalle mie ricerche è che la gran parte di quanto si pubblica online in Italia in ambito finanziario siano notizie e rapidi commenti, da un lato, e informazioni o dati per il trading e l’analisi tecnica dall’altro.

Sull’utilità di tutto questo materiale sono alquanto scettico. In mancanza di una griglia interpretativa più fondamentale e di un più evoluto e sistematico approccio ai mercati, le notizie e gli studi grafici offrono un’illusione di conoscenza ma sono in realtà commodities, materiale universalmente diffuso, di facile reperibilità e scarso significato.

Come diceva Bernard Baruch, “qualcosa che tutti conoscono non vale la pena di essere conosciuto.”

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