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Numeri, notizie e disoccupazione negli Usa

La notizia “bomba” che l’economia americana ha sofferto nel 2008 la peggiore perdita di posti di lavoro addirittura dal 1945 è risultata irresistibile, nel suo affascinante catastrofismo, a quasi tutti i mezzi di informazione. Tra quelli che mi è capitato di vedere, solo Reuters ha scelto di confinare questo aspetto delle statistiche sull’occupazione Usa, diffuse venerdì, nel secondo paragrafo, anziché nel primo, del suo dispaccio.

Per il resto, non ho trovato nessuno che non abbia scelto di enfatizzare nei titoli e in apertura d’articolo il deprimente richiamo alla Seconda Guerra Mondiale, ritenendolo il tratto più interessante e significativo rivelato dai molti numeri inclusi nel rapporto. Così ha fatto Bloomberg, e così hanno fatto, tra le testate di casa nostra, tanto Il Sole 24 Ore come il Corriere della Sera e la Repubblica, il cui corrispondente da New York, Arturo Zampaglione, ha anzi ritenuto opportuno ricreare in avvio, in poche ma precise parole, il contesto di quei tempi drammatici:

“Era dal 1945, cioè da quando i soldati cominciarono a tornare dalla guerra e vennero rallentate le commesse belliche, che l’ economia americana non eliminava tanti posti di lavoro in un anno. Nel 2008, a causa della tempesta finanziaria e della recessione, ne sono stati persi 2,6 milioni.”

Immagino che la quasi totalità dei lettori abbia avvertito un brivido lungo la schiena, fatto forse un segno della croce e si sia dimessamente preparata al peggio.

Ma che razza di notizia è questa? Alla lettura dei dispacci d’agenzia e delle corrispondenze delle nostre più prestigiose testate non ho potuto fare a meno di ricordare una famosa arguzia dello scrittore Mark Twain. In risposta a un articolo di giornale che lo dava per defunto, Twain inviò il seguente telegramma: “Notizia mia morte fortemente esagerata”.

Per spiegare il perché di questa mia reazione, partirò da un’analogia – un po’ vaga, ma che forse rende l’idea. Immaginiamo che io cominci a confessare a mia moglie e agli amici di essere preoccupato perché mio figlio Valerio, nonostante tutte le sue ottime qualità, dimostra anche di conoscere un po’ di parolacce in più dell’altro mio figlio Tiziano, e negli inevitabili litigi sa anche picchiare con più forza. Bene, se io mi comportassi così c’è da star sicuri che mia moglie e gli amici mi scruterebbero stupefatti e risponderebbero: “Beppe, ma ti sei bevuto il cervello? Tiziano ha 6 anni, Valerio ne ha 8. Valerio è più grande!”

Ecco, questo è il punto. Anche l’economia americana, dal 1945 a oggi, non ha fatto che diventare più grande, e così la sua forza lavoro. Gli ultimi 60 anni sono stati un periodo di grande espansione demografica. Dopo la guerra c’è stato il baby boom e dalla seconda metà degli anni ’60 i baby boomer hanno invaso il mercato del lavoro. Uno sguardo ai dati storici del Bureau of Labor Statistics (l’organismo americano che raccoglie le statistiche sul mercato del lavoro) consente di verificare in un attimo che la forza lavoro americana era di 82 milioni e 771 mila unità nel 1970 (forse si può risalire più indietro, fino al fatidico 1945, ma non ho voluto dedicare a questa ricerca più di qualche istante) ed è cresciuta fino a 154 milioni 287 mila unità nel 2008. In 38 anni è aumentata dell’86%. Insomma, è quasi raddoppiata!

Siccome la forza lavoro è data dalla somma di occupatidisoccupati, è normale aspettarsi che, se la forza lavoro aumenta, siano sempre di più – in termini assoluti – i posti di lavoro che vengono creati in ogni nuovo ciclo espansivo e quelli che vengono distrutti a ogni nuova recessione.

Se la base di riferimento (la forza lavoro) si modifica, e anche di molto, l’unico modo per fare raffronti sensati nel tempo è quello di esprimerli in termini percentuali e non assoluti. Il dato – enfaticamente comunicato dai media – che la perdita di posti di lavoro nel 2008 è stata, in assoluto, la più elevata dal 1945 non ci dice praticamente nulla della gravità della recessione in corso. Spacciato per sommamente significativo, il numero – privato del contesto da cui è tratto, e cioè le dimensioni della forza lavoro – è invece ingannevole.

Per fortuna, c’è anche chi ha messo riparo a questo abbaglio collettivo dell’informazione finanziaria. E’ il caso, ad esempio, del team di economisti di Northern Trust, che, in risposta all’assordante cancan dei media, ha pubblicato il seguente grafico:

Il grafico mostra l’andamento dell’occupazione negli ultimi quattro cicli dell’economia americana, in modo da renderli confrontabili. Il picco di ogni ciclo è stato fatto pari al numero indice di 100, e da lì si è proceduto a computare il livello dell’occupazione nei due anni precedenti e due anni seguenti. Per il ciclo attuale, il tracciato si ferma a 4 trimestri dopo il punto di massima espansione, dato che la recessione in corso ha preso avvio nel dicembre 2007 e gli ultimi dati (quelli diffusi venerdì) si riferiscono al dicembre 2008.

Posta la questione in termini corretti, cosa appare evidente? Per quanto riguarda il mercato del lavoro, il bistrattato 2008 (quello che i media hanno fatto passare come l’anno peggiore dal 1945) si rivela come un anno di recessione – con un calo degli occupati dell’1,45% – un po’ peggiore del primo anno del ciclo recessivo del 1991 (-1,20%), un po’ migliore di quello del 2001 (-1,53%) e molto migliore del primo anno della pesante recessione del 1981 (-2,40%).

A chi si senta disorientato, aggiungerò che il sospetto sull’assennatezza di quanto più di qualche collega ha scritto tra venerdì e sabato doveva venire confrontando l’incipit degli articoli (il catastrofico confronto col 1945) con le informazioni che seguivano. Dovunque, qualche riga più giù, si finiva per comunicare il dato davvero significativo, e cioè che il tasso di disoccupazione americano era salito a dicembre dal 6,8% al 7,2%, il livello più alto da 15 anni. Non si tratta certo di una buona notizia. Ma gli ultimi 15 anni sono stati per l’economia americana un periodo di quasi ininterrotta espansione (la mini-recessione del 2001 fu una delle più brevi del dopoguerra), e una disoccupazione del 7,2% non è una tragedia (l’Italia, negli ultimi decenni, ha spesso avuto tassi superiori, anche quando l’economia era in piena crescita).

La conferma viene da quest’altro grafico, tratto sempre da Northern Trust, dove si mostra l’andamento del tasso di disoccupazione negli Usa (linea rossa) dal 1980 a oggi. Le bande grigie indicano i periodi di recessione.

Non c’è di che rallegrarsi. Ma le cose, fermandosi agli ultimi tre decenni senza scomodare il 1945, sono spesso andate peggio.

Intendo con questo spingermi a dire che l’ultimo rapporto sull’occupazione americana non ha offerto motivi di preoccupazione? Non è così. Il catastrofismo dei media è stato fuorviante. E il raffronto con il 1945, ripeto, è privo di senso. Ma esistono, eccome, le note dolenti.

Un rapido sguardo al primo dei grafici da me riportati mostra come la pendenza della curva relativa al 2008 si sia accentuata nell’ultimo trimestre. Negli ultimi mesi, da settembre in poi, il deterioramento del mercato del lavoro americano è molto accelerato, assumendo un’intensità che non si vedeva dagli anni ‘70. Ci sarebbe stato da stupirsi del contrario, vista l’entità dello shock patito dal sistema finanziario e creditizio, che si sta ora inevitabilmente trasferendo all’economia reale. Ma non c’è dubbio che la situazione è delicata ed esige risposte urgenti di politica fiscale, cosa peraltro di cui la nuova amministrazione Obama è pienamente consapevole.

Mark Twain, che ho citato in avvio, non era un grande ammiratore degli standard della professione giornalistica. Gli capitò di affermare che “i giornalisti sono quelli che sanno distinguere i fatti dalle balle, ma poi pubblicano le balle.” Sono incline a pensare, però, che nel nostro caso il suo sarcastico detto – in altre circostanze giustificato – non colga del tutto nel segno.

Certo, tentato dalla possibilità di mettere in piedi un drammatico confronto col 1945 ogni giornalista intuirebbe subito l’allettante prospettiva di un titolo a tutta pagina che fa vendere di più. Ma sospetto che, nel nostro caso, trovandosi a che fare con una marea di numeri, alcuni miei colleghi – più avvezzi a districarsi tra le parole – abbiano finito per comportarsi in modo un po’ disarmato, come delle persone qualunque. E il risultato è stato che, abbandonandosi all’onda delle sensazioni (“le cose vanno male, anzi malissimo”), si sono trovati a raccontare balle senza averle sapute distinguere dai fatti. Quali fossero i fatti, non sono stati in grado – almeno in parte, almeno questa volta – di capirlo.

Un rimedio per il futuro potrebbe essere la lettura di un bel libro di Gerd Gigerenzer, un noto scienziato cognitivo, dal titolo Quando i numeri ingannano. Lì, tra l’altro, Gigerenzer porta svariate prove a supporto di una sconsolante affermazione: “La sempre maggiore pubblicizzazione dei dati statistici […] è legata all’ascesa delle democrazie nel mondo occidentale. […] Oggi i numeri sono pubblici, ma il pubblico in generale non li sa leggere.” Purtroppo, è così. E la diffusa, acritica evocazione dei tempi della Seconda Guerra Mondiale seguita alla pubblicazione degli ultimi dati sull’occupazione americana ne è una riprova.

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Ingannevoli previsioni

“E’ indesiderabile credere a un’affermazione quando non c’è alcun motivo per ritenerla vera.” Questa massima del filosofo Bertrand Russell andrebbe tenuta a mente da ogni investitore che si senta tentato di fare affidamento sulle previsioni continuamente formulate da frotte di analisti di mercato ed economisti. E’ infatti evidente che nessuno ha ancora scoperto il modo di anticipare correttamente l’andamento del ciclo economico, degli utili aziendali o dei mercati finanziari. Continua a leggere…

Oracoli, onde di Elliott e l’occulto Fibonacci

Nei commenti a uno degli ultimi post mi ha scritto un lettore, Alessandro, chiedendo – con una certa apprensione – il mio parere in merito a una “previsione davvero da paura” pubblicata di recente dal blog Intermarket&more. Ne parlerò volentieri, in un post anziché nello spazio dei commenti, perché penso che l’argomento meriti un minimo di approfondimento.

Di che si tratta? L’autore di Intermarket&more ha preso il grafico settimanale dell’indice S&P 500, dalla fine del bear market del 2002 fino a oggi. Ha tracciato un paio di trendline, costruite congiungendo tra loro un po’ di minimi ascendenti del bull market 2003-2007 e un po’ di massimi discendenti del bear market 2007-2008, ha aggiunto una parallela alla trendline discendente tratteggiando così quello che i graficisti chiamano un canale, infine ha proiettatato in avanti il trend degli ultimi 14 mesi aggiungendo dei ritracciamenti di Fibonacci (di cui parlerò per esteso più in avanti). Continua a leggere…

Recessioni, bear market e castelli in aria

Di come funzionino l’economia e i mercati finanziari molto ci sfugge. Qualcosa, però, si sa, come ad esempio che seguono dei cicli. A un’espansione fa seguito una recessione e dopo un bull market viene un bear market, un po’ come al giorno segue la notte. La regolarità, s’intende, non è la stessa. Economie e mercati sono espressioni della socialità umana, fenomeni storici segnati da un’intrinseca imprevedibilità. D’altra parte, non sono neppure totalmente impenetrabili, irrazionali e caotici. Ci sono delle costanti, magari instabili, magari non precisamente misurabili, che comunque ci possono aiutare a orientarci. E tra queste, la ciclicità è una delle più evidenti.

Osserviamo, per fare un esempio, il grafico che segue, a cura della Federal Reserve Bank di San Francisco. Mostra l’andamento del Pil americano dal 1946 all’inizio del 2008. Le fasce in grigio indicano le recessioni.

Negli ultimi 62 anni si sono alternate 11 fasi espansive e 10 recessioni. Nell’economia in rapida crescita che ha caratterizzato l’ultimo paio di secoli di storia umana, le espansioni durano molto più a lungo delle recessioni. E infatti, dal 1946 a oggi, negli Usa, le prime si sono protratte in media per 57 mesi, le seconde solo per 10. Sommando, si ottiene la durata media del ciclo economico americano, che è stata di 67 mesi, ossia poco più di 5 anni e mezzo.

Si tratta, come accennavo, di un ciclo piuttosto irregolare. Le recessioni oscillano tra i 6 e i 16 mesi (la più breve fu quella del 1980, le più lunghe, alla pari, quelle del 1973-75 e del 1981-82). Mentre le espansioni hanno avuto una durata variabile tra i 2 anni (1958-1960) e i 10 anni (1991-2001).

Per prevedere una recessione, dunque, non basta guardare il calendario!

Un esperimento mentale

D’altra parte, avere un’idea del ciclo economico, pur con tutta la sua instabilità, e delle sue dimensioni medie ci può essere d’aiuto. Per capirlo, proviamo a fare un piccolo esperimento mentale.

Immaginiamo di trovarci al settimo anno di un’espansione che ha fatto seguito a una delle recessioni più brevi della storia (otto mesi), la quale a sua volta è venuta dopo un’altra fase di crescita addirittura decennale, la più lunga della storia (per lo meno dal dopoguerra a oggi).

Immaginiamo anche che questi 204 mesi (17 anni) di crescita inframmezzati da solo otto mesi di una scialba contrazione (ricordiamolo, il rapporto medio tra espansioni e recessioni è di 57 a 10, non di 204 a otto) siano stati il frutto non tanto di rivoluzioni tecnologiche e “miracoli” di produttività senza precedenti, ma, in misura prevalente, di un’economia drogata dall’eccessiva disponibilità di credito (e conseguente accumulazione di debito).

A questa lunga onda espansiva, va infatti aggiunto, si sono accompagnate la più grande bolla azionaria della storia, la più grande bolla immobiliare della storia, e infine la più grande bolla del credito della storia – tutti fenomeni che hanno fortemente squilibrato e indebolito l’economia oggetto del nostro esperimento mentale.

Immaginiamo, infine, che i prezzi del petrolio aumentino del 600%, superando a spron battuto quei livelli che in passato hanno invariabilmente provocato delle crisi economiche. E che contestualmente, una dopo l’altra, scoppino tutte le bolle, provocando una corsa a vendere asset, ridurre i debiti, contrarre il credito.

A questo punto, dopo 204 mesi di espansione, interrotti solo da una breve pausa di 8 mesi, gli indicatori di crescita volgono bruscamente al peggio, scendendo da tassi annui di crescita superiori al 4% fino in prossimità dello zero.

Siamo alla fine dell’esperimento. Voi, a questo punto, su quale esito scommettereste? Recessione, sì o no?

La conclusione, per ora, sono costretto a tirarla da solo. Io scommetterei decisamente sulla recessione, e mi viene da aggiungere che non vedo come una persona ragionevole potrebbe fare altrimenti. Nelle previsioni, ben inteso, la certezza non esiste. Ma in base al quadro che ho illustrato, le probabilità sembrano troppo sbilanciate a favore dell’esito negativo per non puntare lì le proprie fiches.

Le previsioni della Federal Reserve

Bene, come penso chiunque avrà capito, quella che ho proposto di immaginare è in realtà la situazione in cui versa – da un po’ di tempo – l’economia americana.

Il mondo dell’economia e della finanza pullula di persone ricche di talento. Qualcuno, immaginandolo, penserà: beh, certo non sarà sfuggito che l’economia Usa è già in recessione o sta per cadervi. I più esperti l’avranno capito e fatto capire da un pezzo.

Vediamo se è davvero così, facendo ritorno a poco più di un anno fa e prendendo le mosse dalla Federal Reserve, la banca centrale americana, che è un concentrato di competenze e materie grigie orchestrato dal presidente Ben Bernanke, uno degli economisti più bravi al mondo.

Nel maggio dell’anno scorso gran parte degli ingredienti che ho illustrato nel mio esperimento mentale si erano già in qualche misura manifestati. Il Pil, ad esempio, aveva registrato una fase di crescita particolarmente debole nel quarto trimestre del 2006. Il prezzo del petrolio non si era certo ancora moltiplicato di 7 volte da quei 20 dollari a barile che quotava alla fine dell’ultima recessione americana, nell’autunno del 2001, ma aveva sfiorato gli 80 dollari: pur sempre un’impennata del 300%. Il mercato della casa era già in brusca contrazione e la crisi dei mutui subprime era sotto gli occhi di tutti.

Io, nel mio piccolo, avevo allertato i miei lettori degli evidenti pericoli di crisi economica (non solo in America), di un crollo degli utili e di un pericoloso bear market azionario in tre post in rapida successione, che forse vale la pena rileggere: “Utili record e utili normalizzati”, “Analisi strategica del ciclo” e “La prima bolla davvero globale”.

In quello stesso maggio, a Chicago, Bernanke tenne un discorso interamente dedicato all’analisi dei problemi nel mercato dei mutui subprime.

Le conclusioni, in sostanza, erano le seguenti:
– non ci sono segni di spillover, ossia di ricadute negative, sulle banche. I gruppi creditizi coinvolti sono operatori marginali, “in gran parte” neppure coperti dall’agenzia federale che assicura i depositi.
– i fondamentali economici dovrebbero sostenere la domanda di case. La crescita dei posti di lavoro e dei redditi dovrebbe garantire la sostenibilità dell’esposizione debitoria delle famiglie. Pertanto, la situazione critica nel settore dei mutui subprime avrà effetti “limitati” sul mercato immobiliare. La stragrande maggioranza dei mutui continuano a performare “bene.”

Come oggi sappiamo, queste conclusioni non avrebbero potuto essere più fuorvianti e sbagliate.

In quel periodo, la Federal Reserve faceva riferimento a un quadro di stime macroeconomiche (reso pubblico a febbraio) che prevedeva una crescita del Pil del 2,5%-3,0% nel 2007 e del 2,75%-3,0% nel 2008, un tasso di disoccupazione stabile al 4,5% e un’inflazione poco sopra il 2% nel 2007 ma in calo l’anno successivo.

Seguire l’evoluzione di queste stime è istruttivo.

A luglio, nel tradizionale rapporto semestrale consegnato al Congresso, la Fed si fece un po’ più cauta nella sua previsione di crescita per l’anno corrente (2,25%-2,5%) ma conservò l’assunto che le cose sarebbero andate meglio nel 2008, quando il Pil sarebbe cresciuto del 2,5%-2,75% e l’inflazione sarebbe tornata sotto controllo.

In merito a quest’ultimo punto, la Fed notava in particolare come “alcuni dei fattori che hanno esercitato pressioni sui prezzi in anni recenti già hanno cominciato ad attenuarsi, o sembrano comunque in procinto di farlo. L’andamento dei prezzi dell’energia e delle altre materie prime, implicito nei contratti future, suggerisce che le pressioni sull’inflazione core da essi derivanti dovrebbero diminuire.”

Di conseguenza, conclusero allora diversi analisti di spicco, tra cui ad esempio quelli di Goldman Sachs, era ragionevole attendersi che i tassi a breve (i Fed funds) restassero invariati al 5,25% per un bel po’.

Giusto? No, patetico wishful thinking, verrebbe da commentare oggi, brandendo senza misericordia il nostro senno di poi. In realtà, la crescita stava per implodere, l’inflazione per esplodere e i tassi erano in procinto di essere tagliati, in rapida successione tra settembre e aprile, dal 5,25% al 2%.

Da lì in poi – novità introdotta da Bernanke – le stime macroeconomiche della Fed vennero rese pubbliche a cadenza trimestrale, anziché semestrale. Continuiamo a seguirle.

A novembre la banca centrale tagliò di nuovo la previsione di crescita per il 2008 all’1,8%-2,5%, citando il deterioramento dei mercati della casa e del credito come motivi di preoccupazione.

In un’audizione di fronte al Congresso, i cui contenuti furono in genere descritti dai media come “deprimenti” (gloomy), Bernanke, pur non eludendo un’analisi dei rischi, si disse comunque convinto che la crescita, per quanto rallentata, sarebbe rimasta positiva a cavallo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008. Dopodichè, aggiunse, “pensiamo che a partire dalla primavera (2008, ndr), a mano a mano che i problemi creditizi si risolvono e, come speriamo, il mercato della casa comincia a toccare il fondo […] l’economia si riprenderà.”

Sappiamo ora che nel corso dell’ultimo trimestre del 2007 la crescita del Pil americano fu negativa (-0,2%). A marzo di quest’anno, poi, la Fed era alle prese col salvataggio di Bear Stearns e dopo di allora i problemi non si sono affatto risolti, anzi. A luglio c’è stato il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac e giusto ieri JP Morgan ha annunciato nuove perdite citando un marcato peggioramento degli spread e delle condizioni del mercato del credito nell’ultimo mese (novità che non avrebbe dovuto sorprendere chi, ad esempio, ha seguito la recente impennata nelle quotazioni dei credit default swaps, strumenti derivati utilizzati per assicurarsi contro i rischi di insolvenza).

E’ inoltre facile osservare che il mercato della casa non ha per ora dato alcun cenno di voler toccare il fondo (ne riparlerò più avanti) e che gli indicatori di crescita, dopo un effimero rimbalzo nel secondo trimestre dell’anno, dovuto ai 170 miliardi di dollari di incentivi fiscali approvati in fretta e furia dal Congresso e dalla Casa Bianca all’inizio dell’anno, sono tornati negli ultimi tempi a volgere al peggio (anche di questo parlerò più diffusamente nel seguito di questo post).

A posteriori, gli annunci novembrini di Bernanke, per quanto etichettati allora come “deprimenti”, appaiono contrassegnati da un irrealistico ottimismo.

A febbraio, col nuovo aggiornamento trimestrale delle previsioni macro, la Fed riduceva la stima del Pil per il 2008 all’1,3%-2,0%. E un ennesimo, più drastico taglio è stato annunciato a maggio, questa volta a una forchetta dello 0,3%-1,2%. Vedremo, tra pochi giorni, quali sorprese ci riserveranno le stime di agosto.

Gestione dei rischi, statistiche e lampioni

Un osservatore disincantato, a questo punto, potrebbe intravedere nella storia che ho ricostruito un filo rosso di continuità.

Esclusa la sistematica imperizia, verrebbe naturale supporre una tecnica di gestione dei rischi (penso a rischi di feedback negativi e di reputazione) così strutturata: di fronte all’elevata probabilità di un accadimento sgradevole e potenzialmente traumatico e destabilizzante, negare finché è possibile farlo senza distruggere la propria credibilità, ammettere quello che non può più essere negato, ma prestando bene attenzione a condire ogni annuncio negativo con delle rassicurazioni positive di prevalente portata (ad esempio, “stiamo attraversando un trimestre, al massimo due, di congiuntura bassa, ma già si vede la svolta e l’anno prossimo le cose andranno progressivamente sempre meglio”).

Forse, in questo approccio, ci sono diverse cose da salvare. Ma non dal punto di vista dell’investitore, il cui interesse non è quello di coltivare illusioni, ma di interpretare lucidamente la realtà.

In una seconda parte di questo post cercherò di illustrare altri esempi di “castelli in aria”, costruiti un po’ dovunque, in America come qui in Italia, da esponenti di diverse categorie (fonti di insidie costanti per un investitore) tra le quali alberga spesso l’interesse a negare, per quanto possibile, finché possibile, l’approssimarsi o l’instaurarsi di una recessione: analisti finanziari, esponenti di governo, amministratori di aziende quotate, giornalisti di media vicini alle istituzioni.

Cercherò anche di mostrare come alcune apparenti “contraddizioni” e ambiguità statistiche che, in qualche misura, continuano a velare l’evidenza di una recessione che dall’America si sta ormai estendendo all’Europa siano facilmente decrittabili, solo che lo si voglia.

Purtroppo, tale lavoro interpretativo è attivamente ostacolato da un fenomeno che già aveva scatenato l’arguzia di uno straordinario osservatore delle vicende umane. Diceva Mark Twain: “La gente di solito usa le statistiche come un ubriaco i lampioni: più per sostegno che per illuminazione”. Certa gente, mi permetto di aggiungere, in modo particolare.

Rendimenti finanziari, le lezioni della storia

Affrontare i mercati finanziari senza avere un’idea dei rendimenti che possono offrire è un po’ come navigare senza avere con sé le carte nautiche, con la differenza che il secondo comportamento è punito dalla legge mentre il primo non lo è. L’investitore, dunque, se vuole evitare naufragi, non può fare affidamento su vincoli esterni ma solo su se stesso. Sembra facile e invece si tratta di uno scoglio in più che per molti risulta arduo superare. Continua a leggere…

Perché i rating dei broker sono da ignorare

Bloomberg.com ha pubblicato oggi un’interessante notizia relativa alle nuove linee guida stabilite da Merrill Lynch per i suoi analisti azionari. D’ora in poi ognuno di loro dovrà assegnare il rating di sell (vendi) ad almeno il 20% dei titoli sotto copertura. I neutral e i buy (acquista) non dovranno eccedere, rispettivamente, il 30% e il 70% dei titoli. Al momento, solo il 12% dei rating emessi dagli analisti di Merrill Lynch è un sell, una percentuale decisamente bassa.

Lo stesso articolo riferisce infatti che ogni anno i titoli che hanno un andamento di prezzo in calo sono il 37% del totale. Ovviamente, più numerosi ancora sono quelli che pur apprezzandosi finiscono comunque per fare peggio degli indici di mercato.

E’ da notare che Merrill Lynch si distingue in qualche modo per la sua “serietà” rispetto alla media. Nel complesso, infatti, tra gli analisti delle banche d’affari e dei broker di Wall Street i rating di sell sono solo il 5% del totale, una quota risibile e di per sè sufficiente a definire la credibilità di queste raccomandazioni. Continua a leggere…

La settimana enigmistica del Sole 24 Ore

Un mese e mezzo fa, con l’indice S&P 500 a 1350 punti, la rubrica Settimana finanziaria del Sole 24 Ore, a firma di Walter Riolfi, propose un’analisi della congiuntura economica e delle prospettive dei mercati azionari che attirò la mia attenzione. A ogni passo l’autore vedeva “spiragli di ottimismo”, al punto da abbandonarsi alla confessione che una recessione negli Usa era uno scenario che lo lasciava “poco convinto”. Per le Borse, secondo lui, “un buon recupero” era da mettere in conto.

Quell’articolo mi parve così lontano dalla realtà, così fondato su elementi di analisi parziali o distorti da indurmi a scrivere un post alquanto critico dal titolo Recessione, Borse e ottimismo al Sole 24 Ore.

Cinque settimane dopo, alla vigilia di Pasqua, mi sono di nuovo imbattuto nella rubrica di Riolfi. Continua a leggere…

I fondi comuni e i rating che irretiscono

Sono andato a rileggere il mio post Classifiche dei fondi: come evitare le trappole, del luglio scorso. Penso che anche per i miei lettori potrebbe essere interessante fare altrettanto. In quell’analisi prendevo di mira un servizio pubblicato con grande evidenza su CorrierEconomia all’avvio del secondo semestre del 2007. L’inserto del Corriere della Sera aveva elaborato, sulla base di criteri che venivano presentati come particolarmente affidabili, una classifica dei “magnifici 20”: i 20 fondi azionari italianipiù brillanti e costanti negli ultimi 5 anni.” A cinque tra i migliori gestori, enfaticamente introdotti come “i campioni”, il giornale aveva poi chiesto di esprimere delle previsioni su cosa avrebbe fatto il mercato italiano nella seconda metà dell’anno e quale sarebbe stato il titolo migliore su cui puntare.

I cinque intervistati – Giordano Beani, direttore investimenti di BNL, Alessandro Pacchiani, gestore di Oyster italian value, Fausto Artoni, gestore di Azimut trend Italia, Luca Mori, gestore di Capitalia small cap Italy, e Francesco Agnès, gestore di Fondersel Pmi – non si erano sottratti alla sfida.

A livello di mercato, dopo la correzione iniziata a metà maggio, i “campioni” avevano espresso un giudizio sostanzialmente unanime che le cose sarebbero andate un po’ meglio nella seconda parte dell’anno. Le previsioni per il Mibtel erano raccolte in un fazzoletto, tra il +3% di Beani e il +8% di Mori.

A livello di titoli, ogni gestore aveva espresso invece una preferenza diversa. La rosa comprendeva Eni, Generali, Autogrill, Mediaset e Danieli.

Nel mio articolo, mi ero sforzato – per diversi buoni motivi e nell’interesse dei miei lettori – di demolire quel servizio da cima a fondo.

La classifica dei fondi, argomentavo, era “inutile, anzi dannosa.”

Tendeva a selezionare, com’è il caso per i ranking basati su performance di breve o medio periodo, “i “campioni” del passato quando sono a fine corsa e si accingono a diventare – non tanto per demerito dei singoli gestori quanto per la specializzazione dei fondi e le rotazioni settoriali del mercato – i “brocchi” del prossimo futuro.”

Le previsioni degli esperti, aggiungevo, erano inaffidabili più o meno al pari di quelle di ciascuno di noi.

Ricordavo il giudizio di Warren Buffett, che in una delle sue lettere agli azionisti di Berkshire Hathaway, descrisse l’ossessione per le previsioni come una “costosa distrazione per molti investitori e uomini d’affari.”

E citavo una formidabile e lapidaria massima cinese, di Lao Tzu: “Quelli che hanno la conoscenza non fanno previsioni. Quelli che fanno previsioni non hanno la conoscenza.”

Infine, mettevo in guardia dall’”asfittico consenso” espresso dai 5 money manager in relazione alla prevista evoluzione delle Borse. Così come risultava anche da un analogo sondaggio pubblicato dalla rivista americana Barron’s in quegli stessi giorni, i punti di vista erano quasi tutti molto simili.

Ecco cosa scrivevo:

“Non c’è unanimità di vedute, ma c’è meno diversità di quanto non sia normale riscontrare. Vuol dire che ci si può fidare? No, al contrario.

I mercati finanziari operano come efficienti macchine di sconto quando riflettono le fisiologiche diversità di opinioni della moltitudine degli investitori.Quando le opinioni cominciano a cristallizzarsi in un consenso sempre più ristretto (come accadde ad esempio tra il 1999 e l’inizio del 2000) è segno che bisogna stare in guardia.

Punti di vista sempre più omogenei sono un segnale di inefficienza, che precede traumatici aggiustamenti (al rialzo come al ribasso). Insomma, quando tutti prevedono le stesse cose – che proprio perché sono previste sono anche già scontate dal mercato – vuol dire che sta per accadere l’inaspettato.”

Ora che ho riassunto il mio post di luglio, è il momento di riepilogare i risultati della verifica che sono andato a fare. Quanto erano fondate le mie critiche?

Il valore del consenso

Sul valore del “consenso”, mi pare che avevo ragione. A posteriori, sappiamo ora che l’estate dello scorso anno è stato un punto di svolta per i mercati azionari. Il “traumatico aggiustamento” che paventavo, stava proprio allora prendendo avvio, al ribasso.

I dissesti del mercato della casa e dei mercati del credito americani (e non solo), che allora la stragrande maggioranza degli investitori tendeva a ignorare o quanto meno a sottovalutare, hanno fatto infine irruzione nella coscienza collettiva, mandando a picco le Borse.

Il valore delle previsioni

Sul valore delle previsioni dei cinque “campioni” del Corriere della Sera, i conti sono presto fatti.

L’indice Mibtel, rispetto a una forchetta di previsioni che andava da +3% a +8%, e a una stima media di +6,2%, ha fatto segnare, nel secondo semestre dello scorso anno, un calo del 10,6%. L’errore, in appena sei mesi, è stato dunque del 16,8%!

Naturalmente, ai nostri esperti sarebbe potuta andare molto peggio, considerato che la flessione dei listini si è accentuata dai primi giorni di quest’anno.

Quanto ai cinque “titoli migliori”, raccomandati per il secondo semestre del 2007, la performance media è stata del -8,0% – un po’ meglio dell’indice Mibtel, dunque.

Ma a fare il confronto con l’indice S&P/Mib, tenuto conto che in quattro casi su cinque le azioni raccomandate erano delle large cap, anche quel risicato vantaggio viene meno.

L’S&P/Mib, nel secondo semestre dello scorso anno, ha messo infatti a segno un -8,1%, un risultato quasi perfettamente in linea con la media dei 5 migliori titoli dei nostri money manager. Insomma, un esito sconsolante, non diverso da quello che si sarebbe potuto ottenere scegliendo i titoli a caso.

Il valore dei rating e delle classifiche

E la classifica dei fondi? Ha retto, almeno quella, alla prova? Niente affatto.

Una volta mutato il clima di mercato, si sono manifestati dei trend interessanti, che sembrano confermare – almeno per ora – quel fenomeno di “regressione verso la media” di cui parlavo nel post di luglio.

Ho ricavato i miei dati dal sito pubblico di Morningstar, che – se non erro – non consente di fare confronti a partire da un giorno scelto a piacere. Si possono però rapidamente verificare le performance a 6 o a 12 mesi. I risultati, nella sostanza, non cambiano.

Vediamo allora cosa è accaduto negli ultimi 12 mesi (il confronto più lusinghiero, dato che incorpora ancora qualche scampolo del bull market, in cui, come spiegavo a luglio, i nostri “campioni”, gonfi di small cap e titoli value, correvano più degli indici): 4 dei 5 fondi hanno sottoperformato l’indice di mercato, 3 su 5 hanno fatto peggio anche dell’indice di categoria (i fondi azionari italiani).

Nel dettaglio:

Oyster Italian Value di Alessandro Pacchiani: -22,7% (peggio della media dei fondi, peggio del mercato);
Capitalia Small Cap Italy di Luca Mori: -19,8% (peggio della media dei fondi, peggio del mercato);
BNL Azioni Italia Pmi di Giordano Beani (in qualità di direttore investimenti, il gestore è Antonio Cavallo): -19,7% (peggio della media dei fondi, peggio del mercato);
Fondersel Pmi di Francesco Agnes: -17,4% (un po’ meglio della media dei fondi, un po’ peggio del mercato);
Azimut Trend Italia di Fausto Artoni: -10,7% (meglio della media dei fondi, meglio del mercato).

La media dei 5 “campioni” dà, negli ultimi 12 mesi, un risultato del -18,1% rispetto al -15,9% del benchmark, l’indice MSCI Italy.

Negli ultimi 6 mesi – tutti racchiusi nel bear market, e dunque nel mutato clima di mercato – la performance relativa peggiora.

Tre fondi – Oyster Italian Value, Capitalia Small Cap Italy e BNL Azioni Italia Pmi – soffrono una vera debacle, cumulando una sottoperformance nei confronti del mercato del 15,5% il primo, dell’8,3% il secondo, e del 5,1% il terzo.

Fondersel Pmi si barcamena, con un -1,6% rispetto al benchmark. Mentre Azimut Trend Italia si conferma al top, con un +1,8% rispetto al MSCI Italy (anche se, in termini assoluti, la performance a 6 mesi resta un pesante -16,5%).

La performance media a 6 mesi, per i 5 fondi, dà un calo del 24,1%, ben 5,7 punti peggio del benchmark!

Stelle cadenti e rating che irretiscono

Se a luglio scorso, i “campioni” di CorrierEconomia erano tutti fondi che Morningstar classificava al top del ranking, con quattro o cinque stelle di merito, oggi la situazione è radicalmente cambiata: Oyster Italian Value e Capitalia Small Cap Italy si vedono assegnate solo due stelle, BNL Azioni Italia Pmi ne ha tre, Fondersel Pmi ne ha quattro, e solo Azimut Trend Italia è rimasto ai vertici, con le sue cinque stelle.

Non so come andranno le cose in futuro. E’ possibile (ma improbabile) che, da veri “campioni”, tutti i nostri 5 fondi si sappiano riscattare.

Ma per ora i dati ci dicono che quanto avevo scritto a luglio, basandomi su studi condotti nell’arco di decenni da grandi analisti come David Dreman o Richard Bernstein, resta confermato. Cambia il ciclo di mercato, mutano i trend, e i “campioni” del recente passato diventano, nella media, i “brocchi” del prossimo futuro.

Certamente, i lettori che lo scorso luglio fossero stati indotti dall’articolo di CorrierEconomia a puntare su quei fondi che il giornale aveva così superficialmente esaltati, avrebbero oggi molte ragioni per recriminare.

In tre casi su cinque la loro scelta d’investimento sarebbe risultata, a oggi, fortemente penalizzante – sia in termini assoluti che in relazione all’indice di riferimento.

Un’eccezione, già lo scorso luglio, io l’avevo fatta, scrivendo che – tra i 5 – l’unico che performava meglio del mercato pur non essendo uno specialista delle small cap (lo stile più in voga negli anni del bull market) era Azimut Trend Italia di Fausto Artoni.

Lo stesso fondo è l’unico, tra i 5, che nel bear market si è dimostrato sinora di nuovo capace di battere gli indici. Non conosco Artoni, non ho analizzato la sua performance di più lungo corso, ma ci sono motivi per pensare che, nel mucchio delle ingiustificate raccomandazioni fatte da CorrierEconomia, la sua meriti invece di essere tenuta in considerazione.

Per il resto, penso di aver dimostrato che – di quell’articolo del Corriere della Sera che avevo preso di mira perchè così tipico e comune nel suo genere e così sbagliato nella sua concezione – era giusto rifiutare tutto o quasi.

Non avevano senso le classifiche, non avevano senso le previsioni. Solo il consenso era meritevole di attenzione: ma come indicatore contrario.

Recessione, Borse e ottimismo al Sole 24 Ore

La rubrica Settimana finanziaria del Sole 24 Ore, a firma di Walter Riolfi, annunciava ieri – nel suo titolo – la comparsa di “Spiragli di ottimismo sui mercati.” L’occhiello chiariva che “tra gli operatori si attenuano i timori di recessione”, anche se il sottotitolo metteva in guardia come “la crisi del credito è lungi dall’essere conclusa e può frenare i consumi delle famiglie.” Rimproverandomi per le distrazioni che mi avevano impedito di condividere, nel corso della settimana, il più sollevato stato d’animo diffusosi a Il Sole 24 Ore, mi sono tuffato nella lettura dell’articolo.

Ho così appreso, tra l’altro, che:

a) la scorsa settimana “s’è parlato un po’ meno di recessione economica”;

b) i dati macroeconomici Usa dell’ultima settimana “sembrerebbero scongiurare l’evenienza estrema” (la recessione, ndr): vendite al dettaglio, produzione industriale e bilancia commerciale sarebbero infatti state un po’ superiori alle attese;

c) la Federal Reserve, dopo aver contemplato dieci giorni fa, per bocca di un suo esponente, uno scenario di recessione, si è mostrata “molto più cauta”. Il suo presidente Ben Bernanke, in particolare, ha previsto semplicemente una “crescita da lumaca” e poi un “andamento più sostenuto” verso fine anno;

d) Riolfi in persona è stato in questi mesi “poco convinto dell’imminente recessione Usa” e continua a esserlo, anche se resta “piuttosto scettico” sull’eventualità di una “forte ripresa” nella seconda metà dell’anno. Un “prolungato rallentamento economico negli Usa e in parte in Europa” è il suo scenario preferito. E come mai? Perché “la crisi del credito è lungi dall’essere conclusa […] e un credito ridimensionato significa pure un rallentamento dei consumi […]”;

e) infine, sempre Riolfi, rincuorato dal fatto che il suo cauto ottimismo sul fronte macroeconomico sembra finalmente diffondersi anche al di fuori delle stanze de Il Sole 24 Ore, si dichiara fiducioso sulle prospettive del mercato azionario. Magari non ci sarà un’inversione a “V” delle Borse (e cioè un rally altrettanto esplosivo quanto repentina è stata la caduta dai massimi). Ma “si dovrebbe vedere un buon recupero di parecchi titoli (specie medie capitalizzazioni) industriali, utility, tecnologici, le cui quotazioni sono state falcidiate.”

Ritorno alla realtà

Finita la lettura, mi sono stropicciato gli occhi. E ho cercato di ritornare con i piedi per terra.

Naturalmente, io non so cosa faranno le Borse nei prossimi mesi: inversione a “U”, “V”, “W”, o un altro tonfo del 20%. Né penso di sapere quali saranno i settori migliori. E non capisco come faccia Riolfi a prevedere scintille per i “falcidiati” titoli industriali, tecnologici e dei servizi di pubblica utilità.

Proprio a fianco all’articolo, il Sole 24 Ore pubblicava ieri una tabella con gli andamenti dei 18 macrosettori del mercato europeo, da cui era facile vedere come nell’ultimo anno utility, industriali e tecnologici hanno fatto tutti molto meglio dell’indice generale DJ Stoxx. Le utility, in particolare, sono state uno dei soli tre comparti a far registrare un andamento positivo (+3,8%) a 12 mesi. Dov’è la falcidie?

Purtroppo, l’abbozzo di analisi macroeconomica su cui poggiava l’articolo non era molto più accurato. Ed è su questo che vorrei concentrarmi, visto che è da qui che Riolfi sembra far discendere le positive aspettative di mercato propagate poi dalle pagine di un giornale influente come Il Sole 24 Ore.

Mi sono chiesto: ma è vero che i timori di recessione, tra gli operatori, si sono attenuati?

Per cercare di capirlo, sono andato a vedere un indicatore sintetico e sensibile, che consente di fare un’accettabile valutazione, e cioè il contratto US.recession.08 scambiato sul mercato di Intrade (di cui ho già diffusamente parlato nel post Mercati predittivi e recessione negli Usa).

Ecco il grafico:

Com’è evidente, dopo essersi impennato a partire dalla metà di ottobre (quando Wall Street cominciò la sua picchiata dai massimi), il contratto, da un mese circa a questa parte, si è stabilizzato in una stretta forchetta tra il 62% e il 70% di probabilità di recessione: insomma, due probabilità su tre – un livello molto elevato.Gli “spiragli” di ottimismo sono dunque da ieri visibili ai lettori del Sole 24 Ore, ma restano invisibili ai comuni investitori.

Bernanke: parole e fatti

Né ha senso farsi forza con le parole di Bernanke. Il suo ruolo istituzionale gli impone di seminare cautela quando c’è troppo ottimismo, e rassicurazioni quando si diffonde il timore.

A parole, un presidente della Fed non potrà mai permettersi di prevedere una recessione: verrebbe prontamente e giustamente accusato di contribuire a provocarla.

Nei fatti, i recenti interventi di politica monetaria, con tagli ai Fed Funds di 225 punti base negli ultimi 5 mesi, anche mediante il ricorso a procedure d’urgenza, bastano a evidenziare quanto i timori di recessione, alla Fed, siano elevati.

Dati macroeconomici da interpretare

Che poi “l’evenienza estrema” della recessione sia stata in qualche modo “scongiurata” dai dati macroeconomici dell’ultima settimana è un’interpretazione davvero curiosa.

L’articolo del Sole 24 Ore cita vendite al dettaglio, produzione industriale e bilancia commerciale. E già stupisce il fatto che non vengano citati dati, altrettanto recenti, ma eloquentemente negativi, come quelli sui sussidi di disoccupazione o sulla fiducia dei consumatori.

Vediamoli, nei grafici e nelle analisi di Northern Trust:

Il dato di giovedì ha fatto balzare la media mobile a 4 settimane delle richieste di sussidi di disoccupazione al livello di 347.250, il più alto dal giugno 2004. Il deterioramento, dagli inizi del 2006, non dà segni di tregua. Commenta Asha Bangalore di Northern Trust: “la debolezza del mercato del lavoro è persistente.”Naturalmente, le rilevazioni settimanali sui sussidi di disoccupazione integrano e aggiornano quella mensile sul mercato del lavoro nel suo complesso, l’ultima delle quali – diffusa il primo febbraio – ha offerto scoraggianti indicazioni.

Gli occupati a gennaio sono scesi di 17 mila unità e un indicatore importante come il rapporto tra quanti hanno perso il posto di lavoro nel corso del mese e il monte totale dei disoccupati nel settore civile è salito al 50,7% rispetto al minimo ciclico del 46,0% nel luglio 2006.

Come osserva Bangalore, ed evidenzia il grafico qui sotto (dove le fasce grigie rappresentano periodi di contrazione del Pil), un sensibile incremento di questo rapporto è tipicamente associato all’avvio di una recessione.

Curioso, dicevo, è anche il fatto che Riolfi non citi – tra i dati settimanali di un qualche interesse – quello sulla fiducia dei consumatori, diffuso venerdì. E’ stato peggiore del previsto, spingendo l’indice verso livelli molto più bassi di quelli della recessione del 2001 e paragonabili alla recessione del 1990-1991, come risulta chiaro dal grafico seguente, sempre tratto da Northern Trust:

Il sondaggio sulla fiducia dei consumatori non ha, dal punto di vista quantitativo, una stretta correlazione con l’andamento della spesa per consumi. Ma dal punto di vista qualitativo, è ovvio che un così marcato deterioramento può solo preoccupare.Tanto per cominciare, getta un’ombra sulla meno recente rilevazione relativa alle vendite al dettaglio di gennaio, che nel suo articolo Riolfi si sforza di presentare come una sorpresa positiva.

In verità, il frazionale incremento fatto segnare dalle vendite il mese scorso (+0,3%) è interamente ascrivibile all’aumento dei prezzi di prodotti alimentari e benzina (dunque, non delle quantità vendute). Ed è stato accompagnato da una revisione al ribasso delle vendite nel quarto trimestre del 2007, che già sulla base della stima iniziale erano state le meno dinamiche dalla fine del 2001 (quando l’economia Usa stava uscendo dalla recessione).

I bilanci in crisi delle famiglie Usa

Le vendite al dettaglio rappresentano poi solo una parte dei consumi complessivi delle famiglie, ed è sui secondi più che sulle prime che vale la pena concentrare l’analisi – come fa Paul Kasriel, chief economist di Northern Trust, nel suo ultimo Outlook mensile, pubblicato il 4 febbraio.

La motivata convinzione di Kasriel è che gli Usa siano con ogni probabilità già entrati in recessione (i dati ufficiali, soggetti ad ampie revisioni, sono sempre qualche mese in ritardo). E che a differenza del 2001, quando furono gli investimenti delle imprese a mettere in ginocchio l’economia, questa volta saranno i consumi delle famiglie a farlo – determinando una crisi di più difficile soluzione.

L’elemento di fondo, che Riolfi dimentica di menzionare nel suo articolo, è che le famiglie sono estremamente indebitate – per effetto della corsa all’acquisto di case, fin troppo incentivata dai tassi d’interesse negativi del triennio 2003-2005. Lo vediamo nel seguente grafico di Northern Trust, che mette in relazione l’indebitamento totale con il valore di mercato degli asset delle famiglie:

Il ricorso al credito non si è però tradotto solo nell’acquisto di case – mercato gonfiatosi a dismisura e che, com’è noto, sta ora contraendosi drammaticamente.

In parte ha infatti contribuito a spingere i consumi a livelli mai toccati prima in rapporto al reddito disponibile, come illustra il grafico seguente (PCE sta per spese per consumi personali mentre DPI significa reddito personale disponibile):

“La festa – osserva Kasriel – sta ora per finire.”

Non ci sono più aumenti dei prezzi delle case da utilizzare per avere maggiore, quasi indiscriminato accesso al credito. Al contrario, il collasso del mercato immobiliare ha messo in difficoltà tutto il settore finanziario, al punto che anche i tagli dei tassi a breve da parte della Federal Reserve, per un bel po’ di tempo, potranno fare ben poco per restituire dinamismo al credito.

Gravate di debiti, incapaci di accedere a nuovi crediti, anzi sotto pressione per ridurre una leva finanziaria eccessiva, le famiglie americane hanno nell’ultimo biennio fatto crescente ricorso – nel tentativo di fare quadrare i conti – alla cessione di altri asset finanziari, titoli azionari in particolare, che sono stati venduti al settore corporate.

Ma anche questa opzione, ora che le difficoltà delle Borse e la contrazione dei profitti aziendali impongono un freno a buyback e LBO, sta diventando sempre meno percorribile.

Resta una sola strada, conclude Kasriel, ed è la riduzione di livelli di consumo non più sostenibili.

Per tornare all’articolo di Riolfi, un altro dato che lui cita per illuminare i suoi “spiragli di ottimismo” è in fondo null’altro che l’ennesima dimostrazione di una domanda interna sempre più esangue.

“La bilancia commerciale è stata meno peggio del previsto,” scrive nel suo articolo. Ma vediamo il perché.

Le esportazioni a dicembre sono aumentate dell’1,5%, un dato positivo. Ma la vera ragione della sorpresa è stato il brusco calo delle importazioni, scese dell’1,1% dopo essere aumentate nei mesi precedenti.

Tutte le principali categorie di beni e servizi hanno mostrato il segno meno (a indicare una debolezza molto diffusa). E sul dato complessivo ha pesato in particolar modo il crollo delle importazioni di auto, scese del 9,4% su base mensile.

Il saldo commerciale migliora, dunque, perché la domanda interna è entrata in sofferenza, a partire dai beni più costosi e dove conta la disponibilità di credito, come l’auto.

Ovviamente, l’import è anche uno dei principali canali di trasmissione attraverso cui la crisi dell’economia Usa (e soprattutto dei suoi consumatori) si trasferisce all’estero, in un contagio ancora agli inizi.

“Spiragli di ottimismo” risulta a me difficile vederne. Una recessione negli Usa resta molto probabile ed è forse già iniziata.

Recessione e mercato azionario

Quanto al possibile impatto sui mercati azionari, scrivevo nel post Mercati azionari e rischi di recessione come in presenza di recessione i bear market americani dal 1950 a oggi abbiano avuto una durata media di 491 giorni – e cioè oltre un anno e quattro mesi. I massimi di questo ciclo sono stati toccati a Wall Street nella prima metà di ottobre, appena quattro mesi fa.

Se si prende la media come riferimento, e si assume, in linea col consenso e con l’evidenza dei dati, che una recessione americana è molto probabile, bisogna dunque mettere in conto – se non si vuole proprio essere degli sprovveduti – che il bear market azionario possa durare un altro anno.

Ci saranno dei rally, ma, in questo scenario, saranno dei bear market rally, cioè ritracciamenti in un trend ribassista o, in altre parole, trappole da evitare.

Naturalmente, le cose potrebbero andare diversamente. Magari anche per i motivi sbagliati, Riolfi potrebbe avere ragione. E se sarà così, sarò ben contento di riconoscerlo.

Come diceva Lord Keynes, “when the facts change, I change my mind. What do you do, sir?” (“quando i fatti cambiano, io cambio parere. E Lei, Signore, cosa fa?”)

La settimana scorsa, però, a dispetto degli “spiragli di ottimismo” annunciati dal Sole 24 Ore, i fatti non sono cambiati. Resto dunque del parere che ho già più volte espresso su questo blog, e ai miei lettori rinnovo l’invito a un’estrema prudenza.

P.S.: un’appendice a questo articolo – con altri grafici interessanti – può essere trovata qui.

Casa, la bolla si sgonfia

Non pago di aver raccomandato a novembre l’acquisto di titoli bancari, mentre andava montando la tempesta nel settore che sta spingendo i mercati azionari in un bear market pieno di incognite e pericoli, il settimanale Il Mondo è tornato la scorsa settimana a tartassare i suoi lettori, consigliando l’acquisto di case. “Casa, è l’ora di comprare”, esorta la copertina (vedi foto). Pesce d’aprile fuori stagione o provocante e seria analisi controcorrente?

Di immobili, in questo blog, ho già parlato a ottobre nel post Il triste autunno del mercato della casa. Invito a leggere quell’articolo, che resta attuale e che vorrei utilizzare come base degli ulteriori elementi di riflessione che andrò ora ad aggiungere.

Contrarian investing o harakiri?

Cercavo di evidenziare, allora, due cose: l’enormità senza precedenti della bolla che si è gonfiata in questi anni nei mercati immobiliari a livello globale, e come lo scoppio del bubbone americano preluda, con ogni probabilità, a un lungo ciclo di penosa contrazione anche per i mercati della casa europei.

Il Mondo sostiene ora, con un articolo di copertina a firma di Daniela Stigliano, e un’intervista della stessa giornalista a Carlo Puri Negri, amministratore delegato e azionista di Pirelli Real Estate, che “il pessimismo generalizzato” sulle prospettive del settore immobiliare farebbe invece di questa fase il momento ideale per comprare.

“Perché – dice Stigliano – anche nell’immobiliare vale la regola prima di ogni investitore: sempre meglio anticipare il mercato. Ovvero, comprare sui timori, vendere sull’euforia. E poco importa se i timori, come l’euforia, siano davvero giustificati.”

Più che contrarian investing (una strategia che raccomanda l’acquisto nelle fasi di eccesso di panico, ma non certo quando cominciano a palesarsi dei timori giustificati), la ricetta di Stigliano sembra harakiri applicato alla finanza.

Ma stiamo alla sostanza.

Bolla o non bolla?

L’argomentazione meglio articolata del perché il pessimismo non sarebbe giustificato Il Mondo la offre in apertura dell’intervista a Puri Negri.

Domanda la giornalista: “Il mercato degli immobili in Italia vede grigio per il 2008. Lei invece sembra più ottimista.”

Risponde Puri Negri:

“Le ricerche non parlano di diminuzione dei prezzi, ma di un ulteriore rallentamento della crescita nel prossimo anno, al 2-3%, con un’inflazione in aumento. In Italia il fenomeno delle famiglie che non riescono a rimborsare le rate dei mutui sarà ben lontano dai livelli degli Usa. Negli ultimi dieci anni, inoltre, l’Italia ha avuto una rivalutazione del residenziale inferiore rispetto agli altri Paesi. Dopo la scomparsa della famiglia patriarcale, assistiamo a nuovi fenomeni come l’aumento dei single e la crescente immigrazione, inoltre esistono vincoli sugli immobili con più di 50 anni di vita, c’è una scarsità di terreni edificabili e, in definitiva, lo stock è sempre lo stesso. Con questo scenario è difficile che i prezzi calino.”

Questo è il messaggio. Ma è credibile? Quanto è valido questo elenco di ragioni?

Conflitti d’interesse

Prima di entrare nel merito, val la pena partire da una valutazione dell’affidabilità della fonte. Non conosco Puri Negri ma non ho difficoltà a immaginare che sia uno dei più abili ed esperti immobiliaristi italiani, con una conoscenza del mercato come pochi altri.

Ma può essere attendibile un’analisi che Il Mondo affida, senza contraddittorio, alle parole di un uomo d’affari che guida e ha una quota di proprietà rilevante (superiore al 2%) in una società, Pirelli RE, il cui business è comperare, gestire e vendere immobili?

“Non ci sarà il crollo”, recita il titolo dell’intervista. E’ però facile immaginare che se Puri Negri nutrisse timori di altro genere, non verrebbe certo a svelarli in pubblico. Meglio, molto meglio dare a intendere che le sorti del mattone, in Italia, non possono che essere solide, anzi “rocciose”, come suggestivamente suggerisce la copertina de Il Mondo.

Quando poi la società di Puri Negri è controllata da Pirelli & C, azionista rilevante di RCS MediaGroup (con oltre il 5%), editore de Il Mondo, siamo purtroppo in presenza del solito, inconfessato (la giornalista si guarda bene dal metterlo in luce) conflitto d’interessi che rende così poco credibile certa stampa italiana.

Un giornalista indipendente, attento agli interessi dei suoi lettori, avrebbe chiesto a Puri Negri perché, se il mercato della casa italiano è in buona salute, il titolo Pirelli RE, da qualche mese, sta collassando (ha perso quasi i due terzi del suo valore, come mostra il grafico qui sotto, tornando ai livelli del 2003):

Stigliano, invece, offrendosi come “portaparola” di un potente leader d’azienda legato alla proprietà del giornale, si è ben guardata dall’avanzare questa, o qualsiasi altra obiezione. Diventa inevitabile sospettare che Il Mondo abbia voluto o accettato di confezionare un servizio di copertina che serve gli interessi di Pirelli RE, ma danneggia quelli dei lettori.

Qualche dato sul mercato della casa

Un’ipotesi plausibile, infatti, è che, con caratteristica rapidità e accentuazione, il mercato azionario, nell’andamento del titolo Pirelli RE come di tutto il settore immobiliare italiano (vedi grafico qui sotto), stia anticipando la traiettoria che il mercato della casa, con altrettanto tipica tendenza a disegnare cicli più graduali e di lunga durata, finirà per percorrere nei prossimi anni.

Questo, dopo tutto, è quanto sta accadendo negli Usa, dove al crollo del settore dei costruttori di case (iniziato già nell’estate del 2005) è seguito quello del settore real estate e, infine, quello dei prezzi degli immobili (vedi grafico qui sotto), da tre trimestri precipitati in un ciclo di contrazione che i contratti future (come mostravo nel mio articolo di ottobre) non prevedono si arresti prima del 2010.

Sostiene Puri Negri, nella parte dell’intervista che ho riportato, che l’Italia non è l’America e che da noi le insolvenze sui mutui non raggiungeranno dimensioni altrettanto preoccupanti. E’ probabile. Il fenomeno dei mutui subprime è stato tipicamente americano. Resta però il fatto che anche da noi si è molto largheggiato con il credito immobiliare, come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi nel discorso tenuto per la giornata mondiale del risparmio a fine ottobre:

“Tipologie contrattuali simili a quelle dei mutui subprime statunitensi sono (in Italia, ndr) poco diffuse. L’attività del settore si sta però espandendo rapidamente. Tra il 2002 e il 2006 i mutui alle famiglie sono cresciuti a ritmi quasi doppi rispetto alla media europea (già estremamente elevata, ndr). Si sta innalzando il rapporto tra prestito e valore dell’immobile. […] L’incidenza delle sofferenze sui prestiti per acquisto di abitazioni, ancora bassa, inizia a mostrare segnali di deterioramento.”

C’è però un altro punto, più fondamentale, dove Puri Negri ha quasi sicuramente torto.

Sostiene l’amministratore di Pirelli RE che “negli ultimi dieci anni l’Italia ha avuto una rivalutazione del residenziale inferiore rispetto agli altri Paesi”, come a dire che da noi non solo non ci sarebbero gli eccessi nel credito ma neppure nelle valutazioni. Parlare di bolla, o anche di sopravvalutazione degli immobili, sembrerebbe insomma ingiustificato.

Le cose, però, non stanno così.

Misurare e confrontare l’evoluzione dei mercati immobiliari è stato, storicamente, un gran grattacapo, per la scarsa liquidità del settore e le sue molte atipicità, da zona a zona e da paese a paese.

Uno dei primi a cogliere il problema e a impegnarsi nello sviluppo di indici paese credibili e comparabili è stato il settimanale inglese The Economist, che anche grazie alla bontà degli sforzi profusi in questo progetto fu poi in grado, già nel 2003, di denunciare il gonfiarsi di una bolla immobiliare di dimensioni mai viste prima.

Da allora in poi The Economist ha monitorato, con regolarità e autorevolezza, l’evoluzione dei mercati della casa a livello globale. L’ultimo aggiornamento è stato pubblicato a dicembre, in un articolo titolato Run down (un’espressione, com’è spesso il caso nei titoli dell’Economist, un po’ maliziosa che si presta a una doppia lettura: “in sfacelo” o “corsa al ribasso”).

Cosa dice l’articolo?

In sostanza, che i mercati si stanno muovendo, in questo dopo bolla, in tre scaglioni.

A fare da guida, ci sono gli Stati Uniti, dove i prezzi sono da 23 mesi in decelerazione e da 10 mesi in un calo che va accelerando: a ottobre, ultimo dato disponibile dell’indice S&P/Case-Shiller, che riportavo sopra, si è avuta la più marcata flessione mensile nella storia dell’indice, per un tasso di variazione annuo che ha raggiunto il -6,7%.

Ci sono poi i mercati europei, dove da qualche mese è evidente che si è superato un punto di svolta: in Francia, Spagna, Italia i tassi di crescita stanno raffreddandosi, mentre in Germania, mossasi a lungo in controtendenza, si è passati dalla stagnazione al declino.

In Gran Bretagna, da tre mesi, i prezzi sono in calo e particolarmente preoccupante appare la rapidità del mutamento di clima nel settore degli immobili commerciali (vedi su questo punto, anche un altro articolo dell’Economist, Dominoes on the skyline).

Dopo un aumento medio del 17% nel 2006, i prezzi del comparto commerciale hanno fatto un improvviso dietrofront e solo a novembre (ultimo dato disponibile) sono scesi del 4% (il maggiore calo mensile mai registrato), portando la flessione da luglio in poi al 9%. I contratti future stimano un crollo senza precedenti del 30% nei prossimi tre anni.

Appare insomma confermata la storica tendenza, che descrivevo nel mio articolo di ottobre, per cui i mercati immobiliari europei tendono a seguire quelli americani con uno, al massimo due anni di ritardo.

Terzo scaglione, per ora all’apparenza indisturbato da quanto accade nei paesi occidentali, è quello dei mercati emergenti, dove i prezzi delle case sono ancora, per lo più, in febbrile ascesa.

Questa è la tabella riassuntiva pubblicata da The Economist, con la più recente variazione annua nella prima colonna, la variazione dell’anno precedente nella seconda colonna, e la crescita fatta segnare nell’ultimo decennio nella terza colonna.

Una scorsa ai dati decennali potrebbe far pensare che Puri Negri, dopo tutto, non si sbaglia di molto. La variazione cumulativa dei prezzi degli immobili italiani (+102%), per quanto molto elevata in termini assoluti, risulta nella parte bassa della classifica, superata sia dagli Stati Uniti che da molti paesi europei. Ma un’interpretazione così semplicistica sarebbe fuorviante. L’andamento del prezzo delle case, per essere valutato nella sua sostenibilità, va confrontato con altre variabili rappresentative delle condizioni del mercato e dell’economia nel suo complesso.

Come si fa per i mercati azionari, dove i prezzi sono messi in relazione agli utili, e gli utili vengono normalizzati in base al ciclo (procedura che ho più volte illustrato in questo blog, da ultimo nel post I multipli di Borsa restano elevati), i prezzi nel mercato della casa vengono di solito valutati in rapporto agli affitti e, soprattutto, al reddito disponibile.

Si tratta dei due ratio (con i loro tassi di crescita 1997-2006) riportati dal Fondo Monetario Internazionale nella seguente tabella, pubblicata nell’ultimo World Economic Outlook:

L’aumento medio del rapporto prezzi/reddito disponibile superiore a un terzo è definito dal FMI, con preoccupazione, come “molto elevato” (nel cauto linguaggio del Fondo, si tratta di quanto più prossimo ci possa essere all’uso del termine “bolla speculativa”). Risulta chiaro dalla tabella come per l’Italia tale incremento sia stato superiore alla media, superiore a quello degli Stati Uniti, e vicino al 50%.

Mentre molte altre economie vedevano crescere Pil e redditi a tassi sostenuti, e questo, in parte, contribuiva ad alimentare la fiammata dei prezzi delle case, da noi si è avuta una sostanziale stagnazione – una condizione di contesto che fa emergere con maggiore chiarezza la natura speculativa della frenetica corsa al rialzo del nostro settore immobiliare.

Se quasi nessuno mette ormai in dubbio che il mercato della casa americano abbia attraversato un periodo di bolla senza precedenti, che si sta ora sgonfiando con gravi ripercussioni sull’economia nel suo complesso, in un processo che i mercati a termine non prevedono tocchi il fondo prima di un altro biennio, non si capisce su quali basi si possano costruire scenari radicalmente diversi per l’Italia.

Certamente non con gli argomenti accessori utilizzati da Puri Negri.

L’aumento dei single è un fenomeno in corso da decenni e ormai maturo, se si considera che l’Istat rileva come più di un quarto dei nuclei familiari italiani sia fatto di persone sole e oltre la metà di non più di due persone.

La crescente immigrazione, poi, c’è da noi come in altri paesi occidentali, con la differenza che in Italia è l’unico sostegno a una dinamica demografica che resta tra le più depresse del mondo.

“E’ difficile che i prezzi calino”, dice Puri Negri. “E’ l’ora di comprare”, rincara Il Mondo. Se si sta ai fatti e ci si sforza di ragionare con obiettività, appaiono valutazioni su cui sarebbe azzardato scommettere anche solo un soldo bucato.

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