l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

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La guerra valutaria e i suoi minacciosi precedenti

CurrencyWarsSiamo o non siamo nel pieno di una currency war (“guerra valutaria”) di dimensioni globali? Dipende. A sostenerlo, tra i primi, è stato Guido Mantega, il ministro delle finanze brasiliano, che ha coniato l’espressione nel settembre del 2010 con l’intento di denunciare la natura destabilizzante, e di fatto ostile, della politica monetaria superespansiva adottata dalla Federal Reserve americana. Ma la questione resta controversa. Continua a leggere…

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Il mercato delle idee: Soluzioni alla crisi

Nonostante i molti e costosi interventi già messi in campo da banche centrali e governi, le cronache delle ultime settimane ci dicono che in molti paesi il sistema creditizio resta nell’occhio del ciclone mentre la congiuntura economica non fa che deteriorarsi. Stiamo entrando nel pieno di quella che già ora si profila come la peggiore crisi del dopoguerra. Ci sono soluzioni o dobbiamo rassegnarci a un’altra Grande Depressione, destinata a durare svariati anni? Nella rubrica Il mercato delle idee offro qualche link per orientarsi e, dato che i testi sono in lingua inglese, aggiungo una mia presentazione delle riflessioni che vi sono contenute.

La politica monetaria non basta più

In un normale ciclo economico sono le banche centrali, in sostanza, a determinare una recessione e poi a dare avvio a una nuova fase espansiva, agendo – secondo necessità, e tra inevitabili errori – sulla potente leva dei tassi d’interesse. L’attuale ciclo, però, non è per niente normale. Al cuore del sistema, in America, ma anche in altri paesi, c’è stata eccessiva accumulazione di debito da parte delle famiglie ed eccessiva creazione di credito – di pessima qualità – da parte del sistema bancario. Il risultato è che sia le famiglie che le banche devono rimettere ordine nei loro bilanci.

Tutti si ritrovano costretti a farlo allo stesso tempo, e questo è il guaio. Le famiglie tagliano le spese, aumentano i risparmi e non ne vogliono più sapere di indebitarsi. Le banche tagliano il credito e tengono per sé la liquidità che generosamente viene loro offerta dalle banche centrali. L’attività economica collassa, le aziende falliscono, i lavoratori si ritrovano disoccupati. Lo sforzo di risanamento in cui sono impegnate banche e famiglie diventa via via più difficile. E’ il terribile circolo vizioso che sempre viene innescato da un boom del credito che si trasforma in crollo, in panico e in grave crisi finanziaria. La corsa ad accaparrare liquidità fa sì che, nello sforzo di salvarsi, ognuno finisca per contribuire alla rovina di tutti. E’ capitato già diverse volte in passato.

In queste situazioni, la politica monetaria convenzionale – quella cioè affidata alla leva dei tassi – non basta più. Il costo del denaro può scendere anche a zero, com’è accaduto in America, ma la domanda di credito non si riprende. Come si dice in gergo, “il cavallo non beve.” Uno dei motivi è che quando crollano i prezzi degli asset e l’attività economica, e anche i prezzi dei beni tendono a flettere in un unico gigantesco gorgo ribassista, anche un tasso zero è insufficiente.

Una prova convincente la offre un grafico (vedi sotto) prodotto dal chief economist di Goldman Sachs, Jan Hatzius, e commentato dal neo-premio Nobel Paul Krugman sul suo blog, The Conscience of a Liberal. Si tratta di una rappresentazione della cosiddetta regola di Taylor, o Taylor rule, una semplice equazione, ideata nel 1993 dall’economista americano John Taylor, che tiene conto degli scostamenti dell’inflazione e dell’attività economica dai loro target o livelli d’equilibrio al fine di prescrivere le corrette risposte di politica monetaria. L’idea di fondo è che quando inflazione e crescita sono eccessive, i tassi dovrebbero salire in modo da agire da freno; e quando inflazione e crescita si raffreddano troppo, i tassi dovrebbero scendere in modo da agire da stimolo.

Il grafico di Hatzius mette a confronto, per il periodo dal 1987 a oggi, il tasso a breve americano (Fed funds) con il tasso che sarebbe stato prescritto come corretto dalla Taylor rule. L’andamento è molto simile, a conferma che, nella sua semplicità, la Taylor rule è un utile strumento descrittivo di come una banca centrale – in questo caso la Federal Reserve – conduce la sua politica monetaria.

Per lo stesso motivo, la Taylor rule può essere usata per cercare di anticipare il corso futuro del costo del denaro, sulla base di stime dell’inflazione e del PIL. E’ quello che Hatzius, nel suo grafico, ha fatto, spingendosi fino al 2011. Ciò che emerge è che la risposta corretta all’evoluzione prevista da Goldman Sachs per l’inflazione e il PIL americani sarebbe un taglio dei Fed funds fino a un livello negativo del 6%!

I tassi, però, non possono scendere sotto lo zero. Se accadesse, gli istituti di credito ringrazierebbero sentitamente la banca centrale e accumulerebbero la liquidità nei loro forzieri. La conclusione è che la leva dei tassi – la politica monetaria convenzionale – ha smesso di funzionare. Nella situazione in cui ci troviamo è largamente inadeguata.

E allora? Nelle parole di Krugman, “Questo è il motivo per cui abbiamo bisogno di un poderoso stimolo fiscale, di politica monetaria non convenzionale (ndr, sostegni da parte della banca centrale che vadano oltre le manovre sui tassi a breve), e di qualsiasi altra cosa riusciamo a immaginare per combattere l’attuale tracollo. In senso letterale, le regole abituali non valgono più.”

Soluzioni non convenzionali

Per capire più in dettaglio quali possano essere le soluzioni migliori per superare la crisi un’ottima lettura è di nuovo offerta da Paul Krugman: si tratta della sua lettera aperta al Presidente Obama, pubblicata su Rolling Stone lo scorso 14 gennaio. LaStampa.it ne ha tradotto un ampio stralcio. E’ un po’ lunga, ma merita lo sforzo. Ne sintetizzerò, comunque, alcuni punti: quelli relativi alle misure urgenti da adottare nel primo anno della nuova amministrazione.

– L’economia è “in caduta libera” e le prospettive sono peggiori di quanto quasi chiunque aveva anticipato.

– L’aspetto più grave è l’incessante perdita di posti di lavoro: 2 milioni nell’ultimo anno e, di recente, mezzo milione al mese. Entro la fine del 2009 ci potrebbero essere 10 milioni di disoccupati in più del normale (pari a un tasso di disoccupazione del 9%), e altri 10 milioni di sottoccupati (pari a un tasso di disoccupazione allargata del 15%): una “catastrofe”.

– La Federal Reserve non ha più spazi di manovra con i tassi. Le misure non convenzionali tese a rianimare i mercati del credito sono indispensabili “per limitare i danni”, ma non sono in grado di far ripartire l’economia. La responsabilità, ora, è tutta nelle mani del governo.

– L’ultimo presidente americano ad aver affrontato una sfida analoga fu Franklin Delano Roosevelt (FDR, nella foto sotto), negli anni ’30. In quell’esperienza ci furono successi e insuccessi: i primi vanno imitati, dai secondi bisogna imparare perché non siano ripetuti.

FDR utilizzò la finanza pubblica per salvare le banche. E questo fu un bene. Nel 1935 un terzo del sistema bancario americano era stato nazionalizzato. A differenza di quanto ha sinora fatto l’amministrazione Bush, FDR non fu per niente “timido” nell’esigere che le risorse pubbliche, messe a disposizione delle banche, fossero utilizzate al servizio del bene pubblico. Insomma, esercitò i suoi poteri perché quel denaro fosse impiegato nell’attività di credito. Altre risorse furono messe direttamente a disposizione di imprese e famiglie. E questo occorre fare anche oggi, in modo da evitare che imprese sane falliscano e da consentire alle famiglie in necessità di rinegoziare i mutui e restare nelle loro case.

– L’economia ha bisogno di sostegno diretto ai salari e alla creazione di posti di lavoro. In questo FDR sbagliò. L’azione di stimolo ci fu ma non fu sufficiente. Nel 1937, illuso forse dalla ripresa degli anni precedenti e preoccupato per il buco che si era aperto nelle finanze pubbliche, FDR si lasciò convincere a tagliare le spese e ad alzare le tasse. La conseguenza fu un’altra terribile recessione che distrusse quasi tutti i progressi fatti sino ad allora. Alla fine fu quel “gigantesco programma di lavori pubblici noto come Seconda Guerra Mondiale” che consentì all’America di lasciarsi alle spalle oltre un decennio di Grande Depressione.

– Qual è la lezione? Il governo, nei suoi piani di spesa, deve essere “coraggioso”. Si tratta di sostituire la domanda privata, che è venuta meno, con domanda pubblica. Si tratta di riportare un tasso di disoccupazione, che tende al 9%, verso un più normale 5%. E siccome, a grandi linee, ci vogliono 200 miliardi di dollari (pari a circa l’1,4% del PIL) per abbassare la disoccupazione di un punto percentuale, per ottenere una “piena ripresa” il governo dovrà essere disposto a spendere circa 800 miliardi di dollari l’anno. Sotto i 500 miliardi di dollari, l’impegno sarà senza dubbio insufficiente.

– Aumenti di spesa pubblica di questa entità, in un periodo in cui la recessione riduce le entrate fiscali, produrranno di sicuro dei buchi di bilancio “paurosi”. Ma l’alternativa dell’eccesso di cautela sarebbe peggiore.

– Come spendere? In cose che abbiano valore nel tempo: infrastrutture, efficienza energetica e miglioramenti alla rete elettrica, Internet, informatizzazione del sistema sanitario, sostegno agli stati e ai governi locali in modo che non siano costretti a ridurre le spese nel momento peggiore. E poi aiuti alle famiglie colpite più duramente dalla crisi. “Far del bene farà bene” anche all’economia, dato che i più poveri saranno anche i primi a spendere i sussidi ricevuti.

– I tagli di tasse possono essere utili, soprattutto se rivolti alle famiglie a basso e medio reddito, ma non debbono essere lo strumento principale. Sono infatti meno efficaci nel sostenere la domanda di quanto non siano, ad esempio, gli investimenti in infrastrutture.

– A queste condizioni, il 2009 resterà un anno da dimenticare, ma si potrebbe avere una ripresa dal 2010.

Un rimedio per le banche

Dovremmo avere paura della completa nazionalizzazione delle banche in difficoltà? Se lo chiede Willem Buiter, docente alla London School of Economics ed ex-chief economist della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, nel suo blog Maverecon. La risposta è no. Anzi, è proprio questa la soluzione che presenta meno controindicazioni.

Finora, argomenta Buiter, in questa crisi i governi hanno seguito due approcci. In America, l’amministrazione Bush ha scelto di intervenire con capitali pubblici a condizioni di favore. E’ successo con AIG, con Goldman Sachs, con Citigroup. Così facendo, magari si consente alle banche di tornare a fare credito, ma si premiano i corresponsabili dell’attuale sfascio e si alimenta un atteggiamento di azzardo morale (moral hazard) che finirà in futuro per incoraggiare di nuovo un’eccessiva assunzione di rischi.

In Europa, tanto in Gran Bretagna come nella zona euro, i governi hanno preferito intervenire esigendo un prezzo più salato per il loro sostegno, sia in termini di costo del capitale che di altre condizioni “punitive”, quali ad esempio la fissazione di limiti ai compensi del top management.

Il risultato è che le banche stanno cercando in tutti i modi di evitare l’intervento dei governi. E quando questo è inevitabile, adottano strategie idonee a liberarsene al più presto. La più facile – a cui sono indotte anche da altri fattori, quali l’effettiva maggiore rischiosità dell’attività di credito in una situazione di crisi – è di evitare ogni rischio e, data la generale indisponibilità di capitali privati, restare sottocapitalizzate. Molte grandi banche europee, osserva Buiter, sono degli “zombie” e non stanno facendo il loro lavoro.

A questi due approcci ne è largamente preferibile un terzo: nazionalizzare del tutto. Tra l’altro, diventerebbe molto più facile risolvere un problema spinoso, e cioè come creare delle “bad bank” a cui conferire gli asset tossici – poco liquidi e dai prezzi incerti – che gravano come zavorre sui bilanci di molti istituti. Le proposte che oggi vengono avanzate, con le banche ancora in mani private, s’incentrano sulla possibilità di stabilire un qualche “valore equo” di questi asset da trasferire a veicoli pubblici. Ma sotto la copertura di un fair value che è oggi impossibile determinare, rischiano di nascondersi sussidi per niente trasparenti.

Molto meglio, sostiene Buiter, nazionalizzare per il tempo strettamente necessario. Le banche tornerebbero da subito a fare il loro lavoro, offrendo un migliore sostegno a imprese e famiglie. Una riprivatizzazione dovrebbe solo aspettare la stabilizzazione dei mercati finanziari e una ripresa dell’economia.

Obama e i mercati

All’inizio di ogni semestre la rivista americana Barron’s organizza una tavola rotonda tra una decina di grandi investitori allo scopo di sondare le loro aspettative sui mercati finanziari, riportandone poi un ampio resoconto. Nell’ultima, pubblicata in queste settimane, Felix Zulauf descrive tra l’altro Barack Obama come “pericoloso per il mercato”, nel senso – si affretta a chiarire –  che “le aspettative che possa cambiare il mondo sono troppo elevate.” Alla fine, aggiunge, “il mercato resterà deluso del fatto che non ce la farà a cambiare le cose così in fretta e così a fondo quanto la gente spera.”

Come si sarà intuito, la tavola rotonda si è svolta ai primi di gennaio, quando Zulauf poteva ancora parlare del “rally della speranza in Obama.” Quel rally, partito dai minimi di fine novembre, si è poi subito spento. E dal 7 gennaio i mercati hanno ripreso a scendere in picchiata facendo mutare il quadro così in fretta da fare invecchiare precocemente l’analisi del noto investitore svizzero.

Ha riportato oggi Bloomberg che tra il giorno delle elezioni presidenziali, il 4 novembre, e l’odierna inaugurazione l’indice Dow Jones ha perso il 14%. Si tratta di un record. Nella storia americana un calo di Borsa così ampio tra elezione e inaugurazione di un nuovo presidente non si era mai verificato. L’Obama hope rally non c’è più, non c’è mai stato. Verrebbe quasi il dubbio che già si possa parlare di un Obama disillusion crash.

Spero e penso di no. Un precedente storico, per quel che può valere, ci viene in soccorso. Come nota l’articolo di Bloomberg, il secondo peggior calo di mercato tra Election Day e Inauguration Day fu quello del 13% registrato a cavallo tra il 1932 e il 1933, quando a prendere possesso della Casa Bianca fu Franklin Delano Roosevelt. Dopo la sua inaugurazione, il mercato cambiò direzione e non si guardò più indietro, producendosi in un rally del 75% nel corso del resto dell’anno.

Si tratta più che altro di una curiosità e mi guardo bene dall’attribuirvi particolari significati. A prescindere dall’aneddotica storica e al contrario di Zulauf, io sono però convinto che Obama possa far bene ai mercati. Il fatto che il culmine della crisi finanziaria abbia coinciso con gli ultimi giorni di una confusa, spenta e impopolare presidenza Bush e poi con la transizione ai vertici del potere politico americano è stato in questi mesi un enorme handicap.

Leadership e speranza

Obama ha in grande misura la dote che per Napoleone caratterizzava la leadership, e cioè la capacità di infondere speranza. E oggi l’ha di nuovo dimostrato in un commovente discorso inaugurale in cui non ha mancato di sottolineare – riecheggiando i toni del primo discorso da presidente di John Fitzgerald Kennedy – che, con lui, “l’America ha scelto la speranza al posto della paura.”

Del bene immateriale della fiducia c’è oggi estremo bisogno, come ricordava Warren Buffett in un’intervista di un paio di giorni fa, in cui analizzava nelle seguenti, scarne e lucide parole il senso dell’attuale crisi: “Quel che sta accadendo è un ciclo di feedback negativi. C’è paura, che induce la gente a non voler spendere e a non voler investire. E ciò genera altra paura.”

Tutto qua. Al di là dei tanti e reali problemi che stanno squassando il mondo della finanza, la questione più di fondo è quella individuata da Buffett. E per affrontarla Obama, con il suo carisma, è – come sostiene sempre Buffett – “il migliore dei comandanti in capo.”

Seguendo alla BBC la cerimonia dell’inaugurazione del 44° presidente degli Stati Uniti, ho pensato che il radicamento nella storia e la capacità di cambiare sono le due grandi forze di quel grande paese. Entrambe, oggi, erano in piena evidenza. A ogni passo, la cerimonia e i discorsi hanno evocato i migliori momenti e le più nobili figure della storia americana. Questa coscienza del passato è una consapevolezza di sé che dà forza. Quanto alla capacità di cambiamento, necessaria per essere all’altezza di sfide sempre nuove, bastava Obama. Simbolo più eloquente non c’è.

Mi è venuta in mente una citazione di Johann Wolfgang Goethe, che dice: “Sono due le cose che i bambini dovrebbero ricevere dai loro genitori: radici e ali.” Radici e ali, radicamento nella storia e capacità di cambiamento: quello che serve a un bimbo, dopotutto, serve anche a un popolo e a un paese – collettività umane in perenne evoluzione. L’America li ha, e visto il ruolo che l’America svolge nel mondo, l’idea mi rassicura.

Io sono ottimista. E penso a questa crisi e alle nostre vite. Oggi, dei mercati, non m’importa.

Silvio Berlusconi e l’Italia che verrà

Per capire i successi di Silvio Berlusconi bisogna andare oltre l’analisi politica. Come scrive il sociologo Aldo Bonomi nel saggio Il rancore, alle radici del malessere del Nord, ridurre il fenomeno Berlusconi alla televisione, al conflitto d’interessi o alle regole violate significa ignorare il suo radicamento sociale, che trae origine dalle profonde trasformazioni che hanno investito il tessuto sociale e produttivo del nostro paese negli ultimi due decenni.

“Piaccia o meno, Berlusconi sta dentro l’anima di questo paese, non solo dentro la sua sovrastruttura,” scrive Bonomi. Continua a leggere…

L’Italia, le lobby e l’interesse generale

Vorrei che i lettori del blog andassero a vedere l’intervista che Mario Monti ha rilasciato ieri su La Stampa, a cura di Mario Bastasin. Offre una delle più sintetiche e, a mio modesto avviso, più corrette interpretazioni del perché l’economia italiana è in crisi. Eccola:

“Molti italiani fanno sempre più fatica ad arrivare alla fine del mese perché l’Italia fa sempre più fatica ad essere competitiva nel mondo. La scarsa produttività riduce la quota di mercato di ciò che l’Italia produce e restringe il prodotto totale che essa è in grado di distribuire.”

“E quegli stessi fattori che frenano la produttività – privilegi, rendite, poteri di blocco di cui godono tante categorie – fanno sì che a pagare il conto della mancata crescita e della maggiore inflazione siano soprattutto le poche categorie non protette.”

E’ chiarissimo. Ma vale la pena ripeterlo. Se l’Italia va male, è perché i nostri prodotti e i nostri servizi, in un’economia sempre più globalizzata, vengono rimpiazzati da quelli di altri paesi dove si lavora meglio e a costi più bassi.

E se questo accade è perché noi siamo frenati da “privilegi, rendite, poteri di blocco di cui godono tante categorie.” I costi, naturalmente, ricadono su tutti ma in primo luogo sui più deboli.

Il paese delle tante caste

Le responsabilità sono dunque diffuse. Sono certamente a carico della politica, ma non solo. Denunciare la cattiva politica è giusto. Ma limitarsi a questo espone ad almeno due rischi. Vediamo quali, di nuovo nelle parole di Monti:

“L’insofferenza dei cittadini per i costi e le inefficienze della politica contiene una carica salutare. E’ positivo che i politici reagiscano, con le parole e, speriamo, con i fatti. Ma presenta anche, secondo me, due rischi insidiosi.”

“Il primo rischio è che i titolari del potere pubblico vengano presi da un sistematico ‘senso di colpa’, che quasi si scusino per l’esistenza dello Stato e che, per essere eletti, promettano di togliere qualcosa allo Stato per darlo agli elettori.”

“Il secondo rischio è che, all’opposto, la società civile tenda sistematicamente ad autoassolversi, a considerare lo Stato e le tasse come il male principale, a non vedere come un male le tutele corporative in cui ogni categoria si rinchiude a riccio”.

Transitare dunque, come accade, dalla polemica contro la “casta” dei politici all’insofferenza anti-Stato è un grave errore. Abbiamo bisogno sì di uno Stato meno invadente, ma anche più efficiente e forte.

In secondo luogo, non esiste solo la casta dei politici. Il nostro è il paese delle “tante caste”, e fare finta di non vederlo ci priva della possibilità di risolvere il problema della scarsa produttività del sistema.

Un bel programma di governo

Quale potrebbe essere, pertanto, la soluzione? Sentiamo Monti:

“A mio parere occorre certo uno Stato più leggero ed efficiente. Ma uno Stato più forte, senza complessi. Uno Stato che, proprio perché crede nel mercato, ne disciplini rigorosamente il funzionamento, ne punisca le devianze.”

“Uno Stato che sappia imporre a noi cittadini, a tutte le nostre organizzazioni e corporazioni, un disarmo della foresta di protezioni e rendite. Una foresta che si è ampliata a dismisura nei decenni proprio con la complicità di uno Stato debole. Per acquisire consensi, ha introdotto norme che riparano dalla concorrenza e ha eretto le organizzazioni delle categorie in protagonisti ufficiali delle decisioni di politica economica.”

“Speriamo che sia possibile ridurre la pressione fiscale. Ma perché non dare priorità massima alla riduzione della ‘fiscalità’ da rendite? Ogni privilegio crea una rendita. Ogni rendita ha gli effetti di una tassa: determina prezzi più alti, minore crescita, minore occupazione. Eliminare le rendite è come ridurre le tasse, ma senza gravare sul bilancio dello Stato”.

Questo sì che è un bel programma di governo!

– Stato leggero, efficiente e forte.
– Stato che crede nel mercato e lo disciplina rigorosamente.
– Stato che impone a tutti un “disarmo”: basta con le protezioni e i privilegi.
– Stato che, così facendo, abbatte la “fiscalità” impropria che davvero soffoca il paese: quella delle rendite (per alcuni o per molti) che si traducono in vere e proprie tasse (per tutti).

Bravo Monti! Avresti il mio voto.

Ottimismo della volontà e giochi della ragione

Arrivati a questo punto, dovrebbe essere chiaro come l’origine dei nostri problemi economici non è economica ma culturale e morale.

Vale allora la pena chiedersi: cos’è che fa sì che noi italiani, oltre a essere – com’è naturale – attaccati ai nostri interessi particolari siamo anche, spesso, così poco capaci di organizzarci in società in modo da far sì che ci sia chi, a beneficio di tutti, è preposto in primo luogo a perseguire l’interesse generale?

E’ un tema che in questo blog ho già toccato, a esempio nel post Il “particulare” e lo Stato di diritto.

Lì citavo Francesco Guicciardini e il suo invito alla cura del “particulare,” che tanta influenza ha avuto nella nostra storia nazionale.

Dicevo:

Mentre il Rinascimento era al suo canto del cigno e le città italiane, in balia di eserciti stranieri, perdevano una dopo l’altra la loro libertà, Guicciardini scriveva: “Gli uomini che conducono bene i loro affari sono quelli che tengono fisso lo sguardo sul proprio interesse privato e misurano tutte le loro azioni in base alle sue necessità.”

Questa cura del “particulare”, da allora, è rimasta purtroppo una chiave privilegiata per interpretare il carattere degli italiani e la storia politica del nostro paese.

Forse bisognerebbe partire dalla considerazione che la “lezione” di Guicciardini nasceva in tempi di decadenza. Era impregnata del pessimismo di una società che aveva perso la libertà e, con essa, ogni possibilità di autogoverno.

Ma in un paese libero, come l’Italia di oggi, adoperarsi a tutti i livelli per un governo migliore della cosa pubblica è l’unico atteggiamento ragionevole, oltre che giusto e doveroso.

Così facendo, non solo è possibile conquistarlo, quel governo migliore, ma si tutela il bene sommo della libertà.

Sono infatti il pessimismo e il cinismo, applicati alla vita pubblica, che portano all’esclusiva cura del “particulare” come via d’uscita dai conflitti, e da qui alla decadenza, poi all’imbarbarimento, fino, in ultima istanza, alla perdita della libertà stessa.

I termini di questo discorso sono morali. Ma sono al tempo stesso razionali, come ci ha permesso di capire, ad esempio, il matematico e Premio Nobel John Nash con la sua teoria dei giochi.

Molti ricorderanno la scena del film A beautiful mind, in cui il giovane Nash, studente a Princeton, si trova con quattro amici che si accingono a corteggiare un gruppo di cinque ragazze, tutte carine ma tra cui una – l’unica bionda – spicca per il suo fascino.

Nash spiega loro che l’unico comportamento razionale, che può assicurare il successo di tutti, è che ognuno dei quattro si concentri su una della quattro ragazze more, lasciando perdere la bellissima bionda.

Tornando a noi, all’intervista di Monti, e all’imminente appuntamento elettorale, cosa ci insegna la soluzione ottimale di Nash al gioco del corteggiamento?

Ci fa capire che il risultato migliore l’otterremo non se ognuno cerca soltanto di massimizzare la propria utilità (voto chi mi abbassa di più le tasse o chi garantisce il massimo vantaggio alla mia corporazione di appartenenza) ma se ognuno farà in modo di scegliere, al tempo stesso, ciò che è meglio per sé e per la collettività intera.

Elettori attenti, i piccoli partiti sono una tassa

Segnalo e invito caldamente a leggere l’editoriale dell’economista Tito Boeri (nella foto) pubblicato oggi su La Stampa, dal titolo Il costo dei nani. Prende le mosse dai dati di dettaglio sulla spesa delle amministrazioni pubbliche, resi noti dall’Istat in questi giorni, e che consentono di fare finalmente un bilancio accurato di cosa è accaduto durante i 5 anni del governo Berlusconi (2001-2005). La spesa pubblica è aumentata di oltre 100 miliardi di euro. Come mai? Boeri ricorda come Berlusconi abbia spesso lamentato “i vincoli imposti dal diritto di veto dei partiti minori” e aggiunge che c’è da credergli.

“I piccoli partiti presidiano interessi specifici e difficilmente appaiono come responsabili degli aumenti delle tasse agli occhi degli elettori,” scrive Boeri.

“Quindi hanno tutto l’interesse a conquistare trasferimenti ai gruppi che rappresentano, noncuranti dei livelli raggiunti dalla pressione fiscale. I dati lo confermano: i sistemi politici maggiormente frammentati sono quelli che generano livelli più elevati di spesa pubblica. Più alto il numero di partiti, più difficile anche ridurre il numero dei parlamentari e tagliare i costi della politica.”

Partiti, spesa pubblica, legge elettorale

Purtroppo – osserva Boeri – alle lamentele di Berlusconi non sono seguiti i fatti. La legge elettorale che il suo governo ci ha lasciato in eredità “concede ancora più spazio alle formazioni minori.”

I risultati si sono visti: nella legislatura appena conclusa i partiti si sono moltiplicati, raggiungendo la cifra record di 39.

Più aumentano i partiti, più tende ad aumentare la spesa pubblica e più diventa difficile cambiare la legge elettorale.

“Rischiamo così di trovarci – scrive Boeri – in un circolo vizioso fatto di frammentazione politica che genera ulteriore frammentazione politica, il tutto sulle spalle o, meglio, sulle tasche degli italiani.”

Due vie d’uscita dal circolo vizioso

C’è un modo per uscirne? In realtà, ce ne potrebbero essere due.

Gli elettori – consapevoli che “c’è una tassa, nel vero senso della parola, associata al voto ai piccoli partiti” – potrebbero decidere di penalizzare col loro voto le forze minori.

Inoltre, le forze maggiori potrebbero impedire ai piccoli partiti di entrare a far parte di coalizioni elettorali, costruite al solo scopo di ottenere premi di maggioranza che consentirebbero – anche ai piccoli – di aumentare le loro compagini parlamentari.

Ci sono segni che qualcosa si sta muovendo in questa virtuosa direzione?

Boeri descrive come “lungimirante” la scelta di Walter Veltroni di portare il Partito democratico da solo al voto.

Mentre non è ancora chiaro cosa sia il Popolo delle Libertà. E’ un bene che intenda essere un partito vero e proprio – in grado di ricomporre differenze d’opinione al suo interno – e non una semplice lista elettorale. Ma ai fini del superamento dell’attuale, costosa, frammentazione del sistema politico, è anche “fondamentale che si chiuda a federazioni con partiti minori,” nota Boeri.

“Se così fosse, queste elezioni potrebbero davvero rappresentare una svolta per il Paese.”

“Molti piccoli partiti e piccoli leader sparirebbero come d’incanto e, durante la prossima legislatura, si potrebbe finalmente pensare di dotare l’Italia di una legge elettorale che non abbia un “ellum” come suffisso (che non sia, insomma, una bizantina “porcata” come l’attuale porcellum, ndr) e ridurre il numero di parlamentari, permettendo finalmente agli elettori di scegliere (cosa che l’attuale legge, con l’eliminazione del voto di preferenza, non consente, ndr) e a chi verra scelto di poter davvero governare.”

Parole d’oro, che sottoscrivo interamente. E che mi auguro servano a ispirare scelte più virtuose da parte di molti – elettori e leader politici.

Il “particulare” e lo Stato di diritto

Vorrei fare qualche semplice considerazione sullo sciopero degli autotrasportatori, che nei giorni scorsi ha paralizzato l’Italia. Due sono gli aspetti che mi paiono evidenti e rilevanti, al di là dei mille sottili distinguo che è sempre possibile tracciare in vicende complesse:

a) Più che di uno sciopero si è trattato di una sedizione, pericolosa per l’ordine pubblico e costellata di violazioni della legge (tra cui le minacce, percosse e danneggiamenti a quegli autotrasportatori che avevano deciso di non aderire);

b) Il governo, che per bocca del ministro Bianchi aveva definito “illegale” il blocco e aveva annunciato che le trattative non sarebbero riprese finché i fermi non fossero stati rimossi, ha scelto di chinare il capo Continua a leggere…

La democrazia della falsa alternanza

Accompagnata dal solito prepotente spiegamento di mezzi propagandistici è partita l’iniziativa di Forza Italia che chiede agli italiani di aderire alla richiesta di tornare subito al voto. “Firma anche tu! Per tornare a votare” è lo slogan.

E la motivazione, apoditticamente contenuta in una citazione di Silvio Berlusconi, dice così: “In democrazia, quando si è in presenza di una crisi politica irreversibile come l’attuale, la strada maestra è una e una sola: il ritorno alle urne…”. I puntini di sospensione mi consentono, spero, di interloquire aggiungendo due semplici osservazioni. Continua a leggere…

Mafia, economia e politica giudiziaria in Italia

Negli Stati Uniti è Wal-Mart, in Giappone Toyota, in Gran Bretagna British Petroleum, in Germania DaimlerChrysler, in Francia Total, in Spagna Banco Santander Central Hispano, e nella piccola Finlandia è Nokia. E da noi? Beh, da noi, stando almeno all’ultima edizione del Global 500, la classifica delle 500 maggiori aziende mondiali, curata da Fortune, la prima impresa per fatturato (ventiseiesima al mondo) è ufficialmente Eni, con i suoi 109 milioni di dollari. Ma in un paese in cui l’economia sommersa rappresenta almeno un quarto di quella “emersa”, le classifiche ufficiali valgono poco. Continua a leggere…

Italia, Chiesa e lavoro (stabile e sicuro?)

Non contenta di promettere la vita eterna, la Chiesa cattolica italiana si è messa ora a predicare il lavoro eterno. A commento di un discorso in cui il Papa, giustamente, definiva la questione del lavoro in Italia come un’ “emergenza etica e sociale”, il presidente della Cei Angelo Bagnasco (nella foto), all’apertura della settimana sociale dei cattolici, ha aggiunto tre aggettivi per esplicitare come dovrebbe essere il lavoro, secondo l’idea di “bene comune” che la Chiesa cattolica va propugnando: “Stabile, sicuro e dignitoso.” Sul dignitoso, penso, siamo tutti d’accordo. Ma sullo stabile e sicuro? Si tratta di obiettivi perseguibili o di luoghi comuni tanto diffusi quanto ispirati, per lo più, da un misto di ignoranza e demagogia? Continua a leggere…

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