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Curva dei rendimenti e politica del tasso zero

Dell’utilità della curva dei rendimenti (yield curve) come strumento di previsione delle recessioni economiche ho più volte parlato nel mio blog, da ultimo nel post I Fed funds sono al 2% ma le Borse calano. Perché? In quell’articolo mostravo come una curva piatta o invertita – dove cioè i tassi sui titoli di stato a 10 anni si trovano, in modo anomalo, allo stesso livello o addirittura più bassi di quelli a tre mesi – abbia sistematicamente precorso, con un anno circa di anticipo, tutte le recessioni americane dell’ultimo mezzo secolo.

Utilizzavo, a tal fine, un grafico della Federal Reserve di Cleveland, che vado qui a riprodurre aggiornato alla metà di dicembre.

Il grafico mette a confronto la curva dei rendimenti americana (linea rossa) – rappresentata nella sua forma più essenziale, e cioè come spread, o differenziale, tra il tasso a 10 anni e quello a tre mesi – con il tasso di crescita del Pil (linea blu). Le fasce in grigio indicano le recessioni. Quando la linea rossa scende sotto lo zero vuol dire che la differenza tra i rendimenti decennali e quelli a tre mesi è diventata negativa e che la curva dei rendimenti si è pertanto invertita.

Quello che si può osservare, come scrivevo già nel mio post di luglio, è che:
a) La yield curve ha una grande variabilità. In generale, curve molto ripide, con differenziali superiori ai due punti percentuali hanno preceduto fasi di rapida espansione economica ma anche crisi inflative (negli anni ’70 e primi anni ‘80), mentre curve piatte o invertite hanno preceduto fasi di stagnazione;
b) Tutte le recessioni americane dell’ultimo mezzo secolo sono state precedute, con un anno circa di anticipo, da una curva dei rendimenti piatta o invertita;
c) Ci sono stati un paio di falsi segnali. Nel 1968, l’inversione della curva accompagnò un brusco raffreddamento della congiuntura, con tassi di crescita che passarono dall’8% al 2%, ma non vi fu recessione (anche se gli effetti di un rallentamento così drastico furono per molti versi quelli di una vera crisi economica). Nel 1998, in concomitanza con il default russo e il collasso del fondo LTCM, che fecero temere una crisi sistemica dei mercati, la curva si appiattì ma la crescita economica seguitò robusta per un altro biennio – sull’onda dell’euforico gonfiarsi della bolla dei titoli tecnologici.

Nel luglio scorso, quando scrissi I Fed funds sono al 2% ma le Borse calano, circolavano ancora molti dubbi sull’eventualità che l’economia americana fosse o stesse per cadere in recessione. Ma nel mio articolo mi spingevo ad assegnarvi un’alta probabilità, confidando anche sul provato valore predittivo della curva dei rendimenti, che aveva trascorso diversi mesi in una configurazione piatta a cavallo tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007. Come si è poi visto, quella scommessa ha pagato. E gli investitori che già dal 2007 avessero prestato attenzione ai minacciosi segnali che la yield curve diffondeva – com’è stato il caso dell’Investitore Accorto – avrebbero potuto evitare la falcidia che si è poi abbattuta su molti portafogli.

Come mai uno strumento all’apparenza così semplice come la curva dei rendimenti sia tanto efficace nel predire le recessioni è ben riassunto in uno studio di Arturo Estrella e Frederic Mishkin, pubblicato dalla Federal Reserve di New York nel 1996. I due ricercatori osservano come la parte breve della curva sia molto influenzata dalle decisioni di politica monetaria della Banca centrale, che a loro volta condizionano l’andamento dell’attività economica con un ritardo temporale di alcuni trimestri. La parte lunga della curva, d’altra parte, riflette le aspettative del mercato riguardo all’evoluzione dei tassi reali e dell’inflazione. I tassi reali attesi incorporano la percezione del mercato sul corso futuro della politica monetaria. Mentre l’inflazione attesa contiene anche un elemento di anticipazione della crescita economica, dato che crescita e inflazione tendono a essere positivamente correlate.

Una curva piatta o invertita, dunque, prende di solito forma quando la Banca Centrale alza i tassi a breve al punto da generare aspettative di più bassi tassi e più bassa inflazione in futuro. Si tratta di condizioni tipicamente associate all’instaurarsi di una recessione. E come l’esperienza insegna, il mercato – in questo – dimostra di saper leggere nel futuro con notevole acume.

Cosa ci rivela invece una curva positivamente inclinata, in cui i tassi a lunga sono più alti di quelli a breve?

Entro una certa soglia – più o meno attorno ai due punti percentuali – non ci dice nulla di particolare. Si tratta infatti di una condizione normale. Più si allontanano le scadenze, più i tassi d’interesse tendono a innalzarsi per compensare gli investitori dei maggiori rischi. E in ogni obbligazione ce ne sono diversi, come quello di insolvenza, di mercato, di liquidità, di inflazione, di reinvestimento. In un titolo particolarmente sicuro come un T-bond americano si può assumere che i rischi di insolvenza e di liquidità siano prossimi allo zero, ma restano gli altri, primo fra tutti il rischio di inflazione.

Oltre quel limite approssimativamente posto attorno ai due punti percentuali, però, è ragionevole pensare che una curva positivamente inclinata ci indichi che crescita e inflazione sono destinate a prendere forza, per gli stessi motivi per cui una curva piatta o negativamente inclinata ci ammonisce dell’approssimarsi di una recessione. Uno sguardo al grafico della Federal Reserve di Cleveland, che ho riprodotto all’inizio di questo post, pare confermarlo.

Veniamo ora al dunque. Che forma ha, di questi tempi, la curva dei rendimenti americana? Ce lo mostra il seguente grafico, che traggo da Stockcharts.

La yield curve è piuttosto ripida. I tassi a tre mesi sono praticamente a zero, mentre quelli a 10 anni si aggirano attorno al 2,35%. Lo spread è superiore al 2%. La curva, dunque, sembra dirci che il mercato sconta condizioni di crescita economica e inflazione più sostenute nei trimestri a venire.

Questa è anche l’interpretazione degli economisti della Federal Reserve di Cleveland, che sulla base di un modello che mette in relazione l’andamento della curva dei rendimenti alla crescita del PIL, hanno elaborato, a metà dicembre (quando la yield curve era un po’ più ripida di quanto non sia oggi), la previsione illustrata nel seguente grafico:

Nel corso del prossimo anno – scrivono – il PIL americano dovrebbe crescere a un tasso del 3% circa. Si tratta di una delle previsioni più ottimistiche tra quelle formulate dagli economisti americani, la cui stima di consenso – stando all’ultimo sondaggio mensile del Wall Street Journal – si ferma a un deludente tasso di crescita dello 0,0% (zero) nel quarto trimestre del 2009 rispetto al quarto trimestre del 2008.

Chi, come l’Investitore Accorto, ha dato credito – con successo – alle capacità predittive della curva dei rendimenti quando si è trattato di anticipare una recessione dovrebbe ora riporre altrettanta fiducia in questa stima di una robusta ripresa ciclica nei trimestri a venire?

Ho i miei seri dubbi. E la pulce nell’orecchio me l’ha messa Paul Krugman (nella foto in alto), il fresco premio Nobel per l’economia. Nel suo blog, The Conscience of a Liberal, Krugman osserva come la discesa dei tassi a breve americani verso la soglia minima di zero – sanzionata dalla Federal Reserve a metà dicembre – modifica alla radice il senso dei segnali inviati dalla curva dei rendimenti.

In condizioni normali, scrive Krugman, i tassi a breve possono sia scendere che salire. Il mercato, nella parte lunga della curva, è dunque libero di dare corpo alle sue aspettative, sia in un senso che nell’altro: tassi più alti se si prevede più crescita e inflazione, tassi più bassi se si sconta il contrario.

Ma ora, con i tassi a breve che hanno toccato il fondo, questa libera scommessa non può avere luogo. In ogni caso, è escluso che i tassi a breve, in futuro, scendano ancora mentre resta possibile, al contrario, che salgano. In queste condizioni, i tassi a lunga – nota Krugman – finiscono per comportarsi come il prezzo di un’opzione.

Una conferma di questa interpretazione verrebbe da quanto accadde in Giappone verso la fine degli anni ’90, quando la Banca centrale giapponese adottò una politica del tasso zero, proprio come ha fatto ora la Federal Reserve. I rendimenti decennali dei titoli di stato giapponesi oscillarono allora mediamente attorno all’1,75% – non troppo al di sotto di dove si trovano al momento negli Usa. Quello spread non fu né un segnale di ripresa né di normale crescita. Il paese, infatti, rimase a lungo in stagnazione.

“Triste a dirsi – conclude Krugman – la curva dei rendimenti non ci offre alcun conforto. Ci dice soltanto quello che già sappiamo, e cioè che la politica monetaria convenzionale (affidata alle manovre sui tassi, ndr) ha letteralmente toccato il fondo.”

Anche uno strumento prezioso come la curva dei rendimenti sembra dunque avere i suoi limiti.

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I Fed funds sono al 2% ma le Borse calano. Perché?

Un lettore, Francesco, mi ha scritto chiedendo lumi su una “teoria” appresa da un amico che ha un master alla Bocconi, secondo cui “quando i tassi sono bassi, le azioni iniziano a salire, quando i tassi sono alti iniziano a scendere”. Francesco, facendo dei confronti tra andamenti di Borsa e tasso Euribor dal 2000 a oggi ne ha ricavato delle conferme. Ma ha cominciato a scorgere “anomalie” quando ha esteso le sue verifiche ai tassi a breve americani. Un livello accomodante dei Fed funds non ha originato una pronta ripresa dei corsi azionari né nel 2001 né oggi. Come stanno dunque le cose? Continua a leggere…

Ci salverà la Federal Reserve?

In tempi di difficoltà, investitori e operatori economici tornano a guardare, con un misto di ansia e speranzosa attesa, alla Federal Reserve, e la Federal Reserve non manca di far sentire le sue rassicurazioni. Il copione si è ripetuto giovedì scorso, quando Ben Bernanke (nella foto), in un discorso tenuto a Washington, ha riconosciuto che le prospettive per l’economia americana sono peggiorate, ma si è affrettato ad aggiungere che la banca centrale è “pronta a mettere in atto ulteriori, effettive (“substantive”) misure per sostenere la crescita e offrire assicurazione adeguata contro i rischi di downside”.

In linguaggio meno obliquo, la promessa è di tagli più sostanziosi al Fed Funds, il tasso a breve che in tre occasioni, tra settembre e dicembre, la Federal Reserve ha già provveduto a far scendere dal 5,25% al 4,25%.

Attese di questo genere, per la verità, sono andate montando sui mercati già dall’inizio della scorsa estate, come evidenzia il grafico seguente, che mostra il prezzo del future sul Fed Funds con scadenza gennaio 2009.

Se a giugno si prevedevano tassi a breve stabili al 5,25% per i 18 mesi successivi, ora la scommessa è di un Fed Funds al 2,5%. Il mercato sconta, cioè, riduzioni di altri 175 punti base entro il gennaio prossimo.Basta questo per pensare che una recessione possa essere evitata e che le Borse riescano a sfuggire alla morsa del bear market?

Tassi d’interesse e cicli di mercato

Un detto da sempre popolare a Wall Street è “Don’t fight the Fed”: “non lottare contro la Federal Reserve.” Il senso è che condizioni monetarie restrittive sono ostili ai mercati azionari, mentre condizioni espansive sono favorevoli alla ripresa tanto del ciclo economico che dei corsi di Borsa.

Se però tale detto non è stato poi tanto invocato negli ultimi mesi, un motivo c’è: nell’ultimo ciclo ribassista, tra il 2001 e il 2002, chi vi aveva fatto affidamento andò incontro a brucianti perdite.

La manovra di riduzione dei tassi orchestrata allora dal “Maestro” Alan Greenspan a partire dai primi giorni del gennaio 2001 non riuscì a evitare né la recessione economica nel secondo e terzo trimestre di quello stesso anno, né un bear market azionario che proseguì con asprezza sempre più brutale fino all’autunno dell’anno seguente.

Un’analisi che circolò allora diffusamente tra gli operatori di mercato fu quella prodotta, nel marzo 2001 (in occasione del terzo taglio ai Fed Funds di quel ciclo), da Ned Davis Research, uno dei migliori e più prestigiosi centri di ricerca e “market timer” americani.

Lo studio metteva in luce come, in 12 delle 13 occasioni precedenti, nei cicli susseguitisi dal 1921 in poi, la terza riduzione del costo del denaro era stata decisiva nel risollevare il mercato azionario: tre, sei, dodici mesi dopo quel terzo taglio Wall Street aveva fatto segnare performance positive, con un guadagno medio che, nell’arco di un anno, era stato superiore al 20%.

L’unica eccezione? Il crollo del 1929. Dopo la terza riduzione dei tassi da parte della Federal Reserve, il Dow Jones aveva allora continuato a franare, perdendo un altro 36% nei 12 mesi successivi.

A posteriori si è visto come l’eccezione del 1929 si sia sostanzialmente ripetuta col devastante scoppio della bolla dei titoli tecnologici tra il 2001 e il 2002. I tagli dei tassi da parte della Federal Reserve continuarono fino al giugno del 2003, e solo a quel punto consentirono finalmente il consolidarsi di aspettative di ripresa.

E oggi? Il ciclo ribassista appena iniziato costituirà un ritorno alla regola (“Don’t fight the Fed”) o una nuova eccezione?

Tassi, valutazioni e curva dei rendimenti

L’amara lezione del passato bear market ha spinto gli analisti migliori verso maggiori livelli di sofisticazione, che riflettono anche la crescente complessità di mercati finanziari sfuggiti di mano, negli ultimi anni, allo stretto controllo delle banche centrali.

Di una delle più autorevoli di tali analisi, a cura di William Hester di HussmanFunds.com, riferivo a ottobre nel post Borse, tassi e bufale a mezzo stampa, che invito a rileggere.

Riassumendo le conclusioni di quello studio, scrivevo allora così:

Tre sono le osservazioni da fare:

a) le performance migliori – spesso addirittura esplosive – il mercato azionario le ha offerte in reazione a riduzioni dei tassi che avevano luogo in un contesto di valutazioni depresse (P/PE inferiore a 15), tipicamente verso la fine di un bear market (PE sta per Peak Earnings, e cioè utili al picco del ciclo, una misura “normalizzata” degli utili ideata da John Hussman);

b) in subordine, performance positive si sono registrate quando una curva dei rendimenti positivamente inclinata (con tassi a lunga più alti dei tassi a breve) segnalava attese di una ripresa del ciclo economico;

c) diverso è stato l’esito quando le valutazioni erano elevate e i tagli dei tassi a breve hanno coinciso o fatto seguito a una fase di inversione della curva dei rendimenti che segnalava attese di stagnazione o recessione: i ritorni del mercato sono stati negativi sia a 6 che a 12 o a 18 mesi (è stato così nel 2001-2002, ma anche nel ciclo di riduzioni dei tassi che accompagnò il bear market del 1968).

Quale di queste tre diverse tipologie è meglio applicabile alla situazione attuale?

Per Hester non ci sono dubbi. L’S&P 500 è scambiato oggi a 18,4 volte i Peak Earnings, un multiplo molto elevato anche se si rinuncia a normalizzare i livelli record dei margini di profitto (operazione che spingerebbe i multipli a livelli ancora più alti).

In secondo luogo, la curva dei rendimenti, nei mesi scorsi, è stata a lungo negativa, esprimendo attese di stagnazione e forse di recessione economica, non certo di ripresa. E’ tornata positiva solo di recente, quando il mercato ha cominciato a scontare una drastica riduzione dei tassi a breve.

Insomma, mercati azionari riccamente valutati e vicini ai massimi, in un contesto in cui i rendimenti obbligazionari segnalavano timori che una crescita vigorosa lasciasse il passo a una fase di debolezza economica, non hanno storicamente risposto bene all’avvio di un ciclo di riduzioni del costo del denaro da parte della Fed.

Era questa la situazione a cavallo tra il 2000 e il 2001. Ed è questa – se si sta ai tre parametri identificati da Hester – la situazione anche oggi.

Mercato casa e tassi

Allo scetticismo di Hester sulla possibilità che la Federal Reserve possa fare la differenza nell’attuale contesto di mercato si sono aggiunte, in questi giorni, le pessimistiche osservazioni di Paul Krugman sull’efficacia ridotta che lo strumento dei tassi a breve rischia di avere nella presente congiuntura economica.

In un post sul suo blog, The Conscience of a Liberal, Krugman osserva come il più importante canale di trasmissione della politica monetaria della Federal Reserve – molto più importante degli investimenti delle imprese – sia il mercato della casa.

Come mai? Per una questione di durata. Un mutuo per la casa può durare 30 anni, mentre per l’acquisto di macchinari un’impresa tipicamente si indebita a una scadenza attorno ai 5 anni. E se i tassi scendono dal 6% al 4%, la rata mensile per l’impresa scenderà appena del 5% ma quella del mutuatario del 20%.

La differenza è enorme e spiega perchè sia proprio il mercato immobiliare il settore dell’economia più sensibile alle manovre sul costo del denaro da parte della banca centrale.

In una recessione, dice Krugman, quello che tipicamente succede è che la Fed taglia i tassi, il mercato della casa si rianima, e da qui la ripresa della domanda si trasmette via via al resto dell’economia.

Ma si tratta di uno scenario realistico nella situazione di oggi? Per Krugman, niente affatto, visto che lo scoppio della bolla immobiliare è l’epicentro della crisi, e il ritorno a valutazioni realistiche appare ancora molto lontano, come dimostra il seguente grafico, a cura del Congressional Budget Office, sul rapporto tra prezzi e affitti (price-to-rent ratio):

Conclude Krugman: “E’ mai possibile che la Fed riesca a tagliare i tassi al punto da creare un altro boom immobiliare? […] E se non è possibile, quanto può davvero fare la Fed per aiutare l’economia?”

Può fare poco, sembra. Sia per sostenere i mercati che l’economia. Ma questa è la storia di tutte le bolle. Sono, purtroppo, eccezionali: nell’euforia che generano, e nelle depressioni che lasciano al loro passaggio.

Il mercato delle idee: curve, commodities e bolle

Tra gli articoli recenti che vado a esporre nel mercato delle idee ci sono le riflessioni di Barry Ritholtz sui dati americani sull’inflazione, un ammonimento di Mike Panzner tratto dall’andamento della curva dei rendimenti, le previsioni di PIMCO, che resta bullish sui mercati delle commodities, un’interessante ricerca di Michael Mauboussin sull’importanza del carattere per un investitore, le considerazioni di Northern Trust sui tratti sempre più speculativi del rally del mercato azionario cinese.

Le borse si sono entusiasmate per gli ultimi dati sull’inflazione Usa. Ma le statistiche sono ingannevoli, come ben argomenta Barry Ritholtz in The Big Picture.

La curva dei rendimenti Usa, dopo un protratto periodo di inversione, è tornata ad avere un’inclinazione positiva, in seguito al brusco rialzo dei tassi a lunga. Chi ha interpretato positivamente la novità, e sono i più, rischia di sbagliarsi di grosso, come mostra Mike Panzner su Bloggingstocks.

Il pessimismo sul dollaro va molto di moda. Eppure, forse anche per questo, il biglietto verde potrebbe essere a una svolta. Di nuovo Mike Panzner nel suo blog .

Bill Gross, “re dei bond” e fondatore di PIMCO, illustra le previsioni di medio-lungo periodo del suo gruppo: crescita globale sostenuta, tassi in ripresa, dollaro sempre debole, borse OK e rally di materie prime e valute emergenti.

Per BCA Research i mercati azionari restano attraenti rispetto agli asset concorrenti, anche dopo la recente ascesa dei rendimenti obbligazionari. Il consiglio è di continuare a comprare nelle fasi di debolezza (“buy the dips”).

L’ultimo paper di Michael Mauboussin è, come sempre, affascinante. Sono i tratti del carattere quelli che distinguono i grandi investitori, come d’altra parte sembra avere ben chiaro Warren Buffett nella ricerca di un successore alla guida del suo gruppo. Quali sono le caratteristiche che Buffett ritiene essenziali? L’abilità di riconoscere ed evitare i rischi gravi, la capacità di pensare in modo indipendente, la stabilità emotiva e il talento nel comprendere i comportamenti umani.

Ticker Sense ogni settimana tasta il polso di oltre 50 tra i più noti blogger finanziari, per conoscere le loro attese sui mercati azionari. Il sentiment resta in prevalenza negativo, una condizione che ha accompagnato tutto il rally dell’ultimo anno.

Crosscurrents di Alan Newman documenta il fervore speculativo che anima la Borsa americana. I volumi negoziati sono tornati a superare un multiplo di tre volte il Pil per la seconda volta nella storia (la prima, ovviamente, è stata nel 2000), l’holding period medio di un titolo azionario è sceso verso i 6 mesi, e la liquidità detenuta dai fondi è crollata ai livelli più bassi di sempre. Conclusione? Gli investitori sono quasi scomparsi e domina il trading di breve periodo in un mercato ipercomprato. Newman prevede una correzione almeno del 15% entro l’autunno.

Think BIG di Bespoke Investment Group osserva come il rally dei rendimenti obbligazionari americani, che alle scadenze decennali hanno superato di gran corsa la soglia del 5%, abbia colpito l’immaginazione dei media. Ne hanno parlato tutti con grande rilievo, anche i piccoli giornali di provincia, tra attese di continui rialzi. Quando il sentiment si fa così estremo – commenta il blog – è probabile che un massimo, per lo meno di breve periodo, sia stato raggiunto.

Northern Trust analizza la bolla del mercato azionario cinese, simile ormai al Nasdaq di fine anni ’90. Non solo il multiplo P/E ha toccato il livello irragionevole di 44 volte gli utili dello scorso anno, ma la volatilità è sempre più elevata, segno di un mercato molto speculativo. Solo negli ultimi sei mesi ci sono state 11 sedute in cui l’indice di Shanghai ha chiuso con variazioni superiori al 4%. Benché manchino dati precisi, c’è ampia evidenza del fatto che i piccoli investitori cinesi, che contano anche per l’80% delle transazioni nelle giornate più attive, ricorrono ampiamente al debito per “giocare” in borsa. Quando la bolla scoppierà – e non c’è dubbio che scoppierà – sarà difficile per le autorità evitare gravi ripercussioni sociali. E il colpo che verrà inferto ai consumi dell’emergente classe media cinese finirà per pesare sull’export di tutto il continente asiatico.

Sei ragioni per cui l’ascesa dei rendimenti obbligazionari è una minaccia per i mercati azionari: le illustra Barry Ritholtz su The Big Picture.

L’oro, negli ultimi mesi, ha subito una sensibile correzione. Ma per Prieur du Plessis c’è un lungo bull market ancora davanti a noi. Le analogie con il ciclo degli anni ’70, analizzate in un post sul blog Investment Postcards from Cape Town, sono suggestive.

 

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