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Silvio Berlusconi e l’Italia che verrà

Per capire i successi di Silvio Berlusconi bisogna andare oltre l’analisi politica. Come scrive il sociologo Aldo Bonomi nel saggio Il rancore, alle radici del malessere del Nord, ridurre il fenomeno Berlusconi alla televisione, al conflitto d’interessi o alle regole violate significa ignorare il suo radicamento sociale, che trae origine dalle profonde trasformazioni che hanno investito il tessuto sociale e produttivo del nostro paese negli ultimi due decenni.

“Piaccia o meno, Berlusconi sta dentro l’anima di questo paese, non solo dentro la sua sovrastruttura,” scrive Bonomi.

Sono d’accordo. Solo così, tra l’altro, si spiega la sua longevità politica nonostante i pur evidenti fallimenti, la capacità di rinascere dalle ceneri di un brutto quinquennio (2001-2006), quando il suo governo finì meritatamente nell’impopolarità nonostante il sostegno offerto dalla fabbrica di consenso delle televisioni.

Il tentativo di comprendere Berlusconi, le prospettive del berlusconismo e il futuro dell’Italia sotto la sua guida impone dunque che si individuino innanzitutto i motivi del suo radicamento sociale, nel contesto dei cambiamenti socio-economici che hanno trasformato il nostro paese a partire dagli anni ’80.

Gli effetti disgregatori di terziarizzazione e globalizzazione

Come scrive Bonomi, i processi di terziarizzazione (dalla produzione di beni materiali a quella di servizi) e di globalizzazione (internazionalizzazione dei mercati) hanno avuto massicci effetti disgregatori sulla società italiana.

Sono venute meno la centralità della fabbrica fordista (e cioè della produzione concentrata nel luogo dei macchinari) e le identità di classe. Il crollo della rappresentanza sociale ha generato fenomeni diffusi di “paura operaia”.

Più in generale, si è polverizzata la rigida dialettica economica centrata sul rapporto tra capitale e lavoro, dove lo Stato si riservava una funzione di mediazione e redistribuzione.

Al posto di queste vecchie identità di classe e di ruolo si è diffuso un “capitalismo molecolare”, fatto di tanti piccoli padroncini (e di quasi sette milioni di partite Iva).

E’ emerso un “individualismo proprietario” stressato da una competizione sempre più globale, tendenzialmente anomico e antisociale, animato da motivazioni solo economiche ed egoistiche (quello che Bonomi descrive come l’emergere di “piccole e fredde passioni” al posto delle “grandi e calde” passioni del passato).

Localizzazione come risposta ai bisogni sociali

Si è così fatto largo un senso di sradicamento e spaesamento che ha spinto le persone a cercare risposte al bisogno di socialità nelle “piccole patrie”, e cioè nel ritorno alla dimensione locale dove peraltro già tendevano a connettersi, in una crescente territorializzazione dello sviluppo (distretti, filiere), le molecole produttive pressate dalla concorrenza.

Tutti questi processi sono stati accomunati da un frazionamento delle identità sociali; da una scarsità di comunicazione, organizzazione, cooperazione, responsabilità; da una rottura delle “reti lunghe” di appartenenza, sostituite da “reti corte”, localistiche o corporative; da una perdita di legittimazione dei pubblici poteri.

Berlusconi e Lega Nord interpreti della crisi di identità

Non è un caso se, in questo contesto, i nuovi attori affermatisi nel mercato della politica a partire dai primi anni ’90 siano stati Berlusconi e la Lega Nord.

Quest’ultima, osserva Bonomi, ha saputo approfittare della fine delle appartenenze del Novecento e del carico di paure e di spaesamento, che tale implosione generava, per proporsi non come partito ma come istituzione rappresentativa delle nuove identità territoriali.

Nel caso di Berlusconi il successo si deve invece alla capacità di intercettare la domanda di modernizzazione che veniva dal capitalismo molecolare stressato dalla competizione globale e la domanda di utopia e dunque di speranza e di identità che veniva dalla “moltitudine” di individui sradicati.

Il Berlusconi “polimorfo” (operaio, artigiano, commerciante, imprenditore, massaia, partita Iva, etc. etc.), il “presidente della moltitudine”, ha offerto alla società italiana polverizzata una possibilità di ritrovare identità dalla molteplicità, di riaggregare le differenze attorno a un’idea.

Insomma, Berlusconi ha dato un qualche senso all’individualismo – spesso rancoroso perchè spaesato – che si era diffuso nel paese.

Modernizzazione e utopia sono dunque le parole-chiave per decifrare il radicamento sociale di Berlusconi. E una conferma che è questo il collante tra Berlusconi e il suo “popolo” la si è colta, ad esempio, nel successo dello slogan “Rialzati Italia” alle recenti elezioni : un concentrato di speranze utopiche, rassicurazioni identitarie e promesse di modernizzazione.

Breve analisi del risultato elettorale

Una siffatta griglia interpretativa consente, a mio parere, di comprendere bene l’esito delle elezioni del 13 e 14 aprile scorsi.

Se la sinistra radicale è crollata è perché si è attardata a parlare, con linguaggi ormai desueti (la contrapposizione di classe, cara a Bertinotti) a soggetti in via di estinzione (l’operaio massa della fabbrica fordista).

I suoi tradizionali elettori hanno preferito l’opzione “utile” del voto al Partito democratico o, al Nord, anche quella “trasgressiva” e di nuova assunzione identitaria del voto alla Lega (scelta fatta dal 10% degli ex-elettori della Sinistra Arcobaleno in Lombardia, addirittura dal 40% in Veneto).

D’altro canto, il successo di Bossi (nel Nord) e Berlusconi (nel Sud) si deve semplicemente al fatto che, meglio di chiunque altro, sono riusciti a intercettare bisogni pre-politici di identità sicurezza coesione e riscatto.

L’Italia “moderata”, né di destra né di sinistra perché apolitica e istintivamente antipartitica, è infatti, prima di ogni altra cosa, un paese disorientato, preoccupato per il suo declino, invecchiato e timoroso del futuro.

E’ un paese spazzato dai venti di una globalizzazione senza governo, i cui flussi si sono finora ridotti a essere, in ingresso, quelli di un’immigrazione sempre più tumultuosa e spesso clandestina e, in uscita, quelli della delocalizzazione delle aziende: un bilancio tra il deficitario e il catastrofico.

Non c’è da sorprendersi, allora, se l’Italia che ha votato a destra sia la stessa, come ha rilevato il Censis, che reclama più Stato, più welfare, più infrastrutture – insomma, protezione e sostegno.

Con la vicenda Alitalia, a bella posta enfatizzata per tutto il periodo di campagna elettorale, Berlusconi e Bossi, a differenza della sinistra, hanno dimostrato di avere capito qual è la nuova domanda che sale dal paese. Anche se intuire un bisogno non vuol poi dire essere in grado di darvi risposta.

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2 pensieri su “Silvio Berlusconi e l’Italia che verrà

  1. lollotestblog in ha detto:

    Mi sembra un esame molto interessante, anche se forse adatto a spiegare tutti i successi di Berlusconi e Bossi, non solo questo, e non gli insuccessi, che pure ci sono stati.Io ti sarei grato se provassi a completare la domanda che ti poni. Ossia non solo “Perche’ Berlusconi ha vinto” ma “Perche’ Berlusconi ha vinto e perche’ altre volte ha perso”. Lui ha sempre dato la colpa delle sconfitte agli alleati, e magari e’ semplicemente cosi’. O no?

  2. San Siro in ha detto:

    Analisi interessante e articolata, in parte condivisibile.Ma anche fuoriviante, perché manca il punto fondamentale, il dato che ha caratterizzato questi ultimi dieci anni rispetto ai precedenti: la gente si è impoverita in termini reali.A ben vedere, questa analisi di stampo sociologico si faceva tale e quale anche quindici o vent’anni fa, quando già si parlava di anomia e spaesamento.Oggi si è aggiunto il termine “paura” e con la paura si vuole appunto spiegare lo spostamento a destra, una risposta in termini di ripiegamento localistico, corporativo e identitario.Il termine “paura”, però, non è così innocentemente descrittivo come si può pensare. E’ un termine ideologicamente schierato, impiegato dagli economisti e dal fronte dei commentatori ufficiali.L’idea è che i processi di liberalizzazione dell’economia sono sempre e comunque positivi, ma producono cambiamenti che possono generare paura nei soggetti coinvolti. Spostando l’attenzione dai cambiamenti reali, cioè dall’impoverimento reale di ampie fasce della popolazione, a concetti di tipo sociopsicologico, si evita di affrontare il problema dell’aumento delle disuguaglianze in un’economia di fatto stagnante, ormai incapace di produrre un bene pubblico che sia uno e tutta centrata sull’edilizia e l’inflazione dei beni immobiliari.Come ho già avuto modo di dire nei post precedenti, l’aumento delle disuguaglianze è un fatto reale, viene misurato attraverso numeri, anche se da soli i numeri non dicono tutto.Gli economisti, però, fanno di tutto per non riconoscere l’esistenza di questo incremento.Un esempio è l’articolo di fondo di Giavazzi apparso sul Corriere della Sera il 30 aprile scorso, “Il liberismo e la speranza”. Dice Giavazzi: “Ma con la globalizzazione si sono accentuate le disuguaglianze, soprattutto nei paesi ricchi e poco importa che il motivo non siano le importazioni cinesi ma piuttosto le nuove tecnologie che premiano chi ha studiato e penalizzano il lavoro non specializzato. (Negli Stati Uniti il salario orario di un lavoratore che ha smesso di studiare a 16 anni nel 1972 era, ai prezzi di oggi, 15 dollari; 11 nel 2006. Quello di un laureato è invece aumentato da 24 a 30 dollari l’ora).”Un esempio davvero da manuale di come, in poche righe, si liquida la questione.Innanzi tutto, veniamo informati che le disuguaglianze esistono ma non ci si può fare nulla, perché la colpa è del progresso tecnologico, che non si può arrestare. (Commercio internazionale, delocalizzazioni, non hanno alcuna incidenza. Una tesi che molti economisti non condividono, ma siccome non hanno accesso al Corriere/Pravda, la cosa non è un problema, con buona pace di Popper.)Poi, c’è un’implicita condanna morale dei sedicenni che non sono andati avanti a studiare: se avessero proseguito gli studi non avrebbero avuto problemi.La soluzione è quindi laurearsi? Sembrerebbe di sì. Ma a parte il problema noto come “fallacy of composition”, se guardiamo da vicino i dati proposti da Giavazzi notiamo che in Usa non ci si ripara dall’incremento delle disuguaglianze neppure prendendosi la laurea: i laureati hanno visto sì incrementare i loro redditi reali del 25%, ma ci hanno messo 34 anni, il che equivale a un incremento dello 0,66% all’anno, equivalente grosso modo a un quinto dell’incremento del Pil pro capite.Per concludere, la causa della sconfitta della sinistra è da ricercarsi nella sua adesione ai modelli neo-liberali e al rifiuto di riconoscere il fatto nuovo dell’impoverimento di milioni di persone.Queste persone o non andranno più a votare o cercheranno un rifugio in quelle componenti della destra che si mostreranno, più a parole che con i fatti, comprensive dei loro problemi, riconoscendo almeno l’esistenza di difficoltà reali, cosa che alla sinistra è preclusa per definizione, data la sua adesione meccanica e irreversibile ai dogmi dell’economia neoclassica (vedi, ad esempio, la figura ridicola fatta con il caso Alitalia.)

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