I Fed funds sono al 2% ma le Borse calano. Perché?
Un lettore, Francesco, mi ha scritto chiedendo lumi su una “teoria” appresa da un amico che ha un master alla Bocconi, secondo cui “quando i tassi sono bassi, le azioni iniziano a salire, quando i tassi sono alti iniziano a scendere”. Francesco, facendo dei confronti tra andamenti di Borsa e tasso Euribor dal 2000 a oggi ne ha ricavato delle conferme. Ma ha cominciato a scorgere “anomalie” quando ha esteso le sue verifiche ai tassi a breve americani. Un livello accomodante dei Fed funds non ha originato una pronta ripresa dei corsi azionari né nel 2001 né oggi. Come stanno dunque le cose?
Del rapporto tra tassi d’interesse e mercati azionari mi sono già interessato, ad esempio nei post Il fantomatico Fed Model e in Borse, tassi e bufale a mezzo stampa.
In quest’ultimo articolo, in particolare, prendevo di mira la tesi sostenuta da un servizio di CorrierEconomia dell’ottobre scorso, quando Wall Street aveva appena toccato i massimi e la Federal Reserve aveva da poco avviato la sua manovra di riduzione del costo del denaro, in cui si diceva che i tagli dei tassi da parte della Fed erano “una specie di polizza assicurativa per le Borse“.
Tale parere era corroborato da un commento dell’amministratore delegato di Meliorbanca private, Giuliano Cesareo, secondo il quale “Quando i tassi americani scendono – e per ora accade – è statisticamente difficilissimo che le azioni vadano male.”
CorrierEconomia e Cesareo ripetevano dunque la “teoria” dell’amico bocconiano del mio lettore Francesco: un modello di funzionamento delle Borse semplice, suggestivo, di consolidata tradizione (è infatti la mera riproposizione della massima di Wall Street “Don’t fight the Fed”, non lottare contro la Fed) ma, all’evidenza, non abbastanza rispettoso della realtà.
Di quali tassi parliamo?
In linea di massima, a sostegno della tesi per cui a tassi in ribasso dovrebbero corrispondere mercati azionari in rialzo si possono addurre diversi motivi. Eccone tre:
a) Riducendo i tassi a breve le banche centrali agevolano il credito e stimolano l’attività economica. Le attese di una ripresa ciclica dei profitti rendono più attraenti le azioni (calano infatti i P/E prospettici) e spingono al rialzo le Borse.
b) Tassi d’interesse più bassi riducono l’attrazione relativa di obbligazioni e cash rispetto alle azioni. Gli investitori tendono così a ricomporre i portafogli privilegiando il rischio. Una maggiore domanda di azioni sostiene le quotazioni di Borsa.
c) Tassi d’interesse più bassi riducono il costo del capitale. Un più basso tasso d’attualizzazione dei flussi di cassa futuri fa lievitare le stime del valore intrinseco delle aziende. A parità delle altre condizioni, tassi d’interesse più bassi inducono gli investitori a considerare le azioni sottovalutate.
Si tratta di buone ragioni? E se sì, perché non sempre funzionano? E’ chiaro infatti che, come facevo notare nel mio post di ottobre, il modello “Don’t fight the Fed” è stato smentito dai bear market azionari del 2001-2002 e del 1968. In Borse, tassi e bufale a mezzo stampa mi spingevo a profetizzare che avrebbe fallito anche nel 2008 e i fatti finora mi hanno dato ragione.
Il problema è che, in tutte le considerazioni sin qui svolte, seguendo l’input del mio lettore, c’è un assunto di base che è fonte di confusione. Si dà infatti per scontato che l’azione delle banche centrali sui tassi a breve sia immediatamente efficace, a cascata, su tutta la struttura dei tassi d’interesse.
L’errore di fondo della “teoria” riassunta nel detto “Don’t fight the Fed” sta dunque nella semplicistica ipotesi di partenza per cui tassi a breve più bassi porteranno a tassi a lunga più bassi e a credit spread (cioè gli spread tra titoli di stato sicuri e altri titoli di credito più rischiosi) più bassi: una concatenazione di eventi che non sempre si avvera, o che magari finisce per verificarsi solo a distanza di anni.
Solo ipotizzando un uniforme slittamento di tutta la struttura dei tassi d’interesse, infatti, risultano efficaci le tre giustificazioni della teoria che prima elencavo. L’azione di stimolo dell’economia, ad esempio, ha luogo più grazie ai tassi a lunga che a quelli a breve. E anche le valutazioni azionarie utilizzano come input i tassi a lunga e non quelli a breve.
Le banche centrali, dunque, pur potendo molto in virtù del privilegio loro concesso di regolare i tassi a breve, non hanno in mano il destino delle economie e dei mercati. I giochi sono, anche per loro, più intricati.
L’importanza della curva dei rendimenti
Nel mio post di ottobre avevo alluso a queste complicazioni, senza però esplicitarle. Avevo infatti utilizzato, nella mia critica agli ingenui (o interessati) sostenitori del “Don’t fight the Fed”, un meticoloso studio di William Hester per la società di gestione Hussman Funds, da cui risultava che per comprendere i nessi tra tassi d’interesse e Borse non basta guardare all’andamento dei tassi a breve, direttamente manovrati o condizionati dalle banche centrali, ma occorre tenere conto del rapporto tra tassi a breve e tassi a lunga (la cosiddetta curva dei rendimenti) e della valutazione dei mercati azionari.
Scrivevo a ottobre che le riduzioni dei tassi a breve in un contesto di valutazioni azionarie elevate e di curva dei rendimenti piatta o invertita (com’era accaduto nel 2001 e come si era ripetuto nel 2007) si erano dimostrate storicamente inefficaci nel ridare slancio alle Borse.
Sono passati da allora otto mesi. La Fed ha portato i tassi a breve dal 5,25% al 2% ma le Borse hanno continuato a scendere, a conferma che il modello multifattoriale di Hester è più valido del semplicistico modello unifattoriale di chi si affida al motto “Don’t fight the Fed”.
Continuando a scavare tra le pieghe di quel post, vorrei ora cercare di chiarire come vada interpretata la curva dei rendimenti, e cioè il mutevole rapporto tra tassi a breve e tassi a lunga.
Dicevo che sia nel 2001 che nel 2007 la Fed avviò la sua campagna di allentamento monetario a partire da un’anomala condizione di curva dei rendimenti piatta o invertita. Eccone la riprova, in questi due grafici tratti da Stockcharts (la cui dinamic yield curve è un utilissimo tool che consiglio di tenere a portata di mouse).
Nel primo grafico sono riportati i tassi sui titoli del Tesoro americano da 3 mesi a 30 anni il primo settembre 2000, subito prima che cominciassero a premere sulla parte breve della curva le attese di una riduzione dei Fed funds e quando l’indice S&P 500 (a destra) si trovava a 1520 punti, ai massimi di quel ciclo. La Fed iniziò a tagliare i tassi quattro mesi dopo, ai primi di gennaio.
Nel secondo grafico è invece riportata la curva dei rendimenti dei titoli di stato americani il 2 luglio 2007, prima che si facessero sentire le attese di interventi da parte della Fed e, di nuovo, con l’indice S&P 500 a 1520 punti, in prossimità dei massimi dell’ultimo ciclo. La Fed diede il via a una serie di tagli dei Fed funds il 18 settembre, due mesi e mezzo più tardi.
Le due curve sono simili. La prima è chiaramente invertita mentre la seconda è piatta. Ma la sostanza è che sono entrambe anomale. La normalità di una struttura dei tassi d’interesse è infatti di pendere all’insù di modo che più è lontana la scadenza più alto è il tasso. E il tasso è maggiorato per ripagare l’investitore del rischio crescente.
In ogni obbligazione, infatti, chi presta il denaro esige di essere compensato per vari tipi di rischio, che aumentano all’allontanarsi della scadenza: rischi di insolvenza, di mercato, di liquidità, di inflazione, di reinvestimento. Se in un titolo del Tesoro americano possiamo assumere che i rischi di insolvenza e di liquidità siano prossimi allo zero, restano però gli altri, primo fra tutti il rischio di inflazione.
Come va dunque interpretata una curva dei rendimenti piatta o invertita, in cui la parte lunga (tipicamente si guarda al tasso a 10 anni) è allo stesso livello o addirittura più bassa di quella breve (fino a due anni)? Sembra che in una condizione del genere gli investitori non siano remunerati per il rischio. Ma non è così.
In una curva invertita il mercato esprime da un lato la valutazione che le condizioni di offerta di credito da parte della banca centrale sono insostenibilmente restrittive e dall’altro l’attesa che gli effetti della restrizione monetaria saranno la contrazione dell’attività economica e la disinflazione.
In breve, una curva piatta o invertita è uno dei migliori precursori di una recessione.
La conferma è visibile nel seguente grafico, a cura della Federal Reserve di Cleveland, che mette a confronto la curva dei rendimenti americana (linea rossa) con il tasso di crescita del Pil (linea blu) negli ultimi 55 anni. Le fasce in grigio indicano le recessioni.
La curva dei rendimenti è qui rappresentata nella sua forma più essenziale, e cioè come spread, o differenziale, tra il tasso a 10 anni e quello a tre mesi. Quando la linea rossa scende sotto la linea dello zero vuol dire che il tasso a tre mesi è più alto e che la curva dei rendimenti si è dunque invertita.
A questo punto è facile fare le seguenti osservazioni:
a) La curva dei rendimenti ha una grande variabilità. In generale, curve molto ripide, con differenziali superiori ai due punti percentuali tra tassi a tre mesi e tassi a dieci anni hanno preceduto fasi di rapida espansione economica ma anche crisi inflative (negli anni ’70 e primi anni ‘80), mentre curve piatte o invertite hanno preceduto fasi di stagnazione;
b) Più nel dettaglio, tutte le recessioni americane del dopoguerra sono state precedute, con un anno circa di anticipo, da una curva dei rendimenti piatta o invertita;
c) Ci sono stati un paio di falsi segnali. Nel 1968, l’inversione della curva accompagnò un brusco raffreddamento della congiuntura, con tassi di crescita che passarono dall’8% al 2%, ma non vi fu recessione (anche se gli effetti di un rallentamento così drastico furono per molti versi quelli di una vera crisi economica). Nel 1998, in concomitanza con il default russo e il collasso del fondo LTCM, che fecero temere una crisi sistemica dei mercati, la curva si appiattì ma la crescita economica seguitò robusta – sin troppo, sull’onda dell’euforico gonfiarsi della bolla dei titoli tecnologici – per un altro biennio.
d) Resta l’enigma del ciclo attuale (il presente è sempre più difficile da interpretare!). La curva dei rendimenti è stata invertita o piatta per tutto il secondo semestre del 2006 e il primo semestre del 2007 ma la crescita economica, pur soggetta a un marcato rallentamento, è rimasta sinora positiva.
Curva dei rendimenti e recessione
Si può ritenere che il pericolo di recessione sia ormai alle spalle e che la curva, da un anno ormai positivamente inclinata, sia passata a scontare attese di una nuova ripresa del ciclo?
E’ questa l’interpretazione della Federal Reserve e dell’amministrazione americana. E’ stata questa, fino a qualche settimana fa, anche l’opinione di consenso del mercato, che di recente si è fatto però meno ottimista.
Come è noto a chi ha letto il mio blog dal suo avvio, già dal primo semestre del 2007 sono sempre stato dell’idea che gli Usa fossero avviati verso una recessione. Da qualche mese, sono anche convinto che una recessione sia già in corso anche se i dati ufficiali sul Pil (notoriamente tardivi e soggetti a protratte e corpose revisioni) non l’hanno per ora resa manifesta.
E’ questo un punto che ho trattato in diversi altri post, e dunque non mi dilungherò. Mi limiterò a citare Macroeconomic Advisers ed ECRI, due dei più prestigiosi centri privati di analisi economica. Il primo produce una stima mensile (anziché trimestrale, come quella ufficiale) del Pil americano, da cui risulta che la crescita ha cominciato a contrarsi da febbraio. Il secondo pubblica uno dei più apprezzati indicatori anticipatori del ciclo Usa, che da diverso tempo continua a prevedere una recessione.
Una contrazione dell’economia a partire dal primo trimestre di quest’anno sarebbe coerente con il segnale dato dalla curva dei rendimenti, che si invertì a cavallo tra il 2006 e il 2007, con il consueto anticipo di circa un anno.
Sarebbe anche coerente con i segnali che arrivano dai mercati azionari. Wall Street ha toccato i massimi lo scorso ottobre e da lì è entrata in un bear market che sarebbe dunque iniziato pochi mesi prima del precipitare di una recessione: un comportamento tipico e analogo a quanto accadde nel ciclo precedente, quando l’economia Usa entrò in recessione nel marzo del 2001, pochi mesi dopo l’inizio del bear market azionario.
Tassi a breve, tassi a lunga e credit spread
I tassi d’interesse influiscono dunque, eccome, sull’attività economica e sulle Borse. La difficoltà sta nel fatto che non basta prendere in considerazione i tassi a breve, governati dalle banche centrali. Sono le relazioni interne all’intera struttura dei tassi che contano, nella loro mutevole conformazione, plasmata continuamente non solo dagli input che arrivano dalle autorità monetarie ma anche dai feedback provenienti dai mercati finanziari.
Come ci dimostra il modello interpretativo utilizzato da Hester, per giudicare l’efficacia dell’azione di una banca centrale bisogna guardare al contesto in cui si colloca. Una manovra di allentamento monetario che prenda avvio quando la curva dei rendimenti è già piatta o invertita si rivelerà, con buona probabilità, tardiva, almeno dal punto di vista dell’investitore: non riuscirà cioè a evitare una recessione economica e, come corollario, un bear market azionario.
Vorrei a questo punto aggiungere un’ultima osservazione, che ci porta oltre il modello di Hester cui finora ho fatto riferimento. L’analisi della curva dei rendimenti ci ha permesso di osservare un’importante analogia tra l’attuale ciclo e quello che prese le mosse nel 2000, quando ci fu pure un’inversione della curva negli Usa, seguita dall’avvio di un bear market azionario, seguito a sua volta da una recessione economica (dal marzo al novembre del 2001).
Tra quel ciclo e l’attuale c’è però anche una macroscopica differenza, che è possibile individuare estendendo l’analisi del ruolo giocato dai tassi d’interesse anche ai credit spread, cui ho già accennato, e che possono essere genericamente definiti come tutti gli spread, o differenziali, tra i tassi privi di rischio (e cioè quelli sui titoli di stato) e i tassi di altri strumenti di credito che incorporano invece un qualche premio per il rischio.
Questi spread, nelle varie fasi del ciclo economico e nelle diverse condizioni di mercato, tendono a fluttuare anche in modo vistoso. In momenti di accentuata avversione al rischio da parte degli investitori e di cosiddetta flight to quality (fuga verso la qualità), i credit spread si allargano mentre tendono invece a contrarsi quando l’ottimismo si diffonde, e con esso la propensione degli investitori a cercare rendimenti più elevati aumentando la rischiosità dei portafogli.
Le variazioni dei credit spread, com’è evidente, hanno effetti rilevanti sulla struttura complessiva dei tassi d’interesse e condizionano ampiamente l’impatto che ogni intervento messo in atto dalle banche centrali finisce per avere sui mercati e sull’attività economica.
In condizioni normali, una riduzione del costo del denaro operata da una banca centrale agevola la creazione di credito, stimola l’attività economica, incoraggia l’assunzione di rischio. L’intervento distensivo si dispiega ai più diversi livelli, riverberandosi dai tassi a breve a quelli a lunga, dai titoli di stato ai credit spread. Perché gli effetti espansivi si trasmettano dai mercati finanziari all’economia reale deve trascorrere del tempo ma nel corso di 12-18 mesi l’iniziale impulso ottiene gli effetti desiderati.
L’anomalia del ciclo attuale: il credit crunch
Quella di oggi, negli Usa, non è però una condizione normale. Per dimostrarlo utilizzerò un grafico pubblicato dal blog Calculated Risk qualche mese fa. Mette in parallelo, per il periodo dal 2002 al marzo scorso, il rendimento dei titoli del Tesoro decennali (linea blu), il tasso sui mutui trentennali (linea rossa) e lo spread tra i due (linea nera).
L’attuale ciclo distensivo presenta una vistosa anomalia rispetto a quello del 2001-2003. Mentre allora, se si eccettua una breve parentesi di marcata avversione al rischio nell’estate del 2002, lo spread tra titoli del tesoro e mutui trentennali restò sostanzialmente stabile, all’interno della normale forchetta tra 1,5 e 2 punti percentuali, di recente lo spread non ha fatto che lievitare, portandosi oltre i 2,5 punti percentuali a mano a mano che i tassi sui Treasury decennali scendevano per effetto dell’azione distensiva della Fed e delle attese di raffreddamento del ciclo economico.
Il grafico si ferma a marzo. Ma da lì in poi la sostanza non è mutata. I rendimenti dei T-bond sono risaliti dal 3,30% di metà marzo al 4,30% di metà giugno per poi tornare a scendere sotto il 4%. Nel frattempo i tassi sui mutui trentennali sono saliti al 6,5%, mantenendo dunque uno spread di circa due punti e mezzo e riportandosi persino al di sopra dei livelli dove si trovavano quando la Fed avviò la sua manovra distensiva nel settembre scorso.
Nonostante l’entità dei tagli (i tassi a breve, ripeto, sono scesi in gran fretta dal 5,25% al 2%) la manovra della Federal Reserve non si sta trasmettendo all’importantissimo mercato della casa, dove contrarre un mutuo è diventato più difficile e oneroso di nove mesi fa.
E’ evidente tutta la straordinarietà della situazione attuale, che rende questo ciclo diverso – nonostante le similitudini notate a livello di curva dei rendimenti – anche da quello del 2001.
Se i tassi sui mutui non scendono nonostante gli sforzi della Fed è perché il mercato immobiliare sconta un aumentato rischio di credito. Lo stesso sta accadendo con diversi altri credit spread. L’effetto complessivo è quello tipico di un cosiddetto credit crunch. La banca centrale estende ampia liquidità che però non viene utilizzata dagli intermediari finanziari o per la sopraggiunta fragilità dei loro assetti patrimoniali o per il deteriorarsi del merito di credito della clientela.
I credit crunch sono patologie rare e gravi. Fanno seguito a periodi di espansione dissennata caratterizzati da eccessiva accumulazione di debito. Rendono impotenti le banche centrali e richiedono tempo per essere superati. Prima che il “cavallo” dell’economia ritorni a “bere” la liquidità che viene offerta dalla banca centrale deve essere metabolizzata la sbornia dei troppi debiti di infima qualità. Una gran quantità di svalutazioni di asset e di fallimenti risulta un’inevitabile premessa del processo di risanamento.
Questo è quanto sta accadendo negli Usa dopo lo scoppio, a partire dalla prima metà del 2007, della più grande bolla del credito che la storia ricordi. Gli investitori che non se ne sono accorti, applicando a una situazione straordinaria dei metri di valutazione ordinari (come la massima “Don’t fight the Fed”) hanno finito per prendere fischi per fiaschi.
Vorrei citare, a questo proposito, il passaggio di un’intervista che James Montier, global strategist di Societé Générale e uno dei miei analisti preferiti, ha dato di recente alla newsletter Welling@Weeden.
Dice Montier che l’attuale credit crunch americano è caratterizzato dal fatto che il mercato del credito è “morto da entrambe le parti”: le banche sono indisponibili a fare credito, ma non c’è neppure chi sia intenzionato a richiedere prestiti. Si va così verso una tipica “trappola della liquidità” in cui “le azioni della Fed non hanno alcun potere. Puoi alzare i tassi, abbassare i tassi e non fa nessuna differenza, perché non c’è nessuno, comunque, che voglia indebitarsi.”
“Questo è il problema. Per molti anni (negli Usa) è stato operante uno schema di Ponzi che ha finito per creare una massa enorme di debiti. Lo sgonfiamento di quella bolla del credito è, a questo punto, il vero handicap. Ed è questo che molti (investitori) non riescono a capire, perché queste cose non accadono molto spesso.”
“La gente non c’è abituata. E, in genere, le persone non sono molto brave a cogliere i cambiamenti. E’ quello che noi (in finanza comportamentale, di cui Montier è specialista, ndr) chiamiamo ‘cecità verso il cambiamento’. E la vediamo spesso. Dunque, quello che la gente non è ancora riuscita a mettere a fuoco è che il contesto di oggi è strutturalmente diverso. C’è stato lo scoppio di una bolla immobiliare e del credito. E questo è importante, perché ha un grosso impatto sull’economia reale.”
Che genere di impatto?
Nel 2001 l’azione della Fed non potè impedire un bear market azionario lungo e devastante, figlio degli eccessi speculativi che l’avevano preceduto. Ma fu efficace nel limitare al minimo le conseguenze sull’economia reale. La recessione tra il marzo e il novembre di quell’anno fu una delle più brevi e meno profonde della recente storia americana. Inoltre, a finire in crisi furono quasi soltanto i profitti e gli investimenti delle imprese, che scontarono le esagerazioni degli anni precedenti. Ma per i consumatori, che rappresentano il 70% dell’economia Usa, la recessione, in sostanza, non ci fu.
Questo ciclo sarà ben diverso. La crisi immobiliare e del credito investono in pieno le indebitatissime famiglie americane e un sistema bancario che se era robusto e ben capitalizzato nel 2001 si sta rivelando oggi pieno di crepe e di fragilità.
E’ ragionevole attendersi che l’impatto sull’economia reale sia, nei prossimi mesi, molto più pesante di quanto non fu 7 anni fa. Sono probabilmente considerazioni di questo tipo che hanno spinto di recente Warren Buffett ad affermare che la recessione americana sarà “molto più lunga e più profonda di quanto la gente si aspetti.”
In conclusione, chi si è attenuto al semplicistico “Don’t fight the Fed” in questi mesi è stato indotto a dare credito alle speranze di pronta ripresa del ciclo, e ha interpretato la fase di ribassi di Wall Street come una mera correzione. E’ una lettura che mi sembra lontana dalla realtà e che non condivido. Per capire l’influenza che i tassi d’interesse esercitano sull’economia e sui mercati bisogna aggiungere, all’azione della Fed, almeno due livelli di complessità: la curva dei rendimenti e i credit spread. Gli uni e gli altri ci dicono che la crisi – sia economica che dei mercati – sarà lunga. E la flessione a Wall Street non si fermerà all’attuale 20%.
Ho già più volte citato un altro studio di Hester da cui risulta che, in presenza di recessione economica, i bear market azionari del dopoguerra sono durati in media, negli Usa, oltre 16 mesi. Pensare che Wall Street inverta rotta solo otto mesi dopo aver toccato i massimi del ciclo è troppo ottimistico. Soprattutto quando è in pieno dispiegamento una crisi del credito di rara gravità.
Tassi americani e tassi europei
Infine, un’ultima considerazione, in risposta al quesito di Francesco, riguarda il perché io abbia parlato solo degli Usa, ignorando i tassi europei. Il motivo, in sostanza, è che questi ultimi, per l’investitore azionario, contano poco.
Le Borse europee, nella direzione di fondo, seguono Wall Street, con una correlazione che ormai da diversi anni è molto elevata. Lo stesso fanno i tassi a lunga, in un mercato globale in cui sono i movimenti dei T-bond a dettare i punti di svolta dei titoli di stato europei.
Si tratta di un dato che in futuro potrà cambiare. Finché dura, però, anche per l’investitore europeo è più fruttuoso concentrarsi sulla curva dei rendimenti americana e preoccuparsi molto meno di quella della zona euro.
Difficile postare un commento in un articolo cosi’ completo.
A giudicare dalla ciclicita’ delle recessioni mostrata nel grafico dello Yield Spead, sembra che quella attuale necessiti di ulteriore tempo prima di essere confermata. Nel frattempo, come e dove investiranno i loro soldi i risparmiatori?
E che si chiede?
Etf Short!
Complimenti, un post completo, bellissimo e illuminante.
Lo stamperò a futura memoria.
Caro dott. Bertoncello,
le faccio i miei più fervidi complimenti per il suo sublime articolo; è riuscito a trattare una materia molto complessa come i tassi ecc., in maniera comprensibile anche ai non addetti ai lavori. Un lavoro degno della migliore tradizione italiana di divulgazione scientifica, oggi quasi scomparsa.
Peccato che è tutto gratis, e le persone, quando qualcosa è gratuito, non lo apprezzano e vi ci si impegnano come quando pagano.
Leauguro le migliori cose. Dervis Fontecedro
Ringrazio Cami, Ganoss e Dervis per i commenti e i complimenti.
Dove investire, chiede Cami. E Ganoss risponde Etf Short! Non darò qui una mia risposta (lo sto facendo nel blog da oltre un anno…). In estrema sintesi, quel che si può facilmente dedurre da quanto ho scritto in questo post è che il momento attuale non è certo quello giusto per esporsi a rischi. E’ improbabile che il bear market azionario sia già prossimo alla fine. E l’esperienza ci insegna che le fasi più cruente di un mercato Orso sono in genere quelle terminali, quando la massa degli investitori viene colta dal panico.
Infine, a Dervis vorrei dire che è probabilmente vero che non tutti apprezzano la gratuità. Resta il fatto che chi la apprezza sono di solito le persone migliori. E questo mi basta.
Giuseppe B.
Grande Giuseppe 🙂
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