l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

Informazione, rumore e scelte d’investimento

Uno degli insidiosi paradossi con cui gli investitori, piccoli e grandi, hanno a che fare è che l’abbondanza di informazioni finanziarie complica anziché agevolare le scelte d’investimento. Il pensiero mi è tornato alla mente mentre seguivo l’andamento delle Borse nelle due sessioni conclusive della scorsa settimana, quando gli indici sono stati spinti – stando alle cronache – prima bruscamente al rialzo e poi ancor più pesantemente al ribasso da una serie di dati sull’occupazione americana in apparenza contrastanti.

Vediamo di ricostruire i fatti prima di proseguire con qualche riflessione sul valore delle informazioni.

A osservare un indice guida come l’S&P 500 (vedi grafico sotto, a cura di StockCharts) si nota come nelle ultime due settimane, dopo aver fallito un tentativo di perforazione della media mobile a 200 giorni attorno a quota 1430, i prezzi abbiano ritracciato per poi entrare in una pausa di consolidamento tra 1375 (in corrispondenza della media mobile a 50 giorni) e 1400.

Per sette sedute di fila i movimenti sono stati di scarso significato, prima in lieve rialzo fino a toccare la resistenza a 1400, poi in lieve ribasso fino a ritestare il supporto a 1375.

Il mercato, insomma, ha pestato acqua nel mortaio per quasi due settimane e darsene una ragione è stato facile: tutti erano in attesa delle statistiche mensili sull’occupazione Usa, il dato macroeconomico più seguito dagli operatori.

Cronaca di un caotico epilogo di settimana borsistica

Giovedì, alla vigilia del rapporto sull’occupazione, è poi accaduto qualcosa di inatteso. Gli indici Usa hanno fatto segnare rialzi superiori al 2% tra volumi sostenuti, registrando in alcuni casi (Nasdaq 100 e Russell 2000) dei nuovi massimi. Sembrava che il trend rialzista fosse ripartito. I motivi?

A leggere le cronache della grandi agenzie finanziarie come Bloomberg o Reuters, poi riprese dai quotidiani, le ragioni erano due: dati di vendita al dettaglio superiori alle attese da parte di due catene discount come Wal-Mart e Costco e il “sorprendente calo” di 17 mila unità nelle richieste settimanali di sussidi di disoccupazione.

Un investment strategist citato con particolare rilievo da Bloomberg, James Lowell, si spingeva a dire che il dato sui sussidi di disoccupazione, scesi nell’ultima settimana a 357 mila unità, era stato il vero catalizzatore del rally. E concludeva: “Se il rapporto sull’occupazione di domani sorprende anche di poco in positivo, continuerà a prendere forza il concetto che forse l’economia (americana), anziché essere in una fase di decelerazione, si sta stabilizzando.”

Venerdì, però, i sogni di stabilizzazione si sono infranti e tutti gli indici azionari di Wall Street hanno fatto tonfi superiori al 3%. Per “capire” il perché cerchiamo di nuovo lumi nel commento di mercato proposto da Bloomberg.

Due sono le “cause” del mini-crash che l’articolo evidenzia: i nuovi massimi raggiunti dal greggio e, soprattutto, l’inatteso balzo in avanti del tasso di disoccupazione, passato in un mese dal 5,0% al 5,5%. Cumulati, i due fattori sono tornati ad alimentare le paure di recessione.

Il consenso degli analisti aveva messo in conto un aumento del tasso di disoccupazione solo al 5,1%. Come mai il macroscopico errore di previsione?

Sempre Bloomberg ci dice che gli analisti, nello stimare le dimensioni della forza lavoro, non avevano tenuto conto del massiccio afflusso sul mercato di studenti a caccia di impieghi estivi. Il fenomeno quest’anno ha finito per interessare il mese di maggio – anziché, come di consueto, quello di giugno – per l’anticipata chiusura di molte scuole. In un periodo di incertezza e difficoltà economica per molte imprese, la nuova offerta di lavoro non è stata assorbita, andando a gonfiare il numero dei disoccupati.

Per il resto, il saldo tra posti di lavoro creati e distrutti (il dato di solito più seguito nel rapporto sull’occupazione), negativo a maggio per il quinto mese di fila, la leggera decelerazione della dinamica dei redditi e l’andamento stazionario delle ore lavorate si sono rivelati “in linea con le attese.”

Dati incompleti e confusi, vale a dire rumore

Se mi dilungo un po’ con i dettagli è perché vorrei dare l’idea di quanto confuse siano state le interpretazioni che si sono inseguite sui mercati negli ultimi giorni. Vorrei confortare il lettore che si sentisse sopraffatto da un senso di crescente perplessità. Ne ha ben donde.

E’ infatti mai possibile che sia sufficiente un lieve calo settimanale nelle domande di sussidi di disoccupazione per mettere fine alle paure di recessione? Oppure, può bastare un anomalo aumento del tasso di disoccupazione per riaccenderle? (C’è chi pensa che l’inconsueta incidenza a maggio delle domande di lavoro di studenti, non contemplata nel metodo di destagionalizzazione, abbia inciso almeno per la metà nell’aumento di 0,5 punti del dato di venerdì).

Tutto questo ha poco senso, così com’è poco ragionevole che il mercato si imbarchi, per questi motivi, in un rally del 2% il giovedì e in un crash del 3% il venerdì.

La confusione, naturalmente, genera altra confusione e una riprova, tra le tante, l’ha avuta il lettore che si sia abbandonato sabato alla lettura del Sole 24 Ore.

Sotto il drammatico titolo “Tensioni sui mercati – Il crollo delle piazze finanziarie”, il giornale presentava ieri due interpretazioni antitetiche dell’evento chiave della settimana finanziaria.

Mario Platero, il corrispondente da New York, scriveva che “forse davvero la recessione sta continuando a farsi strada indipendentemente dalla politica accomodante della Federal Reserve.” Del dato sull’occupazione, diceva, “c’è da preoccuparsi.”

Walter Riolfi, d’altro canto, in un’analisi pubblicata a fianco, si lamentava dell’irrazionalità di un mercato che, sul rapporto di venerdì – a suo dire, al netto delle anomalie, migliore delle attese – “avrebbe dovuto semmai salire.” Addirittura?

I benefici di una visione di più largo respiro

Cercherò alla fine di trarre qualche lezione da questa cacofonia di voci. Ma prima di arrivarci, sarà utile che dica cosa penso io delle statistiche di giovedì e venerdì. A guardarle più da lontano, più nel contesto, non è difficile dar loro un significato abbastanza chiaro.

Il mio punto di vista è in sintonia, come spesso mi succede, con quello degli analisti di Northern Trust, guidati dal bravissimo Paul Kasriel. E lo illustrerò utilizzando un paio dei loro grafici.

Il primo, qui sotto, mostra l’andamento del tasso di disoccupazione dal 1989 a oggi, in parallelo all’andamento del tasso a breve manovrato dalla Federal Reserve, i Fed funds.

Uno sguardo di lungo periodo consente subito di capire che la disputa sulle anomalie statistiche del dato di venerdì (così enfatizzate, ad esempio, da Riolfi) ha una rilevanza marginale. Se il tasso di disoccupazione, a maggio, fosse salito al 5,3% anziché al 5,5% non sarebbe cambiato granché. Il profilo di fondo resta infatti quello di un ciclo in marcato deterioramento, in forme analoghe a quelle che hanno accompagnato l’instaurarsi delle passate recessioni (evidenziate nel grafico dalle bande grigie).

Detto per inciso, il grafico di Northern Trust consente anche di percepire una “costante” nella condotta di politica monetaria della Federal Reserve. E cioè il fatto che i Fed funds (nel grafico, la linea rossa), non hanno mai imboccato un ciclo di rialzi prima che il tasso di disoccupazione iniziasse a scendere.

Le attese di rialzi dei tassi a breve entro fine anno, che i mercati a termine avevano di recente preso a scontare, possono essere liquidate, alla luce dei precedenti storici e del perdurante deterioramento del mercato del lavoro, come un abbaglio.

Il secondo grafico riguarda la serie storica delle domande di sussidi di disoccupazione dal 1984 a oggi, riportata con l’accortezza di smussare l’eccessiva volatilità del dato settimanale facendo uso di una media mobile a quattro settimane.

Anche in questo caso tutto il “rumore” delle controversie sui particolari si rivela alquanto futile. L’inattesa diminuzione di 17 mila unità, che giovedì, secondo molti, avrebbe innescato l’effimero rally delle Borse viene ridotta al rango di un dettaglio di scarso significato. La sostanza resta infatti che la media a quattro settimane – stabile a 368,500 unità – si colloca ormai da tre mesi oltre quella soglia di 356 mila (evidenziata dalla linea orizzontale) che negli ultimi due cicli ha accompagnato l’avvio di una recessione.

L’interpretazione di Northern Trust, che sottoscrivo per la sua razionalità e per l’aderenza a dati significativi di lungo periodo, è che le statistiche economiche di questa settimana sono non solo compatibili tra loro, ma anche coerenti con la gran parte delle evidenze degli ultimi mesi, provenienti dai più diversi ambiti dell’economia americana. Assieme, compongono un quadro che consente di affermare – per ora in modo probabilistico e senza certezze definitive – che una recessione, negli Usa, è già in corso da qualche mese.

Informazione e rumore

A coniare il termine di noise (rumore) applicato all’andamento dell’economia e dei mercati finanziari fu, nel 1986, l’economista Fischer Black.

Intendeva indicare tutti quei dati o quelle interpretazioni che sono l’opposto della vera informazione: idee non accurate, dati erronei, perturbazioni che confondono in quanto espressioni dell’inefficienza dei mercati e che finiscono per incentivare l’agitarsi convulso di un’attività meramente speculativa.

Distinguere fra informazione e rumore non è facile. E non è facile imparare a “filtrare” il rumore in modo da ricavarne contenuti davvero informativi, un processo che, graficamente, può essere esemplificato dalle due figure sottostanti, tratte dall’eccellente libro Fooled by Randomness (Giocati dal caso) di Nassim Nicholas Taleb (nella foto in alto).

Nella prima figura segnale e rumore sono ancora mescolati assieme. Nella seconda, è stato applicato un filtro che ha consentito di eliminare il rumore rendendo il segnale più chiaro.

Taleb, nel suo libro, se la prende in particolare con i giornalisti, che, spinti da una professionale vocazione a raccontare storie, caricano di significato qualsiasi manifestazione di “rumore” e ricorrono continuamente a spiegazioni causali anche quando all’opera ci sono o solo il caso o nessi troppo complicati per prestarsi a facili semplificazioni.

I mercati finanziari sono creature complesse e instabili – popolate da milioni di attori animati dalle strategie più diverse. L’idea che in ogni istante siano isolabili delle cause precise per le oscillazioni dei prezzi è, a rifletterci un attimo, una sciocchezza.

Che fare, dunque? Come la mia ricostruzione degli eventi della scorsa settimana lascia intuire, per “filtrare” il rumore il primo passo da fare è quello di prendere le distanze dall’abbondanza di (pseudo)informazioni.

Molti dati, raccolti con grande frequenza, danno un’illusione di conoscenza ma non aiutano a capire. Al contrario, confondono. Costringono a investire un’enorme quantità di tempo nel solo tentativo di discriminare i dati significativi da quelli privi di senso. E stimolano di continuo a reagire con decisioni superficiali e, per questo, ad alto rischio d’errore.

Se il rumore è così controproducente, perché ce n’è così tanto nell’informazione finanziaria?

Come osserva Richard Bernstein, chief investment strategist di Merrill Lynch, nel libro Navigate the noise, investing in the new age of media and hype, il motivo è che il rumore, in verità, a molti risulta gradito.

Per gli investitori “è divertente ed eccitante” al punto da essere una sorta di “droga” o di “canto delle sirene”. Per gli intermediari finanziari e per i media è redditizio dal momento che aumenta la domanda per i loro servizi. E’ per questo che, alla fine, “la gran parte dei flussi d’informazione è rivolta al trading di breve periodo”.

Ma che utilità può avere l’assillo del breve periodo per l’investitore accorto? Nessuna.

L’interesse del vero investitore è di osservare i mercati e operare scelte in un orizzonte di lungo periodo, come ho cercato di spiegare nel mio post I benefici del lungo periodo. A quanto lì argomentavo vorrei solo aggiungere una breve analisi probabilistica svolta da Taleb in Fooled by Randomness.

Immaginiamo, scrive Taleb, un investitore particolarmente dotato che riesce a mettere assieme un portafoglio i cui rendimenti attesi sono del 15% superiori ai titoli di stato a breve termine con una volatilità del 10% (risultati, l’uno e l’altro, ben superiori a quelli medi di un portafoglio azionario che può avere un rendimento assoluto del 10% con volatilità del 20%).

La probabilità che un simile portafoglio registri risultati positivi è, per diversi intervalli temporali, quella riassunta nella tabella seguente.

Nell’arco di ogni secondo, di ogni minuto o anche di ogni ora la probabilità di successo sarà di poco superiore al 50%. Ma nell’arco di un anno salirà al 93%.

Immaginiamo ancora, aggiunge Taleb, che il nostro apprensivo investitore controlli – grazie all’uso di moderne tecnologie – l’andamento del suo portafoglio ogni minuto, per otto ore al giorno. Ogni giorno si sottoporrà a un’estenuante alternanza di 241 sorprese positive e 239 sorprese negative – che in un anno diventeranno 60.688 istanti di piacere e 60.271 attimi di delusione.

Se si considera che le esperienze negative, come dimostrano gli studi di psicologia e di finanza comportamentale, pesano di più di quelle positive, il nostro investitore – esponendosi a un esame ad alta frequenza della sua performance – finirà per condannarsi alla sofferenza e all’insoddisfazione.

Se, al contrario, lo stesso investitore decidesse invece di controllare i risultati del suo portafoglio solo una volta all’anno, ne ricaverebbe 19 esperienze positive ogni 20 anni!

Scrive Bernstein nel suo libro: “La gente spesso si sorprende quando scopre che io non leggo regolarmente certi giornali finanziari […] il fatto è che io non voglio necessariamente tenermi al passo con i mercati. Più uno cerca di farlo e di essere consapevole di tutto ciò che succede, più è esposto al rischio di fare trading in base al rumore […]. Io preferisco vedere la foresta piuttosto che ogni singolo albero.”

Il consiglio è chiaro. L’investitore accorto, consapevole di quanto rumore ci sia nei mercati finanziari, si preoccupa della qualità delle sue fonti informative e del suo processo decisionale. Cerca meno informazioni ma di superiore valore, si impegna in poche decisioni ma ben ponderate.

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5 pensieri su “Informazione, rumore e scelte d’investimento

  1. …è un piacere poter avere come “collega” del network l’investitore accorto Bertoncello!
    A presto!

    DT

  2. peracottaio in ha detto:

    Buon giorno, da questo interessante post deduco che l’informazione, quella vera, non è sicuramente a disposizione dell’investitore comune, dunque non rimane altro che attenerci alla “lettura” di un grafico per poter avere qualche dato obiettivo.
    Meno mi convince la tesi del lungo periodo che elimina o attenua gli errori, tuttalpiù elimina quelli di timing ma se un investimento è infruttuoso a mio avviso l’osinazione ad oltranza crea solo danni.

    Ringrazio e saluto

  3. Qoelet in ha detto:

    quando avremo il piacere di leggere un Suo nuovo interessante articolo??
    Buona giornata

  4. Ringrazio Dream Theater. Il piacere è ricambiato.

    A Qoelet vorrei dire di non disperare. Non sempre mi è possibile contribuire regolarmente al blog. Ma non è mia intenzione mettere fine all’Investitore Accorto. Per me è un progetto di lungo periodo. Sempre, naturalmente, che i lettori siano d’accordo…

    A Peracottaio vorrei dire che anche l’investitore comune (quale io mi considero) può educarsi a discriminare tra rumore e informazione. Se diventa capace di questo, l’informazione “vera” è, in buona misura, a sua disposizione. Fortunatamente, viviamo in tempi di democratizzazione dell’informazione (almeno nei paesi più avanzati, che sono anche quelli che guidano la danza dei mercati finanziari). Vorrei infine fargli notare che l’obiettività dei grafici, cui fa riferimento, riguarda solo il passato. Ma nel momento in cui, facendo ricorso all’analisi tecnica, presume che il passato abbia qualcosa da rivelare relativamente al futuro, lì entra nel terreno dell’interpretazione soggettiva: ambiguo, scivoloso, fallibile. Se opera nella presunzione che l’analisi tecnica sia uno strumento “oggettivo” di lettura dei mercati (e cioè, in ultima istanza, di previsione) lo invito a rendersi conto che le cose non stanno così. Le illusioni di conoscenza, per un investitore, sono una delle trappole peggiori.

    Giuseppe B.

  5. Pingback: Un anno di recessione americana « l'Investitore Accorto

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