Perché i rating dei broker sono da ignorare
Bloomberg.com ha pubblicato oggi un’interessante notizia relativa alle nuove linee guida stabilite da Merrill Lynch per i suoi analisti azionari. D’ora in poi ognuno di loro dovrà assegnare il rating di sell (vendi) ad almeno il 20% dei titoli sotto copertura. I neutral e i buy (acquista) non dovranno eccedere, rispettivamente, il 30% e il 70% dei titoli. Al momento, solo il 12% dei rating emessi dagli analisti di Merrill Lynch è un sell, una percentuale decisamente bassa.
Lo stesso articolo riferisce infatti che ogni anno i titoli che hanno un andamento di prezzo in calo sono il 37% del totale. Ovviamente, più numerosi ancora sono quelli che pur apprezzandosi finiscono comunque per fare peggio degli indici di mercato.
E’ da notare che Merrill Lynch si distingue in qualche modo per la sua “serietà” rispetto alla media. Nel complesso, infatti, tra gli analisti delle banche d’affari e dei broker di Wall Street i rating di sell sono solo il 5% del totale, una quota risibile e di per sè sufficiente a definire la credibilità di queste raccomandazioni.
Ma qual è il motivo che ha spinto i vertici di Merrill a rivedere i criteri cui si deve ispirare la sua ricerca azionaria?
Secondo gli esperti citati nell’articolo, la terza maggiore banca d’investimento americana intende seguire la strada già imboccata da Goldman Sachs e venire incontro alla richiesta che arriva dalla clientela istituzionale più importante e più ricca – gli hedge fund, sempre a caccia di idee su titoli da vendere allo scoperto. Goldman, al momento, ha un rating di sell sul 15% delle azioni seguite dai suoi analisti.
Che dire? C’è poco in questa motivazione che possa rassicurare i piccoli investitori, finora spesso indotti in strampalate decisioni d’investimento dalle troppo entusiastiche raccomandazioni degli analisti sell-side, diffuse poi acriticamente e a piene mani dai media finanziari.
Non sarà un pugno in più di rating negativi, dati in pasto a chi fa short selling, a risolvere il problema di fondo per il normale investitore retail, e cioè il fatto che questo tipo di “consulenza” non risponde affatto alle sue esigenze.
In un bel libro, Treasury of Investment Wisdom, Dean LeBaron offriva qualche anno fa suggerimenti (rivolti in primo luogo agli investitori istituzionali, ma estendibili in certa misura a chiunque) su come scegliere dei manager o dei consulenti per la gestione dei portafogli. Il tutto si condensava nella regola delle cinque “P”: (qualità delle) persone, performance, procedure, prodotti, principi.
L’ultimo e più decisivo dei criteri attiene dunque ai “principi”, e cioè: il consulente da cosa è motivato, da “passione per la sfida intellettuale, denaro, altruismo o egoismo, ego, collegialità”?
Così concludeva LeBaron: “Nel selezionare un manager o un consulente per gli investimenti, esamina i principi. Se trovi che non ci sono, scappa a gambe levate. Se invece ci sono ma non fanno per te, vattene con calma. Se infine valuti che siano coerenti con il tuo sistema di valori, e se altre “P” sono pure presenti in modo soddisfacente, fermati: hai trovato quello che cercavi.”
La notizia apparsa oggi su Bloomberg, col suo significativo corredo di dati, non rivela nulla di eclatante per chi conosce i mercati.
Nel caso di molti piccoli investitori può però forse servire a rinfrescare un utile ammonimento: quando leggete di un rating emesso da questo o quel broker su questo o quel titolo, lasciate perdere.
E’ un abito che è stato ritagliato su misura per soddisfare le esigenze della banca e dei suoi ricchi clienti: buy quando ci sono da coltivare le commissioni nell’investment banking, sell quando c’è da piazzare qualche idea per lo short selling agli hedge fund. Nell’uno e nell’altro caso, piccoli investitori, non fa per voi.
Ho una mia idea in proposito: credo che i gestori dei fondi e delle grandi banche cerchino di tenersi attaccati il piu’ possibile i loro clienti, per questo la parola “vendere” e’ quasi tabu’. Inoltre e’ possibile che si pensi che col tempo essi possano recuperare le perdite. Psicologicamente il cliente non incolpa la gestione quando gli indici scendono; forse ritiene responsabili i mercati.
Fiducia nei rating delle grandi compagnie…
Alcune son fallite, altre fuse con banche più tradizionali…
Hanno valutato bene? I rating che hanno assegnato prima dello scoppio della bolla erano corretti? Rating indipendenti o hanno contribuito alla formazione della bolla?
Sono domande cui si è già tentato di dare una risposta in passato, con una buona dose di critiche.
Ora la domanda che mi pongo è la seguente: visto ciò che è capitato nel recente passato dobbiamo ancora basarci su queste valutazioni per decidere come uscire dalla crisi?
Il governo italiano si preoccupa del rating del debito italiano.
In momenti di crisi ormai si è sperimentato che la spesa pubblica è ciò che da un contributo fondamentale alla ripresa (vedi la risposta dell’america di F. D. Roosevelt nel 1933 per uscire dalla depressione del ’29)
Molti governi europei hanno sforato il paramentro del 3% sul deficit. Ovvero hanno speso più di quanto i parametri europei per la stabilità prescrivano. Questa spesa credo, come ho precedentemente scritto, è utile ad uscire dalla crisi. Si tratta ovvero di una scelta di buon senso e probabilmente i parametri europei andrebbero rivisti per non risultare una pastoia nei periodi di crisi.
Così mentre gli altri cercano di riattivare l’economia, noi rimaniamo legati a rating che non ci hanno preservati dall’attuale crisi e parametri europei ideati per periodi tranquilli.
Confindustria è stata criticata dal governo per aver valutato la crisi troppo profonda.
Spero proprio che non si riveli un pericolo ben più profondo di quello che il governo suppone, dato che sembra stia agendo in maniera ben più lieve degli altri…
I miliardi di cui si parlava il mese scorso fossero messi a disposizione non raggiungevano le due cifre. Gli altri governi, se non ho capito male, parlavano di piani a 3 cifre. Sarebbe una sproporzione notevole.