l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

Archivi per il mese di “dicembre, 2008”

Oracoli, onde di Elliott e l’occulto Fibonacci

Nei commenti a uno degli ultimi post mi ha scritto un lettore, Alessandro, chiedendo – con una certa apprensione – il mio parere in merito a una “previsione davvero da paura” pubblicata di recente dal blog Intermarket&more. Ne parlerò volentieri, in un post anziché nello spazio dei commenti, perché penso che l’argomento meriti un minimo di approfondimento.

Di che si tratta? L’autore di Intermarket&more ha preso il grafico settimanale dell’indice S&P 500, dalla fine del bear market del 2002 fino a oggi. Ha tracciato un paio di trendline, costruite congiungendo tra loro un po’ di minimi ascendenti del bull market 2003-2007 e un po’ di massimi discendenti del bear market 2007-2008, ha aggiunto una parallela alla trendline discendente tratteggiando così quello che i graficisti chiamano un canale, infine ha proiettatato in avanti il trend degli ultimi 14 mesi aggiungendo dei ritracciamenti di Fibonacci (di cui parlerò per esteso più in avanti). Continua a leggere…

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Auguri di buone feste

Ai lettori dell’Investitore Accorto invio di cuore i migliori auguri di buone feste. Il 2008 si chiude, per la gran parte degli investitori, in un clima dimesso. Spero che il mio blog, nel corso dell’anno, sia stato utile e abbia magari consentito a qualcuno di evitare gli errori peggiori.

A chi è stato travolto dalla brutalità dei mercati l’invito è a non disperare. Avranno modo di rifarsi, soprattutto se analizzeranno a mente serena le ragioni dei loro passi falsi. In questo, spero, potremo continuare ad esserci di reciproco aiuto anche nel corso del 2009.

A chi sereno, al momento, non si senta, dedico il mio pensiero conclusivo, rinnovando a tutti gli auguri più cordiali.

“Che gli uccelli dell’ansia e della preoccupazione volino sulla vostra testa, non potete impedirlo; ma potete evitare che vi costruiscano un nido”
(proverbio cinese)

 

A cosa serve investire in obbligazioni

Diceva il matematico e scienziato Charles Steinmetz che “non esistono domande stupide e nessuno diventa stupido, fino a che non smette di fare domande”. Col sostegno di un parere così illustre e rassicurante, vorrei dunque avanzare la seguente, apparentemente banale, questione: A cosa serve investire in obbligazioni?

Il quesito mi è tornato alla mente in questi ultimi tempi per una serie di motivi, che vorrei subito riassumere.

L’attuale crisi finanziaria è nata, in sostanza, dalla “ricerca di alti rendimenti” (search for yield) di una massa di investitori professionali insoddisfatta per i bassi ritorni prevalenti nell’enorme mercato del credito negli anni, dal 2001 al 2005 circa, in cui la Federal Reserve perseguì una politica super-espansiva. Continua a leggere…

La recessione del 2009: uno sguardo al consenso

Come disse il fisico Niels Bohr, “le predizioni sono molto difficili, specialmente per il futuro.” Questa massima si applica anche ai mercati finanziari. E ripetutamente, nel mio blog, ne ho portato le prove, mostrando come anche i migliori analisti siano spesso spiazzati dall’imprevedibile evolvere degli eventi. Ciò non vuol dire, d’altra parte, che ci si debba sforzare d’ignorare le opinioni di consenso. Conoscerle è utile. Non però al fine di farvi dipendere una strategia d’investimento ma, più semplicemente, per sapere quali aspettative già siano scontate nei prezzi di mercato.

Al centro delle preoccupazioni degli investitori c’è, in questa fase, la recessione che si è abbattuta su tutte le economie avanzate. Gli sguardi sono puntati sugli Usa, cuore della crisi e, al tempo stesso, dei mercati finanziari globali. Vediamo allora come si prevede che evolva la congiuntura americana.

Un ottimo sommario è stato pubblicato un paio di giorni fa dal blog Econbrowser, da cui riprendo i due grafici che seguono. Le previsioni incorporate sono tratte dall’ultimo sondaggio mensile del Wall Street Journal, condotto nella prima metà di novembre tra 55 dei più noti economisti americani.

Il primo grafico mostra l’andamento del PIL americano (linea blu) rispetto alla retta inclinata del tasso di crescita potenziale. Le barre verticali segnalano le recessioni. Le curve in rosso e in verde riflettono le previsioni di consenso pubblicate dal Wall Street Journal a novembre (rosso) e dicembre (verde). Come si vede, gli analisti nell’ultimo mese sono diventati più pessimisti e ora stimano che il PIL statunitense si contragga a un tasso annualizzato del 4,3% nel trimestre in corso, del 2,5% nel primo trimestre del 2009 e dello 0,5% nel secondo trimestre, per tornare poi a crescere moderatamente a un tasso dell’1,3% nel terzo trimestre del 2009 e del 2,0% nel quarto trimestre.

In base a queste previsioni, come si va configurando l’attuale recessione in confronto a quelle del passato? La risposta è ben visibile nel secondo grafico di Econbrowser. Sia per durata che per profondità, il consenso pensa che sarà simile a quelle del 1973-74 e del 1981-82, le due crisi economiche più pesanti del dopoguerra. Naturalmente, c’è chi pensa che le cose andranno anche peggio, come il team di analisti di Deutsche Bank (linea verde), le cui previsioni si trovano nel quartile dei più pessimisti tra quanti sondati dal WSJ.

Una recessione americana lunga 19 mesi, come oggi ci si aspetta, sarebbe un affare molto serio in base agli standard del dopoguerra, un periodo in cui le cicliche fasi di contrazione del Pil sono durate in media 10 mesi. A risalire più indietro nel tempo, si trova però di peggio. Nel 1902, 1910 e 1913 ci furono recessioni che si protrassero per oltre 20 mesi, mentre la crisi del ’29 vide l’economia contrarsi addirittura per 43 mesi di fila, come documenta quest’ultimo grafico, tratto da Bespoke Investment Group. La retta discendente evidenzia come la tendenza, nel tempo, sia stata verso recessioni di più breve durata – a testimonianza, si può presumere, di una migliorata capacità di gestire gli alti e bassi del ciclo sia da parte delle autorità che delle aziende. Una perizia che nell’America dell’era Bush, purtroppo, ha fatto difetto.

L’altalena dei prezzi delle materie prime

Mi è capitato di leggere, sul blog CalculatedRisk, che l’analista di Goldman Sachs Arjun Murti ha tagliato la sua previsione per il prezzo medio del petrolio nel 2009 a 45 dollari al barile – in linea, in pratica, con le quotazioni attuali. Per Murti la domanda di petrolio continuerà a deteriorarsi a causa delle condizioni economiche globali, che sono “le più deboli a partire, per lo meno, dai primi anni ’80.” Il crollo della domanda è tale che l’Opec, da sola, faticherà a riportare il mercato in equilibrio. Una stabilizzazione dei prezzi, a giudizio dell’analista, richiederà robusti tagli dell’offerta anche da parte dei produttori non-Opec.

CalculatedRisk aggiunge un’interessante osservazione. Per alcuni tra i maggiori produttori dell’Opec – quelli riuniti nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gulf Cooperation Council) – ridurre la produzione non è facile. Si stima infatti che, dopo aver fatto lievitare la spesa pubblica negli ultimi anni – al fine di finanziare, tra l’altro, investimenti in infrastrutture, welfare e sistemi pensionistici – quei paesi abbiano bisogno di un prezzo del greggio di 50 dollari al barile per raggiungere il pareggio di bilancio. Con le quotazioni scese fin quasi a 40 dollari, l’alternativa è o di aumentare la produzione (facendo crollare ancora di più il prezzo), o di accumulare debito pubblico, o di tagliare impegni di spesa già presi. Si tratta, in ogni caso, di opzioni dolorose. E’ normale che sia forte la tentazione di percorrere un’abituale scorciatoia:  vincolarsi  pubblicamente – in seno all’Opec – a limitare l’offerta e a rispettare il sistema di quote, solo per fare – una volta a casa – l’esatto contrario.

Ci sono dunque buone ragioni per pensare che, nell’immediato, i prezzi del greggio – come quelli di tutte le materie prime – rimangano sotto pressione (vedi grafico sotto, a cura di CalculatedRisk).

Il cambio di scenario, in meno di un semestre, è stato sconvolgente. Rispetto ai massimi di inizio luglio, le quotazioni del greggio hanno perso il 72%, crollando da 145 dollari a meno di 41. L’indice CRB, calcolato in base ai prezzi di un paniere di 19 commodities, è sceso da un massimo storico di 474 a 209 – una caduta del 56%.

A ripensarci, fa sorridere tutto lo scompiglio che, sempre sei mesi fa, poco prima che il mercato invertisse rotta, creò un’altra previsione di Murti, il quale stimava allora probabile un’ascesa del greggio verso i 150-200 dollari a barile “entro 6-24 mesi.”

In quei giorni scrissi un’analisi del mercato delle materie prime, intitolata Materie prime, il bull market si ferma in Cina?, che penso sia interessante rileggere alla luce dei turbinosi sviluppi degli ultimi sei mesi. In essa analizzavo gli squilibri fondamentali tra domanda e offerta, che stavano alla base del bull market iniziato nel febbraio del 1999 (quando l’indice CRB toccò un minimo di 118). Paventavo anche una possibile, imminente, inversione di rotta, esprimendomi così:

“[…] La crescita economica è il fattore che più di ogni altro concorre a determinare la domanda di greggio. Dopo un lungo periodo di forte espansione dell’economia mondiale, il 2008 si presenta come un anno gravido di incertezze. Gli Usa sono sull’orlo della recessione, l’Europa è in rapido rallentamento e persino dalla Cina […] vengono segni di raffreddamento.”

“[…] Nessun bull market procede ininterrotto, senza pause e temporanee inversioni del trend. L’occasione per un simile movimento in controtendenza comincia forse a stagliarsi all’orizzonte. Trae origine dallo scoppio della bolla immobiliare americana, che sta imponendo i suoi costi in termini di minore crescita a tutto il pianeta. Ma va maturando in Cina. […] E’ ovvio che un repentino rallentamento del gigante asiatico scuoterebbe dalle fondamenta i mercati delle commodities. I rischi che questo accada nei prossimi trimestri, come non è mai accaduto nell’ultimo decennio, non sono affatto trascurabili. […] L’insistenza con cui di recente le autorità cinesi hanno cercato di escludere qualsiasi rischio di hard landing per l’economia non fa che aumentare i sospetti. Le Olimpiadi di Pechino sono ormai imminenti ed è ovvio che tutte le leve del governo siano tese ad assicurare che all’appuntamento si presenti un paese in grande spolvero. Subito al di là della scadenza olimpica si profila però all’orizzonte uno scenario alquanto denso di nubi – per la Cina e per il mercato delle commodities.”

Nelle mie conclusioni, sposavo però la tesi che – in un orizzonte di più lungo periodo, guardando al di là del probabile, imminente rallentamento ciclico – il bull market secolare, iniziato nel 1999, non era da considerare defunto.

Citavo, a questo proposito, un grande investitore, Jim Rogers (ex partner di George Soros), che prima di ogni altro aveva preconizzato, sul finire della scorsa decade, l’avvento di un’era di grandi rialzi dei prezzi delle materie prime, divulgando poi questa sua visione in un libro di successo, Hot Commodities.

“Come scriveva nel 2004 Jim Rogers […] i bull market delle materie prime sono caratterizzati da grandi rally e grandi cadute. Nel mercato Toro del 1968-1982, ad esempio, l’indice CRB a un certo punto crollò del 53% prima di riprendere l’ultima fase della sua ascesa.”

Negli ultimi sei mesi, come ho già accennato, la caduta è stata del 56%. Per quanto straordinaria ci sia parsa, è da notare il fatto che esiste almeno un precedente, per niente remoto, di un simile collasso che si rivelò essere solo una correzione nel corso di un bull market di più lungo periodo e di ben più vaste dimensioni.

Nel mio post, riferivo anche di come Rogers consigliasse di tenere lo sguardo fisso sulla Cina, diventata in questi anni il consumatore più importante – decisivo ai fini della formazione dei prezzi – in molti mercati delle materie prime. Citavo il seguente passaggio del suo libro:

“Voglio essere chiaro: quando la Cina farà uno starnuto il resto del mondo correrà a caccia di aspirine. I prezzi delle materie prime, in particolare, cadranno e un sacco di investitori si faranno prendere dal panico. Voi e io, tuttavia, a quel punto compreremo altre materie prime: domanda e offerta hanno cospirato nel creare un bull market di dimensioni secolari, e ciò significa che i prezzi dovrebbero continuare a salire almeno fino al 2015…quel miliardo e trecento milioni di cinesi non sono certo in procinto di scomparire.”

Chiudevo il post col seguente commento: “Sulla data del 2015 non farò scommesse. Ma lo scenario tratteggiato quattro anni fa da Rogers continua a meritare la massima considerazione.”

Sei mesi dopo, non ho cambiato parere. Nonostante la gravità della crisi congiunturale, nonostante l’evidenza che il 2009 sarà – in buona parte – un anno di recessione globale, continuo a pensare, con Rogers, che “quel miliardo e trecento milioni di cinesi non sono certo in procinto di scomparire.” Né sono sul punto di svanire i rimanenti cinque miliardi e mezzo di voraci creature umane, tutte vogliose di benessere e crescita.

Penso che le forze della reflazione – tassi d’interesse spinti a zero, come ha appena fatto la Federal Reserve, e manovre fiscali espansive, già abbozzate, per un importo pari almeno a un punto e mezzo di PIL mondiale – alla fine avranno la meglio su quelle della deflazione. Se necessario, tra deflazione e inflazione, i governi sceglieranno quest’ultima. Hanno una semplice arma con cui prevalere: creare, a volontà, tutto il denaro che serve.

Una volta usciti dalle strettoie di questa crisi, si riaffacceranno i trend di più lungo periodo e di ben più vasta portata che l’umanità sta cavalcando in questo avvio di XXI secolo. In particolare, l’industrializzazione di un enorme continente ancora in gran parte povero come l’Asia, il crescente e insostenibile depauperamento di risorse naturali non rinnovabili, l’indifferibile necessità di transitare verso una civiltà ecosostenibile e un’economia post-materialistica, in cui l’esigenza di consumare “cose” dovrà diventare sempre meno prevalente rispetto allo scambio di beni sociali e immateriali.

Non so quanto durerà questa complicata transizione. Né so se avrà successo, anche se – com’è ovvio – me lo auguro con tutto il cuore. Immagino, però, che della sua urgenza – nei prossimi anni – torneranno a parlarci, col loro persuasivo linguaggio, i prezzi delle materie prime. In un modo: salendo.

Come valutare i rischi dell’investimento in azioni

Sembrerà arrogante dirlo, ma la gran parte degli investitori ha un’idea poco ragionevole del rischio dell’investimento azionario. Tende a considerare massima la pericolosità delle azioni quando invece è minima, e minima quando invece è massima. Possibile?

Qualcuno penserà che io mi riferisca, al più, alla notoria mancanza di tempismo della folla dei piccoli risparmiatori, di cui è risaputa l’inclinazione a disfarsi delle azioni, in un impulso di disperazione, verso la fine di un bear market, magari per riacquistarle – dopo mille titubanze e rimuginamenti – solo quando un bull market si sta ormai esaurendo. Ma non è di loro, o solo di loro, che intendo parlare. Continua a leggere…

La prevedibile crisi del mercato immobiliare

Del mercato immobiliare mi sono occupato in più occasioni e in particolare, per quel che attiene al contesto italiano, nei due post Il triste autunno del mercato della casa e Casa, la bolla si sgonfia. Entrambi datano ormai a circa un anno fa, anche se mi pare che siano invecchiati bene, mantenendo un certo valore nel tempo. In essi cercavo di dimostrare una tesi di fondo, e cioè che i mercati immobiliari di molti paesi, Italia compresa, dopo aver raggiunto una condizione di estrema sopravvalutazione, avevano iniziato un percorso inverso di penosa normalizzazione, destinato a durare anni.

Quella tesi, come andrò sinteticamente a illustrare con l’ausilio di una serie di grafici di facile comprensione, si è dimostrata sinora corretta. Le bolle immobiliari, in Italia come negli altri paesi, hanno cominciato a sgonfiarsi e la fine di questo cammino a ritroso non appare vicina.

Nel post Il triste autunno del mercato della casa, utilizzavo un grafico tratto da una ricerca di Daniel Gros, direttore del Center for European Policy Studies di Bruxelles, che evidenzia come, negli ultimi 35 anni, l’andamento in termini reali (al netto cioè dell’inflazione) del mercato della casa nella zona dell’euro abbia seguito da vicino quello americano, con un ritardo temporale che si è aggirato in media attorno agli uno, due anni ma che via via è andato tendenzialmente riducendosi.

Per capire la situazione attuale, vale ancora la pena di partire da lì.

La linea blu indica i prezzi reali degli immobili negli Usa, quella gialla i prezzi nell’area dell’euro. L’intervallo temporale va dal 1971 al 2006. Come si vede, gli Usa svolgono una funzione di traino, sia nelle fasi espansive che in quelle di contrazione. E’ un fenomeno che tende a ripetersi in molti mercati, non solo in quello immobiliare. Gli ultimi svariati decenni sono stati contrassegnati dal primato americano e dalla sempre più stretta interconnessione tra le economie europea e americana. L’andamento dei tassi d’interesse e della congiuntura negli Usa ha finito per dettare anche i ritmi del ciclo europeo.

Stando così le cose, occorre dunque chiedersi, in primo luogo, come vada il mercato immobiliare americano.

Com’è noto, i prezzi stanno crollando. E l’entità del tonfo è immediatamente percepibile nel grafico che segue, tratto da una recente analisi di Northern Trust.

Raffigurati sono due diversi indici dei prezzi delle case. Il più rappresentativo e affidabile è senz’altro l’indice SP Case-Shiller per le 20 principali aree metropolitane americane, rappresentato con la linea blu. Quel che si nota è come, dopo diversi anni di crescita superiore al 10% annuo, i prezzi (questa volta si tratta di prezzi nominali, quelli di cui normalmente si parla) hanno fatto una brusca frenata nel corso del 2006 e, dalla fine di quell’anno, hanno iniziato a calare sempre più precipitosamente. L’ultimo dato, reso noto a fine novembre e relativo a settembre, ha registrato una flessione del 17,4% su base annua.

Come osserva Asha Bangalore di Northern Trust, le scorte di immobili invenduti sono così elevate e la disoccupazione è in così rapido aumento che è vano aspettarsi segnali di stabilizzazione del mercato della casa nei prossimi mesi. Per tutto il 2009, con ogni probabilità, il trend discendente è destinato a continuare.

D’altra parte, c’è anche da considerare che, per quanto drammatico sia stato il collasso dell’ultimo paio d’anni, non si può certo sostenere che i prezzi degli immobili americani siano diventati allettanti. Le case, anzi, restano care, come ci permette di capire un altro grafico, pubblicato qualche settimana fa sul blog The conscience of a liberal di Paul Krugman, recente premio Nobel per l’economia.

Il grafico descrive l’andamento del rapporto prezzi-affitti (price-rent ratio), uno dei due indicatori di valore più utilizzati nel mercato immobiliare (l’altro è il rapporto prezzi-redditi, o price-income ratio). Quel che emerge è come, a partire dal 2000 (scoppio della bolla azionaria), i prezzi delle case si siano sempre più allontanati dalla condizione di equilibrio (nel grafico pari a 100) fino a toccare un picco di sopravvalutazione del 60% a cavallo tra il 2005 e il 2006. Il crollo dell’ultimo biennio è solo servito a ridurre al 20% circa tale stato di sopravvalutazione.

Dunque, non è solo l’analisi della congiuntura a dirci che il mercato Usa degli immobili continuerà a flettere, almeno per un po’. Dello stesso tono è il messaggio che arriva da un’analisi fondamentale dello stato valutativo.

Siamo ora pronti ad avvicinarci col discorso a casa nostra.

Un problema che si incontra in Europa e in Italia è che non è facile trovare dati affidabili e comparabili a livello nazionale. Il mercato immobiliare è poco trasparente, poco liquido, poco omogeneo. Chi però, da qualche anno in qua, ha fatto un lavoro encomiabile di creazione di indici paese che consentono analisi meno malferme dell’evoluzione dei prezzi è il settimane inglese The Economist.

La tabella che segue, pubblicata all’inizio del mese, offre uno sguardo di sintesi dell’andamento degli indici dell’Economist per 20 paesi, aggiornati al terzo trimestre di quest’anno.

Si tratta, a un anno di distanza, della stessa serie di dati che avevo pubblicato nel post Casa, la bolla si sgonfia. Il confronto è istruttivo.

Nella prima colonna è indicata l’ultima variazione di prezzo su base annua; nella seconda colonna c’è la stessa variazione l’anno precedente; la terza colonna dà la misura della variazione cumulativa a partire dal 1997 (anno in cui, a grandi linee, partì l’ultimo ciclo espansivo).

Ciò che si nota, in sintesi, è quanto segue:
a) il ruolo guida del mercato americano, la cui flessione, da iniziale e graduale che era un anno fa, si è fatta precipitosa;
b) il generale, marcato deterioramento. Se un anno fa in 10 paesi su 20 il tasso di crescita dei prezzi era o ancora in aumento (Cina, Hong Kong, Singapore, Australia, Nuova Zelanda, Svizzera) o sostanzialmente stabile (Gran Bretagna, Sud Africa, Svezia e, tutto sommato, Italia dove si passava dal 6,2% al 5,1%), nell’ultima rilevazione si vede come solo Germania, Svizzera e Hong Kong riescono a sottrarsi alla tendenza dominante. Si allunga poi la lista dei paesi dove dalla decelerazione si passa a un sensibile calo dei prezzi: agli Stati Uniti e all’Irlanda – dove pure la situazione peggiora – si aggiungono infatti Gran Bretagna, Danimarca e Nuova Zelanda;
c) l’Italia non si sottrae al trend: dal 5,1% di un anno fa il tasso di crescita scende all’1%. Il dato si riferisce al terzo trimestre, e sappiamo come la congiuntura sia ulteriormente peggiorata nell’ultimo quarto dell’anno. Inoltre, va considerato che da noi l’inflazione dei prezzi al consumo, in base all’ultima rilevazione dell’Istat, sta al 3,5% annuo. In termini reali, i prezzi delle case nell’ultimo anno hanno avuto in Italia un andamento nettamente negativo;
d) infine, se si osserva l’ultima colonna della tabella dell’Economist, ci si può rendere conto di come i prezzi rimangano troppo elevati: variazioni superiori al 100% nell’arco di 11 anni (anche nel caso dell’Italia, dove i redditi, a differenza che altrove, hanno nel frattempo ristagnato) sono troppo sostenute.

Quest’ultima osservazione è ancor meglio visibile in un ultimo grafico che vado a presentare, tratto questa volta da un recente articolo per LaVoce.info di Fedele De Novellis, un economista del centro di ricerca Ref. I dati provengono dall’Ocse, ma raccontano una storia simile a quella rivelata dagli indici dell’Economist.

Nel grafico di De Novellis il periodo coperto è il decennio dal 1998 al 2007 e i prezzi sono depurati dell’inflazione. Si tratta, cioè, di prezzi reali. Per l’Italia si vede come l’aumento medio sia stato prossimo al 6%, un’enormità per un paese il cui PIL, nel frattempo, è cresciuto a tassi appena superiori all’1%.

Le case, dunque, costano troppo. E i due potenti motori che fino a un anno fa avevano ancora sostenuto il mercato nel suo “volo” – ossia l’abbondante disponibilità di credito e le fallaci attese di prezzi costantemente in crescita – sono stati spenti.

Nel suo articolo per LaVoce.info, De Novellis aggiunge ai motivi di pessimismo anche un’altra, importante osservazione. In passate fase di crisi dei mercati azionari, il settore immobiliare prosperò. La domanda di case traeva beneficio dalla fuga degli investitori verso i beni rifugio e dalle corpose riduzioni dei tassi d’interesse con cui le banche centrali reagivano allo stato di crisi. Accadde così nel 1987 e, di nuovo, nel 2001-2002.

La situazione, questa volta, è radicalmente diversa. In primo luogo è l’osservazione empirica, nota De Novellis, a dirci che in questi mesi non si è manifestata una nuova domanda di case da parte di investitori a caccia di beni-rifugio. E non c’è di che stupirsi. A dispetto degli interventi delle banche centrali, la grave crisi finanziaria all’origine dei crolli di Borsa ha generato una condizione di cosiddetto credit crunch – una stretta creditizia che sta rendendo più problematica e onerosa l’accensione di mutui.

Non è solo l’offerta di credito a essersi contratta, però. Anche la domanda langue. La spirale dei prezzi in crescita che alimentava attese di ulteriori guadagni si è spezzata. Non c’è chi non sappia, a questo punto, che la crisi finanziaria – causa dell’implosione delle Borse e del congelamento della congiuntura economica – è a sua volta figlia dello scoppio della bolla immobiliare americana. E non c’è chi non abbia aperto gli occhi – finito il tempo delle illusioni – sul fatto che anche da noi, e non solo negli Usa, gli immobili si sono apprezzati oltre il limite del ragionevole.

Ci vorranno anni di prezzi reali in calo prima che il bene rifugio per eccellenza torni a offrire un po’ di riparo.

Ma cos’è questa crisi?

Si parla troppo e troppo a sproposito del ’29. Appena qualcuno accenna alla parola “crisi”, subito il pensiero corre lì. Molti investitori vivono oggi in questa paralizzante condizione, una sorta di riflesso pavloviano, un cortocircuito che infiamma la mente ma le impedisce di riflettere. Possibile che non ci siano altri modi per cercare di capire cos’è questa crisi, germinata in America dal collasso dei mutui subprime? Ne suggerirò uno, la lettura di un classico di storia dell’economia: Manias, Panics and Crashes di Charles Kindleberger.

Pubblicato la prima volta nel 1978, il libro (mai tradotto in italiano, com’è purtroppo il caso di molti testi fondamentali per la formazione di un investitore) è giunto nel 2005 a una quinta edizione, rivista in modo da includere la crisi messicana del 1994-95 e quella asiatica del 1997-98 al rosario di crash finanziari presi in esame dall’autore.

Kindleberger di gravi episodi di bolle speculative (Manias) seguite da crisi di panico (Panics) e crash di mercato (Crashes) ne elenca ben 39, dal 1622 alla fine del Novecento. In media, uno almeno ogni decennio. E si potrebbe risalire più indietro, fino alla famosa bancarotta dei Bardi e Peruzzi nella Firenze della metà del XIV secolo.

Sin dal primo emergere di un’organizzazione capitalistica dell’economia, le crisi finanziarie sono dunque state una costante. Scrive Kindleberger: “Si può dimostrare che, nel corso della storia, gli eccessi speculativi, definiti concisamente come ‘manie’, e il senso di ripulsa generato da tali eccessi sotto forma di crolli e attacchi di panico, sono stati, se non inevitabili, per lo meno comuni.”

Di comune hanno anche avuto la facile inclinazione all’uso dei superlativi da parte degli osservatori e interpreti contemporanei che le hanno raccontate. “La storia – scrive Kindleberger, in tono vagamente divertito – è piena di affermazioni iperboliche a riguardo delle varie crisi.” Insomma, non ce n’è stata una, o quasi,che non sia stata descritta come la più tremenda, paurosa e devastante a memoria d’uomo.

Il loro dispiegarsi ha seguito una trama alquanto ripetitiva, scandita in cinque fasi: a) uno shock iniziale positivo, che genera aspettative di più elevati profitti; b) un boom creditizio che incoraggia operatori, investitori, intermediari ad assumere una maggiore leva finanziaria (leveraging); c) un picco di euforia e speculazione, caratterizzato dall’accumulazione di rapidi guadagni; d) un punto di rottura, dovuto a fattori diversi come un aumento dei tassi d’interesse o un crack inatteso; e) il panico, la repentina riduzione della leva finanziaria (deleveraging), la corsa verso  la liquidità.

La descrizione suona familiare? Dovrebbe esserlo, perché si applica a pennello, così come alle molte crisi del passato, anche a quella attuale dei mutui subprime.

Fin qui, non c’è nulla di nuovo. Già prima di Kindleberger, altri famosi economisti come Irving Fisher nel 1933 e Hyman Minsky nel 1977 avevano identificato questo ciclo di rapida espansione (boom) seguito da un drammatico collasso (bust) come tipico delle crisi finanziarie.

Dove il lavoro di Kindleberger si fa, per noi, più interessante, è in un paio di conclusioni a cui arrivano la sua dettagliata ricostruzione storica e l’analitico confronto degli episodi del passato. In primo luogo, ciò che ha fatto la differenza nel determinare la lunghezza e la gravità delle depressioni economiche che sono inevitabilmente seguite ai boom e bust finanziari è il ruolo giocato dalle banche centrali.

Della intrinseca fragilità degli istituti di credito – impegnati ad assolvere un ruolo vitale nello sviluppo economico convertendo passività a breve termine in asset a lungo termine – ci si era accorti già diversi secoli fa. Le banche centrali nacquero proprio nel tentativo di ovviare all’evidente instabilità del mercato creditizio.

Si trattò di un’invenzione di straordinario successo. Già attorno al 1825, scrive Kindleberger, in Inghilterra ci si era di fatto accordati su una divisione del lavoro così congegnata: “I banchieri privati di Londra e delle province finanziavano i boom, la Banca d’Inghilterra finanziava le crisi.”

Naturalmente, restava il problema di come evitare che l’intervento pubblico – di bust in bust – incoraggiasse comportamenti irresponsabili. Per il filosofo Herbert Spencer, una volta imboccata la soluzione pietosa del soccorso ai meno avveduti e meritevoli, non c’era rimedio: “Il risultato ultimo dell’atto di proteggere gli uomini dagli effetti della loro follia non può che essere quello di popolare il mondo di folli” (The ultimate result of shielding man from the effects of folly is to people the world with fools).

Per fortuna a prevalere fu l’opinione – meno radicale – del pensatore, saggista e giornalista inglese Walter Bagehot (vedi immagine qui sotto), che nel libro Lombard Street del 1873 diede rispettabilità teorica, oltre che pratica, al ruolo della banca centrale come prestatrice di ultima istanza (lender of last resort).

Era evidente infatti che al rischio di consentire agli istituti di credito di indulgere nell’azzardo morale (moral hazard) si contrapponeva l’altro rischio del completo collasso dell’attività economica: nella corsa ad accaparrare liquidità, che caratterizza le crisi di panico, ogni partecipante al mercato – nel tentativo di salvare se stesso – finisce per contribuire alla rovina di tutti.

La soluzione di compromesso ideata da Bagehot fu di sostenere che le banche centrali, in una crisi, dovevano rendere disponibile tutta la liquidità che serviva, ma a un tasso penalizzante. Quanto alla tempistica degli interventi, ci si poteva solo affidare alla discrezionalità, ma in modo – come riassume Kindleberger – “da indugiare a sufficienza, dopo un crash, così da consentire alle imprese insolventi di fallire, ma non tanto a lungo da permettere alla crisi di estendersi anche alle imprese sane, bisognose di liquidità.” Il central banking, come si può desumere, è un’arte – non solo una scienza.

Il fallimento delle banche centrali

Ora, la questione è: se teoria e pratica del ruolo delle banche centrali erano già andate chiarendosi ai tempi di Bagehot, e se – come sostiene Kindleberger – è l’azione delle banche centrali a decidere in primo luogo della durata e gravità di una crisi finanziaria, perché accadde un disastro come la Depressione degli anni ’30?

La risposta, sempre di Kindleberger, è che durante la crisi del ’29 e la Grande Depressione che ne seguì, non ci fu nessuno che si fece carico, a livello internazionale, del compito di prestatore di ultima istanza. Se la depressione fu così “ampia, profonda e prolungata” fu perché la Gran Bretagna, “esaurita dalla guerra e vacillante dopo l’abortita ripresa degli anni ’20, fu incapace di assumere quel ruolo” (che le era storicamente toccato in quanto prima potenza economica da oltre un secolo), mentre gli Stati Uniti (paese guida emergente, con una banca centrale costituitasi da appena un quindicennio) furono “indisponibili” a ereditarlo.

Il fallimento del central banking fu totale. Non solo non ci fu un prestatore di ultima istanza a livello internazionale, ma, scosse dalle crisi valutarie che nel 1931 colpirono prima la Germania e poi la Gran Bretagna, molte banche centrali corsero a convertire le loro riserve valutarie in oro, così contribuendo a far ulteriormente contrarre la liquidità e a rendere ancora più terribili le pressioni deflative.

Il ’29 non fu l’unico caso di fiasco delle banche centrali, anche se ne è certo il più famoso. Lo stesso accadde nel 1873, e anche in quel caso la crisi economica che ne seguì fu così profonda e protratta da essere chiamata “Grande Depressione.”

La storia, d’altra parte, presenta episodi di segno opposto, come la crisi finanziaria del 1844, quando la Banca d’Inghilterra sospese la legislazione bancaria vigente al fine di rendere disponibile tutta la liquidità necessaria agli istituti che ne facevano richiesta e che erano in grado di offrire buone garanzie collaterali.

Il ’29, dunque, non è il paradigma di tutte le crisi – come oggi si viene continuamente sollecitati a credere. E’, piuttosto, il paradigma di quelle che finirono nel peggiore dei modi possibili per il mancato assolvimento da parte delle banche centrali del più esclusivo e delicato dei compiti loro assegnati.

La storia infatti dimostra – scrive Kindleberger – che “quando non c’è un prestatore di ultima istanza, come nel 1873, 1890 e 1931, la depressione che segue una crisi finanziaria è lunga e protratta, a differenza di altri episodi in cui il prestatore invece c’è, e la crisi passa come un temporale estivo.”

A quale di questi due generi appartenga la crisi in cui siamo oggi immersi mi pare facile sostenerlo: il copione che le banche centrali stanno seguendo – a partire dalla Federal Reserve – non è certo quello del ’29. E’ l’esatto contrario.

Nuove frontiere per gli investimenti

Dicevo che, a mio avviso, c’è anche una seconda conclusione interessante in Manias, Panics and Crashes. Si trova condensata nella seguente citazione: “Le conseguenze di una depressione dipendono non solo da come la crisi viene gestita ma da una miriade di altre variabili, in particolare da quei fattori che condizionano gli investimenti di lungo periodo: crescita della popolazione, esistenza di una nuova frontiera, impulsi derivanti da una guerra, esportazioni, la presenza o l’assenza di innovazioni che non sono già del tutto sfruttate, e cose simili.”

Se si pensa agli anni ’30, si coglie appieno il senso delle osservazioni di Kindleberger. Quel periodo fu segnato dall’adozione di misure protezionistiche e dal crollo del commercio internazionale, dalla chiusura degli stati all’interno delle proprie anguste frontiere e dalla deriva verso la guerra. Fu solo l’escalation dei preparativi bellici che, a partire dalla fine di quel decennio, agì da stimolo agli investimenti e mobilitò anche la ricerca e l’innovazione – producendo come suo massimo e tragico frutto la bomba atomica. La Grande Depressione fu superata, ma al costo orrendo di una carneficina e una barbarie senza precedenti.

E oggi? Ci sono nuove frontiere e innovazioni non pienamente sfruttate che possono motivare l’economia globale a lasciarsi alle spalle gli effetti depressivi del ciclo di boom e bust che abbiamo appena sperimentato? Penso di sì.

In estrema sintesi, mi limito a citare tre processi, a diversi stadi evolutivi, in grado di tornare rapidamente a catalizzare l’innato spirito di iniziativa e la disponibilità ad assumere rischi, che caratterizza la nostra specie: l’emersione dalla povertà e la modernizzazione, in particolare del continente asiatico; Internet, lo sviluppo delle comunicazioni e la progressiva digitalizzazione del sapere, con ricadute formidabili sul ritmo del progresso scientifico e tecnologico; la transizione verso lo sfruttamento di fonti energetiche rinnovabili e una civiltà ecosostenibile.

Non sono certo in grado di sapere come finirà la crisi in cui ci troviamo. Né posso sostenere che l’interpretazione delle crisi passate offerta da Kindleberger sia l’unica possibile, anche se a me pare convincente. In definitiva, ho solo cercato di mostrare che se assumiamo come criteri discriminanti tra una crisi che diventa una Grande Depressione e una crisi che viene superata “come un temporale estivo” i due fattori enunciati in Manias, Panics and Crashes, non c’è dubbio. Sia per quel che riguarda la gestione da parte delle banche centrali del loro ruolo di prestatrici di ultima istanza, sia per quel che concerne la presenza di stimoli agli investimenti di lungo periodo, oggi non siamo ridotti “come nel ‘29”. Ne siamo, piuttosto, agli antipodi.

Recessione, azioni e l’ingannevole buon senso

Questi sono tempi grami per molti investitori, costretti a convivere con minusvalenze, incertezze e paure. Se c’è un aspetto chiaro della situazione, che sembra poter servire da fondamento a qualche scelta di buon senso, si tratta purtroppo del fatto che la congiuntura economica sta peggiorando. Su questo proprio non c’è dubbio.

Basta guardare al dato sull’occupazione americana di novembre, diffuso venerdì. La perdita di 533 mila posti di lavoro in un solo mese è il risultato peggiore dal dicembre 1974. Nessuno si aspettava una simile débacle. Continua a leggere…

Il ’29 e noi: Bear market a confronto

Si va dicendo: questa è la più brutta crisi da una generazione e forse del dopoguerra. Insomma, la più profonda crisi dal ’29 e dalla Depressione degli anni ‘30. E anzi, una crisi che ricorda proprio il ’29, sperando – beninteso – che non finisca per esserne addirittura peggio.

Ora, mettiamo un freno all’ansia. Ma davvero sta succedendo “un ventinove”?

In situazioni di incertezza, di fronte ad eventi nuovi, complessi e difficili da valutare, il ricorso a stereotipi è una scappatoia diffusa. Ma ci aiuta a capire? C’è da dubitarne. Più spesso ci induce in errore, congelando le nostre facoltà critiche in confronti superficiali e inadeguati. Continua a leggere…

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