A cosa serve investire in obbligazioni
Diceva il matematico e scienziato Charles Steinmetz che “non esistono domande stupide e nessuno diventa stupido, fino a che non smette di fare domande”. Col sostegno di un parere così illustre e rassicurante, vorrei dunque avanzare la seguente, apparentemente banale, questione: A cosa serve investire in obbligazioni?
Il quesito mi è tornato alla mente in questi ultimi tempi per una serie di motivi, che vorrei subito riassumere.
L’attuale crisi finanziaria è nata, in sostanza, dalla “ricerca di alti rendimenti” (search for yield) di una massa di investitori professionali insoddisfatta per i bassi ritorni prevalenti nell’enorme mercato del credito negli anni, dal 2001 al 2005 circa, in cui la Federal Reserve perseguì una politica super-espansiva. A posteriori è evidente che c’è stata molta imprudenza e imperizia. Ma perché?
Secondo motivo. E’ riapparso all’onore delle cronache Calisto Tanzi, il “patron” della Parmalat condannato a 10 anni per una truffa in cui decine di migliaia di risparmiatori persero miliardi in titoli rivelatisi spazzatura. Col senno di poi, è facile dire che chi si fidò delle obbligazioni Parmalat fece un grave errore. Ma perché?
Infine, last but not least, la fuga dal rischio e la ricerca della sicurezza innescate dal deflagrare dell’attuale crisi finanziaria hanno fatto collassare i rendimenti obbligazionari. Il Bund tedesco è sceso al 3% mentre i Treasury americani a dieci anni pagavano l’altro ieri il 2,03%, lo yield più basso da oltre mezzo secolo. Nella parte breve della curva i ritorni sono addirittura negativi (gli americani che hanno una casa a prova di ladri farebbero meglio a tenere i soldi sotto il materasso).
Siccome prezzi e rendimenti dei titoli a reddito fisso si muovono in senso inverso, il rally dell’ultimo trimestre è stato fenomenale. Leggo su Bloomberg che, per quel che riguarda il mercato obbligazionario americano, i ritorni del 10% totalizzati dalla fine di settembre configurano il miglior risultato dal terzo trimestre del 1982 (l’articolo di Bloomberg non lo dice, ma io non posso fare a meno di ricordare che proprio quel trimestre segnò l’avvio del più formidabile bull market secolare del mercato azionario). Vale ancora la pena di investire in sicuri titoli di stato a questi livelli di rendimento? E se sì, perché?
Dopotutto, quella che sembrava una domanda banale forse non lo è. Prima di passare a svolgere, succintamente, il mio tentativo di risposta, vorrei però aggiungere ancora due precisazioni.
Il reddito fisso e la costruzione di un portafoglio ben diversificato
Mi occupo qui dei titoli a reddito fisso in una logica di asset allocation.
Il cosiddetto reddito fisso rappresenta la gran parte delle obbligazioni in circolazione. Ad esempio, nell’appendice statistica all’ultima relazione annuale della Banca d’Italia, si legge che i titoli a cedola variabile sono solo il 15,9% dello stock di titoli a medio e lungo termine rappresentativi del debito pubblico italiano.
La logica di asset allocation, poi, è sottesa a molto di quello che scrivo su l’Investitore Accorto. In questo blog cerco di dissuadere i lettori dalla tentazione, sommamente distruttiva, di concepire i mercati finanziari come dei casinò, in cui inseguire mode, manie speculative o effimere opportunità offerte dal continuo agitarsi dei prezzi. Incoraggio invece un atteggiamento di razionale ricerca di efficaci strategie d’investimento di lungo periodo, basate sulla consapevole diversificazione dei propri risparmi tra le diverse classi di asset.
Da ultimo, mi preme sottolineare che la risposta che darò, nella sostanza, non è mia. Come ripeto spesso, io sono solo un giornalista. Spero che a nessuno passi neppure per l’anticamera del cervello che io sia, o ambisca a essere, un esperto o, peggio, un guru. Come annuncio nella testata del blog, il compito che mi sono prefisso con l’Investitore Accorto è di dare vita a un sito dove si possa, collettivamente, cercare di “capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri.” Si tratta di un obiettivo già sufficientemente ambizioso.
Gran parte delle argomentazioni che seguono sono dunque, sia pur riferite con le mie parole, quelle di un “grande maestro”. Il suo nome è David F. Swensen, che, come ci racconta Wikipedia, è dal 1985 il Chief Investment Officer del fondo d’investimento – da 17 miliardi di dollari – dell’Università di Yale. Nell’arco di 22 anni, sotto la sua guida, i rendimenti hanno sistematicamente battuto, e di molto, quelli del mercato e nell’ultimo decennio, di scarse soddisfazioni per la gran parte degli investitori, si sono aggirati attorno al 17% medio annuo.
Swensen è l’autore di due libri di successo, in cui ha divulgato la sostanza del suo approccio agli investimenti, divenuto noto come il Yale method, il metodo di Yale. Si tratta di Pioneering portfolio management, un libro del 2000 rivolto in particolare agli investitori istituzionali e tradotto in Italia col titolo di Strategie avanzate di gestione del portafoglio, e Unconventional success, un libro del 2005 diretto ai piccoli investitori, mai tradotto – se non erro – in italiano.
Le tesi espresse nei due libri sono simili. Ma è soprattutto a Unconventional success che farò riferimento, visto che si tratta del testo che più esplicitamente si rivolge alle esigenze del piccolo investitore interessato a costruire un portafoglio efficiente.
A cosa serve, dunque, investire in titoli a reddito fisso? A due cose, e non più di due, sostiene Swensen: a offrire protezione contro i rischi (non anticipati) di una crisi finanziaria e a offrire protezione contro i rischi (non anticipati) di deflazione.
Perché mai? Per capirlo, bisogna fare un passo indietro.
Azioni, obbligazioni e real estate
Gli asset di base, le cosiddette core asset classes, su cui un investitore ha la possibilità di costruire il suo portafoglio, sono appena tre: azioni, obbligazioni e real estate. Sono queste infatti le classi di attivo che hanno caratteristiche sufficientemente differenziate e che sono scambiate in mercati abbastanza liquidi e profondi, da rispondere alle esigenze di diversificazione ed efficienza (sotto il profilo dei costi, in particolare) di un investitore.
Le azioni sono l’asset che promette i rendimenti più elevati. E a questo scopo vanno finalizzate: alzare il rendimento medio del portafoglio. Per usare una metafora automobilistica, le azioni sono le Ferrari del mondo degli investimenti. Con le azioni, si corre (e, se non le si sa guidare, si rischia di andare a sbattere).
Le obbligazioni, al confronto, danno rendimenti deludenti. Sforzarsi di “andare al massimo”, con le obbligazioni, è come scendere in pista – tra le Ferrari – con un’utilitaria: un proposito risibile. Presentano però un’altra attrattiva, che nella costruzione di un portafoglio offre un’eccellente possibilità di diversificazione rispetto alle azioni: le loro cedole possono essere sicure. Dico “possono”, perché, naturalmente, vanno prima esclusi alcuni rischi, come quello di credito o di illiquidità. Ma se si pensa a un titolo di stato col massimo merito di credito, com’è il caso di quelli tedeschi o americani, ci sono pochi dubbi: la cedola promessa sarà pagata e il prestito verrà restituito alla scadenza fissata (né prima, né poi).
Oltre alla sicurezza, i titoli di stato a reddito fisso presentano un’altra interessante caratteristica. Siccome le loro cedole sono, per l’appunto, fisse, i rendimenti reali che assicurano all’investitore sono in balia dell’inflazione. Se nel corso della durata di un’obbligazione l’inflazione si rivelerà superiore a quella attesa dal mercato nel momento in cui il titolo è stato emesso, l’investitore subirà una perdita. Il valore delle sue cedole verrà infatti eroso dall’imprevisto aumento del livello generale dei prezzi. Se, al contrario, l’inflazione si rivelerà inferiore a quella attesa, l’investitore lucrerà un guadagno.
Il terzo asset di base sono, infine, gli immobili, o real estate. Si tratta, come scrive Swensen, di una classe di attivo dalle caratteristiche “ibride”, a metà strada tra le azioni e le obbligazioni. A differenza del reddito fisso, tende a rivalutarsi nel tempo in linea con l’inflazione, e a differenza delle azioni assicura flussi di cassa relativamente stabili. La sua attrattiva maggiore è, dunque, quella di garantire protezione contro l’inflazione con un rischio inferiore a quello dei titoli azionari.
Rischio e rendimento: il responso della storia
Uno sguardo ai dati storici su rischio e rendimento delle principali classi di asset, scrive Swensen, supporta la validità dell’analisi sin qui svolta, dimostrando come il real estate abbia esibito nel lungo periodo livelli intermedi, sia di rischio che di rendimento, rispetto a bond e azioni.
Dei rendimenti di lungo periodo di obbligazioni e azioni, in rapporto all’andamento dell’inflazione, ho già scritto nel post Rendimenti finanziari, le lezioni della storia. Lì pubblicavo la seguente tabella, compilata utilizzando i dati diffusi da Jeremy Siegel nell’ultima edizione del classico Stocks for the long run. Anche i dati di Siegel, com’è evidente, confermano la solidità delle analisi di Swensen.
Possiamo così cominciare a tirare le fila di questo post. In estrema sintesi, Swensen raccomanda di valorizzare ogni asset per ciò che di meglio ha da offrire. Le azioni danno alti rendimenti. Il real estate offre protezione contro l’inflazione. Le obbligazioni offrono protezione contro le crisi finanziarie e la deflazione.
Solo le obbligazioni migliori offrono un’assicurazione efficace
Tornando a concentrarci sulle obbligazioni, da cui eravamo partiti, è essenziale notare che non tutti i titoli a reddito fisso assicurano uguale protezione nei frangenti di crisi e di deflazione inattesa. In momenti così gravi, infatti, l’investitore scopre che una tale garanzia viene efficacemente prestata solo dalle obbligazioni migliori. E’ un po’ quel che accade con le polizze assicurative. Se ci si vuole proteggere dai disastri, non ha senso rivolgersi alla piccola, traballante compagnia, pensando soltanto a spuntare un premio un po’ più vantaggioso. Il pericolo, ovviamente, è che se il disastro accade ne resti travolto anche l’assicuratore, riducendo la polizza su cui facevamo affidamento a un pezzo di carta senza valore.
Contro i disastri, dunque, ci si assicura solo con le compagnie più affidabili. E la stessa cosa, sostiene Swensen, è raccomandabile fare con le obbligazioni. In un portafoglio di attività finanziarie ben costruito, pertanto, troveranno posto solo titoli a reddito fisso emessi da stati sovrani con alto merito di credito. E in una misura tale da soddisfare le esigenze di protezione dell’investitore contro i rischi di crisi e di deflazione inattesa. Niente di più.
I rischi dell’investimento in obbligazioni
Gli investitori, nota Swensen, hanno la tendenza a esagerare con la percentuale del portafoglio destinata al reddito fisso. Sottostimano due rischi: quello di un’inflazione superiore al previsto, che può infliggere danni enormi ai rendimenti reali di questa classe di attivo, e quello del costo-opportunità. Investire troppo in obbligazioni sicure vuol dire non investire abbastanza in azioni o in real estate, riducendo di molto i ritorni attesi di un portafoglio nel lungo periodo. Le obbligazioni sicure, infatti, proprio perché sono poco rischiose danno in genere anche ritorni modesti.
Siamo ora pronti a tornare ai casi emblematici che citavo in apertura d’articolo – le tre osservazioni che mi hanno ispirato questo articolo. Alla luce dell’impostazione di Swensen, la “ricerca degli alti rendimenti” (search for yield) che è costata così caro agli investitori istituzionali che sono rimasti intrappolati, in questa crisi, in titoli di credito “tossici”, o ai piccoli investitori italiani che, anni addietro, avevano comprato obbligazioni spazzatura (Parmalat o Cirio o bond argentini, un esempio vale l’altro) non è stata solo una mossa sfortunata. Si è trattato, invece, di una scelta fondamentalmente sbagliata perché irrazionale, che ha cercato di trarre dal reddito fisso ciò che il reddito fisso non è idoneo a offrire.
Chi è disposto a correre rischi al fine di conseguire rendimenti elevati troverà un migliore rapporto rischio/rendimento nelle azioni anziché nel reddito fisso. E chi compromette la validità assicurativa dei titoli a reddito fisso in situazioni di crisi e di deflazione, rivolgendosi a obbligazioni non di alta qualità, rischierà di non avere né i rendimenti superiori né l’efficace protezione quando ne ha davvero bisogno.
Ritornando, infine, al terzo caso che citavo in avvio, quello più d’attualità, con i rendimenti decennali scesi al 2% negli Usa e al 3% in Germania, quali sono le opportunità che il reddito fisso può ancora offrire? E quali sono i rischi che invece può far correre?
Ho ripetutamente scritto, utilizzando la medesima espressione impiegata da Swensen in Unconventional Success, che i titoli a reddito fisso danno il meglio di sé al precipitare di crisi inattese e all’instaurarsi inatteso di processi di disinflazione o deflazione (ossia di decelerazione della dinamica dei prezzi o di vera e propria caduta nel livello assoluto dei prezzi).
“Inatteso”, qui, è la parola chiave. Nel contesto attuale, a crisi conclamata, e con rendimenti scesi a livelli che scontano ormai un’inflazione prossima allo zero, il reddito fisso offrirà ancora valore solo se la crisi sarà peggiore di quanto sia previsto, e se dall’inflazione zero passeremo a una fase – più o meno prolungata – di vera e propria caduta del livello generale dei prezzi nelle nostre economie.
Per quanto mi riguarda (e parlo ora solo di me, senza citare Swensen), è questa una scommessa che sono poco propenso a fare.
“Helicopter Ben” e la deflazione
Non penso che avremo un prolungato periodo di deflazione, a differenza di quanto accadde durante la Grande Depressione degli anni ’30, quando, tra il 1930 e il 1933, i prezzi nel loro complesso scesero del 10% circa l’anno – strangolando chi aveva debiti (il cui valore reale tendeva a crescere) e portando, in conseguenza, il sistema bancario al collasso.
Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve, è uno dei massimi studiosi della Grande Depressione. In un famoso discorso del novembre 2002, tenuto a Washington al National Economists Club quando era ancora un semplice governatore della Fed, Bernanke delineò, in modo volutamente dettagliato, tutte le molte opzioni che un banca centrale e un governo avevano a disposizione per evitare il pernicioso instaurarsi della deflazione.
“Le cause della deflazione – disse – non sono un mistero. La deflazione è quasi sempre un effetto collaterale del collasso della domanda aggregata – una contrazione della spesa così severa che i produttori sono costretti a tagliare i prezzi in modo continuativo al fine di trovare compratori.”
Il rimedio di fondo per sconfiggere una minaccia del genere, continuava Bernanke, è uno solo: “usare la politica monetaria e fiscale in tutti i modi necessari a sostenere la spesa aggregata.”
Certi osservatori critici, dopo aver analizzato le difficoltà del Giappone negli anni ’90, erano arrivati alla conclusione che quando i tassi d’interesse scendono a zero, la politica monetaria perde la sua capacità di stimolare l’economia. Ma, ribattè Bernanke, una simile conclusione era “chiaramente sbagliata.” Il Giappone non era riuscito a debellare tempestivamente le minacce di deflazione non per mancanza di opzioni a disposizione, ma perché era rimasto impigliato nella melassa dei “vincoli politici”. Aveva, cioè, mancato di chiarezza di obiettivi e di determinazione.
In un moderno sistema economico, basato sul fiat money (o moneta legale), una banca centrale e un governo – concludeva Bernanke – “dovrebbero essere sempre in grado di generare un aumento della spesa nominale e dell’inflazione, anche quando i tassi nominali a breve termine sono scesi a zero.” Come? In ultima istanza, stampando denaro a volontà e spingendosi, se necessario, fino all’estremo di distribuirlo “da un elicottero” – secondo la provocatoria metafora ideata dal premio Nobel Milton Friedman.
Quel discorso valse a Bernanke il nomignolo di “helicopter Ben”, Ben l’elicottero. Tutte le azioni che la Federal Reserve ha intrapreso negli ultimi mesi dimostrano, a mio avviso, che il suo presidente non si è lasciato inibire da quell’epiteto. Alcuni dei molti rimedi che aveva dettagliato in quel discorso del novembre 2002 già sono stati utilizzati. Altri, senza dubbio, restano pronti nell’arsenale della Fed al fine di scongiurare il pericolo peggiore – quello di una depressione economica con deflazione.
Se proprio necessario, “helicopter Ben” – non ho dubbi – ricorrerà anche agli elicotteri. Penso perciò che non avremo vera deflazione, ossia un periodo protratto di calo generalizzato dei prezzi – come accadde invece in Giappone negli anni ’90. Sono anche convinto, di conseguenza, che nel mercato del reddito fisso di valore residuo ce ne sia ormai ben poco.
sarebbe interessante il rendimento (nel grafico)il rendimento delle azioni con i prezzi raggiunti ora.
Ciao Giuseppe, ottimo articolo, come sempre. E’ un piacere essere parte integrante di un tema così valido e preparato…
A presto e… se non ci si sente più… Auguri!
DT
ho scritto tema… ma volevo dire team…. porta pazienza !!!!
Lei dice di essere solo un giornalista.
La chiarezza divulgativa è da grande cattedratico.
Buon Natale, prof. Bertoncello
Gentile Dottor Bertoncello,
Complimenti per l’articolo, sempre chiaro ed essenziale.
Se permette aggiungo due considerazioni, tanto per contribuire al dibattito:
1) Nelle core asset classes di Swensen aggiungerei le commodities, diventate oramai a tutti gli effetti un importantissimo strumento di diversificazione del portafoglio, insieme alle azioni, ai bonds e all’immobiliare.
2) Sono più cauto di Lei sulla deflazione (ne avevamo già discusso); nessuno sa se ne usciremo presto oppure no; l’unica esperienza sotto molti aspetti simile è quella nipponica; uno studio di Mark Spiegel intitolato “Did Quantitative Easing by the Bank of Japan “Work”?” mostra con assoluta chiarezza che gli unici due effetti indotti da politiche di quantitative easing sono:
1) un ribasso dei tassi di interesse a lungo termine(in parte già avvenuto;
2) un sostegno al sistema bancario che dovrebbe essere incoraggiato ad allentare i cordoni creditizi ricominciando a fornire liquidità al “sistema aziende” (di cui non si vede ancora traccia!).
Da ciò deduco le seguenti considerazioni:
1) I tassi di interesse continueranno a rimanere bassi ancora per un po di tempo, al di là della volatilità e dei movimenti di breve periodo legati ad eventuali aspettative reflazionistiche dell’economia o a prese di beneficio di piccolo cabotaggio;
2) Le banche non hanno ancora ricominciato a “fare il loro mestiere” ed i cordoni creditizi sono ancora ben serrati; in altre parole, se i tassi di interesse sono scesi a causa delle aspettative degli operatori che si sono buttati a capofitto a comprare titoli di stato, le banche preferiscono impiegare la liquidità fornita dalla Fed comprando a loro volta titoli di stato e non usandola per finanziare le aziende.
Inoltre, nell’ambito di questa incertezza:
1) la Fed non ostacolerà eventuali deprezzamenti del dollaro, anzi! Roosvelt negli anni trenta svalutò il dollaro del 40% rispetto all’oro per combattere la deflazione;
2) Un ruolo importante verrà giocato dal neo presidente Obama e dalla sua capacità di mettere in pista riforme strutturali (mancate in Giappone!) e politiche fiscali atte a sostenere l’economia. Senza queste, sarà difficile vedere una ripartenza del “motore a stelle e striscie”;
3) Riconosco alla Fed una buona tempestività (rispetto a quanto successe in Giappone) nella riduzione dei tassi (condizione necessaria ma non sufficiente).
Colgo l’occasione per augurare a Lei e alla Sua famiglia i più sinceri auguri di Buon Natale e sereno anno nuovo.
FinancialMarketsLAB
http://www.financialmarketslab.blogspot.com
Gentile Dottor Bertoncello,
condivido non solo questo articolo ma buona parte dei suoi post.
Anch’io sarei leggermente piu’ cauto sul discorso della deflazione.
In sostanza anch’io assegno una probabilita’ molto bassa ad un prolungato periodo di deflazione.
Uno sguardo ai grafici del bel sito della FED di St. Luis puo’ far riflettere sull’assoluta eccezionalita’ della siutazione.
Il grafico al link che riporto, ad esempio, mostra le variazioni percentuali delle osservazioni dei prezzi al consumo USA.
http://research.stlouisfed.org/fred2/fredgraph?chart_type=line&s%5B1%5D%5Bid%5D=CPIAUCSL&s%5B1%5D%5Btransformation%5D=pch
Non crede ci siano un tantino preoccupanti?
Con molta stima,
Pedone
Caro Bertoncello,
due modesti suggerimenti per possibili futuri post:
1) quale peso grossomodo dare ai titoli di stato indicizzati all’inflazione all’interno della fetta di allocazione destinata alla componente Obbligazioni? La sua analisi parla solo di obbligazioni a tasso fisso, e quindi non so come orientarmi. Sono riluttante a comprare bond
2) scenario default dell’Italia ovvero di uscita dal sistema Euro: probabilita’ (di pancia), possibili conseguenze ed eventuali contromisure per i risparmiatori.
Trovo la lettura del suo blog molto istruttiva e stimolante. Grazie per questo suo contributo alla crescita culturale del parco buoi italiano.
–Paolo