l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

Archivi per il mese di “gennaio, 2008”

Corsi e ricorsi di una noiosa crisi politica

Stamani ho aperto i giornali e un aforisma di Ennio Flaiano mi è balenato nella mente, venendomi in soccorso: “Certi vizi sono più noiosi della stessa virtù. Soltanto per questo la virtù spesso trionfa”. Chissà, mi sono detto, forse per noia l’Italia alla fine ce la farà a uscire dalla palude in cui la politica l’ha sospinta.

Su La Repubblica campeggiava questo titolo: “Berlusconi: al voto o in piazza”.

Eccoci tornati al 1995,” ho pensato, quando Bill Clinton e Boris Yeltsin erano nella fase ascendente della loro parabola presidenziale, l’Inghilterra viveva nel cono d’ombra dell’era Thatcher e l’età di Blair non era nemmeno iniziata, e in Italia Berlusconi già riempiva le cronache con i suoi piagnistei per il tradimento di Dini e il “ribaltone.”

All’interno, un’intervista a tutta pagina col settantaseienne Nicola Mancino alimentava il senso di trito déjà vu: “Non è il ’92, ma per la politica è emergenza”.

Tra uno sbadiglio e un dubbio (“si riferisce anche lui al secolo scorso?”) sono passato al Corriere della Sera.

Qui un’intervista all’ottantaduenne Don Baget Bozzo spiegava, da destra, che il modello politico francese non è applicabile all’Italia; e un’altra intervista all’ottantacinquenne regista Carlo Lizzani chiariva, da sinistra, che “la sinistra continua a farsi del male.”

“Grazie, non me n’ero accorto,” ho biascicato, voltando svogliatamente pagina.

Sono così incappato in uno “scenario” del collega Francesco Verderami, in cui si raccontava che “la soluzione (alla crisi) è un esecutivo a termine che vari solo la riforma elettorale e porti il Paese alle urne in giugno.”

Questa è nuova,” ho chiosato. E’ dal 1993 che si fanno e si disfano riforme elettorali.

E chi sarebbe il traghettatore? L’ottantaduenne Presidente Napolitano sembrerebbe intenzionato a puntare sul quasi settantacinquenne Franco Marini (nella foto in alto).

Ho ricordato i giorni dell’incarico ad Antonio Maccanico, nel febbraio 1996, quando noi reporter, per tastare il polso alla crisi, andavamo ad aspettarlo sotto casa, dopo la pennichella pomeridiana. Maccanico fallì. Ma di anni, allora, ne aveva solo 71. Forse scontò la giovane età e un pizzico d’inesperienza.

Con Marini la noia sarà assicurata,” mi sono detto rinfrancato, riandando con la mente a Flaiano. E oppressa dalla noia, la gente deciderà forse che ne ha abbastanza, che è ora di tornare a vivere.

Millenovecentonovantadue, millenovecentonovantatre, millenovecentonovantaquattro, millenovecentonovantacinque, millenovecentonovantasei…

Altra epoca: non ero sposato, i miei figli non c’erano ancora, l’Internet pubblica cominciava a muovere i primi passi ed era lungi dal nascere Google, che ha poi rivoluzionato il mio modo di lavorare.

Per la politica italiana siamo però ancora lì: sospesi in una bolla fuori dal tempo, lontani dalla storia.

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Tre buone analisi e una regola del value investing

Ora che anche gli indici di Borsa più resistenti, come il Dax che aveva aperto l’anno ancora vicino ai massimi storici, hanno violato i supporti dell’agosto scorso dando avvio a un trend ribassista vorrei andare a rileggere quanto avevo scritto il 22 novembre nel post Un bear market azionario è forse alle porte? Prendevo allora le mosse da due precedenti analisi pubblicate nel blog il 9 ottobre (nel post L’analisi tecnica svela un rally di Borsa sospetto) e il 21 ottobre (nel post Mini-crollo a Wall Street e prospettive di Borsa). Nella prima, scritta proprio alla vigilia del ripiegamento dei listini azionari americani dai massimi di questo ciclo, esprimevo scetticismo sulla solidità del rally, soffermandomi su una serie di caratteristiche che definivo “tipiche di un top di mercato”.

Dicevo così: “Volume e ampiezza ci raccontano storie simili. Il rally dell’ultimo mese e mezzo appare sospetto, perché ha avuto scarsa partecipazione di investitori (bassi volumi) e di titoli (linea Advance-Decline divergente rispetto ai prezzi).”

E concludevo: “E’ probabile che molti investitori abbiano deciso di stare alla finestra in attesa delle trimestrali del terzo trimestre […]. In ogni caso, la conclusione da trarre, per ora, è che di questo rally, e della grancassa mediatica che ha salutato i nuovi massimi di Wall Street, è giusto essere scettici.”

Nella seconda analisi del 21 ottobre, scritta subito dopo il “mini-crash” di venerdì 19 ottobre, argomentavo così: “Il ‘mini-crollo’ di venerdì ha cominciato a ristabilire un clima di mercato meno irrazionale e più rispondente ai fondamentali. I nuovi massimi di molti indici azionari riflettevano scommesse speculative ed eccessi di ottimismo di una parte sempre meno rappresentativa dell’universo degli operatori. In questa fase, è giusto invece essere dubbiosi, incerti e anche un po’ timorosi. E’ possibile, e forse probabile, che i mercati azionari debbano ritestare i minimi di agosto prima di decidere sul serio il loro corso futuro” […]

Infine, il 22 novembre, con le Borse principali scese in prossimità delle soglie di agosto, scrivevo: “Al test dei minimi di agosto siamo ora arrivati. E il contesto, sia tecnico che macroeconomico […] si va deteriorando”. […]

Passavo in rassegna una serie di osservazioni di due dei miei analisti preferiti, Brett Steenbarger e Paul Kasriel, e concludevo: “Un quadro tecnico e fondamentale in peggioramento, e due enormi bolle – quella della casa e quella del credito – che hanno appena iniziato a sgonfiarsi, mi pare che rendano più credibile, almeno per ora, mettere in conto che le soglie di agosto non reggano a lungo. Qui da noi hanno già ceduto. Ma importa ben poco. Anche chi investe a Piazza Affari è su Wall Street che deve tenere puntato lo sguardo.”

Strategia di un blogger e rischio reputazionale

A consuntivo, sono lieto che L’Investitore Accorto abbia reso un buon servizio ai suoi lettori. Rileggendoli, non ho appunti da fare a quei tre post: il rally di fine estate era inconsistente e insostenibile, i supporti di agosto fragili e destinati a non durare a lungo. Così mi era parso, così ho scritto, e così è stato.

C’è da parte mia dell’autocompiacimento? Sì, ma neanche tanto. Dopo tutto, ho ragionato sugli studi e le ricerche altrui, com’è normale per un giornalista. Il mio lavoro è consistito soltanto nell’applicare un po’ di capacità di giudizio e discriminare tra analisi buone e meno buone, sforzandomi di presentare ai lettori un distillato del meglio.

Perché indugio, allora, in questa “analisi delle analisi,” che rischia di annoiare? Perché è possibile trarne, oltre alla verifica di un lavoro ben fatto, anche un insegnamento più fondamentale, valido per ogni investitore accorto.

Vediamo, a tale proposito, di capire per quale motivo, da quando ho dato avvio al blog, io abbia scritto non più di tre post in cui mi arrischiavo a sostenere in prima persona delle previsioni di mercato; per quale motivo si sono concentrati tra ottobre e novembre; e infine per quale motivo, se c’è, si sono dimostrati tutti e tre corretti.

Caso? Fortuna? Avranno avuto la loro parte. C’è però stata anche un’implicita strategia, di cui penso sia interessante rendere conto.

Oltre a raccontare una storia utile ai lettori, il mio obiettivo, con quei post, era anche di far crescere la reputazione di un blog appena nato e scritto da un autore sconosciuto o quasi ai non addetti ai lavori. Ci sono poche cose che impressionano il pubblico (e non solo quello dei neofiti) quanto una serie di previsioni che si avverano.

Ho dunque deciso di correre un rischio di reputazione (se avessi sbagliato, avrei perso un po’ di credibilità; cogliendo nel segno, penso di averne acquistata) – in qualche modo “oscurando” temporaneamente quello che resta uno degli assunti di fondo di questo blog, in sintonia con i principi del value investing: e cioè che non è dalle previsioni di mercato a corto raggio che dipende la bontà e il successo di una corretta strategia d’investimento (come ho scritto a più riprese, ad esempio nel post Classifiche dei fondi: come evitare le trappole).

Ma nell’espormi al rischio (che, ripeto, era un rischio di reputazione e non d’investimento) nella speranza di lucrare dei risultati (benefici d’immagine anziché profitti di mercato), mi sono comunque sforzato di applicare uno dei principi del value investing. Ho cioè concentrato le mie scommesse nel momento in cui ho calcolato che le probabilità erano più favorevoli.

Poche scommesse, concentrate

Cosa voglio dire? Beh, per fare qualche esempio, nel corso del 2006 a chi mi chiedeva: “Cosa farà il mercato?”, rispondevo in genere che non ne ero affatto sicuro.

Le Borse, anche allora, erano sopravvalutate e andavano montando degli squilibri strutturali che minacciavano la stabilità dei mercati. Ma la congiuntura economica era ancora in piena espansione e gli “spiriti animali” degli investitori restavano esuberanti.

Si potevano mettere in conto incidenti di percorso così come una prosecuzione del bull market. Ogni previsione di breve-medio termine sembrava avere margini di incertezza troppo elevati.

Allo stesso modo, se qualcuno oggi mi chiedesse: “Quanto durerà il bear market? Di che entità sarà il ribasso?”, risponderei che non ne ho idea. Si possono azzardare delle stime, sulla base delle esperienze passate. Ma di azzardi, appunto, si tratterebbe.

Tra l’estate e l’inizio autunno scorsi, invece, sono andate maturando una serie di condizioni di mercato – che ho poi in parte esplicitato nei post in questione – convergenti come di rado succede, e che, dal mio punto di vista, rendevano quanto mai allettante la scommessa: il rapporto tra rischio (reputazionale) e rendimento (in termini d’immagine) era diventato molto favorevole.

A quel punto, ho deciso di concentrare le mie puntate, scrivendo tre articoli abbastanza ravvicinati tra loro, dove – per usare una metafora da scommettitore – raddoppiavo di continuo la posta: non contento di aver azzeccato una previsione, ne formulavo subito un’altra.

Sto leggendo in questi giorni The Dhandho Investor, un eccellente libro di Mohnish Pabrai, uno dei più giovani ma già autorevoli interpreti del value investing secondo la tradizione di Ben Graham e Warren Buffett (il suo Pabrai Funds, costituito nel 1999, ha generato da allora fino a fine 2006 un rendimento netto annualizzato del 28,6%).

Nel libro, di cui tornerò a parlare, Pabrai distilla in nove regole la sua filosofia d’investimento. La regola numero cinque recita: “Poche scommesse, grosse scommesse, sporadiche scommesse” (“few bets, big bets, infrequent bets”).

Pabrai cita anche un bel detto di Charlie Munger (nella foto in alto), socio d’affari e amico da una vita di Warren Buffett:

“I saggi scommettono pesantemente quando il mondo offre loro l’opportunità. Scommettono alla grande quando le probabilità sono favorevoli. Il resto del tempo, non lo fanno. E’ così semplice!”

E’ quello che, con i miei post, ho cercato di fare anch’io.

Buffett, Gross e gli schemi di Ponzi delle banche

Gli analisti tecnici di Credit Suisse hanno messo in luce, in uno studio di questi giorni, tutta una serie di analogie nel comportamento dei mercati tra l’attuale crisi del credito e la crisi delle Savings & Loans (casse di risparmio) americane del 1990. Il movimento degli indici azionari, l’entità del crollo del settore finanziario (con perdite superiori al 50%, allora come oggi, per un titolo guida come Citigroup), persino l’andamento del prezzo del petrolio o le punte elevate di pessimismo nel sentiment degli investitori presentano, fin qui, molte somiglianze.

Se i parallelismi continueranno – conclude Credit Suisse – un fondo ai ribassi delle Borse dovrebbe essere toccato a febbraio, con un panic bottom in prossimità di quota 1300 per l’S&P 500.

L’inversione di rotta dovrebbe a quel punto essere segnalata dalla stabilizzazione prima, da un gran rally poi del settore finanziario.

Nei sei mesi successivi al raggiungimento dei minimi, nell’ottobre 1990, i titoli finanziari, pesantemente ipervenduti, segnarono un avanzamento del 50% risultando di gran lunga il settore migliore del mercato. Progressi quasi insignificanti furono invece fatti registrare dai leader della precedente fase di ribassi: telefonici, servizi di pubblica utilità, energetici.

Che dire? Questo genere di confronti piace molto agli analisti tecnici, forse anche perché produce grafici di grande impatto visivo. Ma il raziocinio e un po’ di esperienza me ne fanno diffidare.

I mercati finanziari e la crisi del credito di oggi sono troppo diversi da quelli del 1990 perché ogni apparente analogia nel comportamento di alcuni indicatori non si dimostri, a lungo andare, come in larga misura casuale.

C’è però un dato dell’analisi di Credit Suisse che mi pare più interessante e fondato. Senza una stabilizzazione e una ripresa del settore finanziario americano (l’epicentro della crisi di allora come di quella di oggi) è improbabile che i mercati azionari abbiano la forza di imboccare un trend rialzista.

In America come altrove, le banche sono troppo importanti per il buon funzionamento dell’economia e hanno un peso troppo rilevante negli indici di Borsa per pensare che senza il loro contributo la crisi possa essere lasciata alle spalle.

Grafici da brivido

Uno sguardo alla performance del settore bancario offre per ora scarso conforto.

Ecco quanto sta succedendo negli Usa, in un grafico realizzato grazie a StockCharts:


E quanto sta accadendo in Europa, in un grafico accessibile sul sito Stoxx.com (il settore bancario, confrontato all’indice Stoxx TMI, è indicato dalla linea più chiara):


Un’impressione se possibile ancora peggiore la dà il seguente grafico di lungo periodo, relativo ai titoli bancari americani, che Marty Chenard ha pubblicato sul sito Safe Haven qualche giorno fa:


Come si vede, il tracollo degli ultimi mesi ha prodotto la netta rottura di una trendline rialzista risalente addirittura al 1994.

La velocità e la profondità del movimento più che far presagire imminenti inversioni del trend, agitano inquietanti interrogativi sui rischi di un devastante crash. E richiamano alla mente un vecchio detto di Wall Street: le azioni, quando salgono, usano le scale, ma quando scendono, prendono l’ascensore (“a stock takes the stairs up, but the elevator down”).

I grafici di prezzo, naturalmente, ci raccontano solo dei movimenti di superficie. Non ci aiutano a capire se ci sia o non ci sia “valore” nei mercati. Per questo, bisogna guardare più in profondità, o ascoltare chi ha la capacità di farlo.

Buffett e le banche

Nel periodo di Natale mi era sfuggita. Ma fortunatamente, nei giorni scorsi, sono riuscito a ripescare dal mio Google Reader un’intervista della CNBC a Warren Buffett (nella foto in alto), del 26 dicembre.

Si tratta, come sempre, di un Buffett arguto, rilassato e divertente, che discute in primo luogo la sua acquisizione del gruppo Marmon (con la quale, dice, si è finalmente “guadagnato lo stipendio” per il 2007, visto che fino a Natale non aveva fatto altro che “bighellonare”!).

A un certo punto, l’intervista passa al tema del giorno, e cioè le banche.

Con diversi grandi gruppi intenti a fare pulizia nei conti, ad annunciare enormi svalutazioni di asset e a cercare di ricapitalizzarsi, a Buffett viene chiesto se non sia stato anche lui contattato, visto che è noto come nei bilanci di Berkshire Hathaway, la sua holding, ci siano 40 miliardi di dollari in cash, che attendono occasioni propizie per essere investiti.

Buffett conferma che sì, è stato avvicinato (“la gente conosce il nostro numero di telefono”) e gli sono state fatte delle proposte di investimento. Ma “we haven’t seen anything we want to move on […] so far we have not seen a deal that causes me to start salivating” (“Non abbiamo visto nulla su cui vogliamo muoverci…non ho ancora visto un affare che mi faccia venire l’acquolina in bocca”).

Nel settore bancario, insomma, per Buffett ci sono ancora più rischi che opportunità. Sommariamente, l’Oracolo di Omaha qualche motivo lo accenna: i problemi sono tali che “non possono essere risolti in un breve lasso di tempo”, certi utili messi a bilancio erano “illusori” e ora pulizia dovrà essere fatta, e questo significa che per un po’ di anni è probabile che alcune della grandi banche “non saranno in grado di riportare i loro profitti al top.”

Ingegneria finanziaria e nuovi prodotti derivati hanno spinto molti gruppi creditizi nei guai. E rimettere ordine non sarà facile.

Citando il Ceo di Wells Fargo, Buffett osserva: “I don’t know why the banks had to find new ways to lose money when the old ones were working so well” (“Non capisco perchè le banche abbiano dovuto andare in cerca di nuovi modi per perdere soldi quando quelli vecchi funzionavano così bene”).

Gross e le banche

Buffett non lo dice, ma è probabile che avesse in mente alcuni dei ragionamenti che un altro grande asset manager, Bill Gross di PIMCO, ha invece esplicitato nella sua ultima lettera mensile agli investitori.

L’enorme crescita di sempre più esotici prodotti derivati nel mercato del credito, finiti per lo più in pancia a quei nuovi, oscuri e poco regolati attori che vanno sotto il nome di conduits, SIVs e hedge funds (il cosiddetto “sistema bancario ombra”), ha finito in questi anni per assumere i tratti di una colossale fioritura di schemi di Ponzi, dove il gioco poteva durare finchè i mercati (e il credito) si espandevano.

Non ci sono, osserva Gross, solo i problemi risalenti al mercato della casa: i mutui subprime e le cartolarizzazioni, che per un po’ hanno consentito di ignorare o di oscurare i rischi impliciti in pratiche di credito immobiliare troppo disinvolte, ma che alla fine arriveranno a infliggere almeno 250 miliardi di dollari di perdite ai bilanci delle banche.

Un’altra bomba in attesa di scoppiare è quella dei Credit Default Swaps (CDS), derivati nati negli anni ’90 con finalità di assicurazione contro i rischi di insolvenza sui debiti societari.

Il mercato, che non è organizzato, e dove i rischi sono concentrati tra le due controparti di ogni contratto, è cresciuto a dismisura in questi ultimi anni di vacche grasse e liquidità a go go, raggiungendo, a fine 2007, un valore di 43 mila miliardi di dollari, pari – nota Gross – a oltre la metà degli asset del sistema bancario globale.

I CDS in genere non sono supportati da garanzie, né dall’accantonamento di riserve da parte del “protection seller”, e cioè la controparte (in genere una banca) che assicura contro il rischio di default.

Sono insomma andati configurandosi come un’industria assicurativa follemente speculativa, senza adeguati controlli e senza capitali messi a riserva nel caso di perdite.

Stima Gross che se i default su prestiti societari saliranno nel 2008 verso la media storica dell’1,25%, che è poi più o meno quanto prevedono Moody’s e S&P’s, le perdite a carico dei “protection seller” potrebbero ammontare ad altri 250 miliardi di dollari – facendo così raddoppiare l’entità del salasso ascrivibile alla crisi dei mutui subprime.

La conclusione di Gross è che il sistema bancario è miseramente sottocapitalizzato per far fronte al collasso di tutti questi “schemi di Ponzi.” Alcuni istituti salteranno, altri saranno ridimensionati. La forzata contrazione nell’attività di credito (credit crunch) renderà inevitabile una recessione.

Il “sistema bancario ombra” scomparirà e chi sopravvivrà – grazie anche agli energici interventi di politica monetaria e fiscale che le autorità metteranno in campo (Gross si aspetta i Fed Funds al 3% entro giugno) – si ritroverà in un sistema finanziario diverso, con nuovi rischi ma, sicuramente, meno effetto leva.

Dunque, riassumendo, per Buffett il fondo della crisi è ancora lontano e ci vorranno anni per completare il lavoro di pulizia. Per Gross è scoppiata una bolla epocale fatta di speculazioni e schemi piramidali che costringerà a ridisegnare il sistema finanziario americano e globale.

Per ogni investitore accorto non può che essere tempo di paziente attesa e grande cautela. Alla fine, per chi avrà saputo aspettare, le opportunità si ripresenteranno.

Ci salverà la Federal Reserve?

In tempi di difficoltà, investitori e operatori economici tornano a guardare, con un misto di ansia e speranzosa attesa, alla Federal Reserve, e la Federal Reserve non manca di far sentire le sue rassicurazioni. Il copione si è ripetuto giovedì scorso, quando Ben Bernanke (nella foto), in un discorso tenuto a Washington, ha riconosciuto che le prospettive per l’economia americana sono peggiorate, ma si è affrettato ad aggiungere che la banca centrale è “pronta a mettere in atto ulteriori, effettive (“substantive”) misure per sostenere la crescita e offrire assicurazione adeguata contro i rischi di downside”.

In linguaggio meno obliquo, la promessa è di tagli più sostanziosi al Fed Funds, il tasso a breve che in tre occasioni, tra settembre e dicembre, la Federal Reserve ha già provveduto a far scendere dal 5,25% al 4,25%.

Attese di questo genere, per la verità, sono andate montando sui mercati già dall’inizio della scorsa estate, come evidenzia il grafico seguente, che mostra il prezzo del future sul Fed Funds con scadenza gennaio 2009.

Se a giugno si prevedevano tassi a breve stabili al 5,25% per i 18 mesi successivi, ora la scommessa è di un Fed Funds al 2,5%. Il mercato sconta, cioè, riduzioni di altri 175 punti base entro il gennaio prossimo.Basta questo per pensare che una recessione possa essere evitata e che le Borse riescano a sfuggire alla morsa del bear market?

Tassi d’interesse e cicli di mercato

Un detto da sempre popolare a Wall Street è “Don’t fight the Fed”: “non lottare contro la Federal Reserve.” Il senso è che condizioni monetarie restrittive sono ostili ai mercati azionari, mentre condizioni espansive sono favorevoli alla ripresa tanto del ciclo economico che dei corsi di Borsa.

Se però tale detto non è stato poi tanto invocato negli ultimi mesi, un motivo c’è: nell’ultimo ciclo ribassista, tra il 2001 e il 2002, chi vi aveva fatto affidamento andò incontro a brucianti perdite.

La manovra di riduzione dei tassi orchestrata allora dal “Maestro” Alan Greenspan a partire dai primi giorni del gennaio 2001 non riuscì a evitare né la recessione economica nel secondo e terzo trimestre di quello stesso anno, né un bear market azionario che proseguì con asprezza sempre più brutale fino all’autunno dell’anno seguente.

Un’analisi che circolò allora diffusamente tra gli operatori di mercato fu quella prodotta, nel marzo 2001 (in occasione del terzo taglio ai Fed Funds di quel ciclo), da Ned Davis Research, uno dei migliori e più prestigiosi centri di ricerca e “market timer” americani.

Lo studio metteva in luce come, in 12 delle 13 occasioni precedenti, nei cicli susseguitisi dal 1921 in poi, la terza riduzione del costo del denaro era stata decisiva nel risollevare il mercato azionario: tre, sei, dodici mesi dopo quel terzo taglio Wall Street aveva fatto segnare performance positive, con un guadagno medio che, nell’arco di un anno, era stato superiore al 20%.

L’unica eccezione? Il crollo del 1929. Dopo la terza riduzione dei tassi da parte della Federal Reserve, il Dow Jones aveva allora continuato a franare, perdendo un altro 36% nei 12 mesi successivi.

A posteriori si è visto come l’eccezione del 1929 si sia sostanzialmente ripetuta col devastante scoppio della bolla dei titoli tecnologici tra il 2001 e il 2002. I tagli dei tassi da parte della Federal Reserve continuarono fino al giugno del 2003, e solo a quel punto consentirono finalmente il consolidarsi di aspettative di ripresa.

E oggi? Il ciclo ribassista appena iniziato costituirà un ritorno alla regola (“Don’t fight the Fed”) o una nuova eccezione?

Tassi, valutazioni e curva dei rendimenti

L’amara lezione del passato bear market ha spinto gli analisti migliori verso maggiori livelli di sofisticazione, che riflettono anche la crescente complessità di mercati finanziari sfuggiti di mano, negli ultimi anni, allo stretto controllo delle banche centrali.

Di una delle più autorevoli di tali analisi, a cura di William Hester di HussmanFunds.com, riferivo a ottobre nel post Borse, tassi e bufale a mezzo stampa, che invito a rileggere.

Riassumendo le conclusioni di quello studio, scrivevo allora così:

Tre sono le osservazioni da fare:

a) le performance migliori – spesso addirittura esplosive – il mercato azionario le ha offerte in reazione a riduzioni dei tassi che avevano luogo in un contesto di valutazioni depresse (P/PE inferiore a 15), tipicamente verso la fine di un bear market (PE sta per Peak Earnings, e cioè utili al picco del ciclo, una misura “normalizzata” degli utili ideata da John Hussman);

b) in subordine, performance positive si sono registrate quando una curva dei rendimenti positivamente inclinata (con tassi a lunga più alti dei tassi a breve) segnalava attese di una ripresa del ciclo economico;

c) diverso è stato l’esito quando le valutazioni erano elevate e i tagli dei tassi a breve hanno coinciso o fatto seguito a una fase di inversione della curva dei rendimenti che segnalava attese di stagnazione o recessione: i ritorni del mercato sono stati negativi sia a 6 che a 12 o a 18 mesi (è stato così nel 2001-2002, ma anche nel ciclo di riduzioni dei tassi che accompagnò il bear market del 1968).

Quale di queste tre diverse tipologie è meglio applicabile alla situazione attuale?

Per Hester non ci sono dubbi. L’S&P 500 è scambiato oggi a 18,4 volte i Peak Earnings, un multiplo molto elevato anche se si rinuncia a normalizzare i livelli record dei margini di profitto (operazione che spingerebbe i multipli a livelli ancora più alti).

In secondo luogo, la curva dei rendimenti, nei mesi scorsi, è stata a lungo negativa, esprimendo attese di stagnazione e forse di recessione economica, non certo di ripresa. E’ tornata positiva solo di recente, quando il mercato ha cominciato a scontare una drastica riduzione dei tassi a breve.

Insomma, mercati azionari riccamente valutati e vicini ai massimi, in un contesto in cui i rendimenti obbligazionari segnalavano timori che una crescita vigorosa lasciasse il passo a una fase di debolezza economica, non hanno storicamente risposto bene all’avvio di un ciclo di riduzioni del costo del denaro da parte della Fed.

Era questa la situazione a cavallo tra il 2000 e il 2001. Ed è questa – se si sta ai tre parametri identificati da Hester – la situazione anche oggi.

Mercato casa e tassi

Allo scetticismo di Hester sulla possibilità che la Federal Reserve possa fare la differenza nell’attuale contesto di mercato si sono aggiunte, in questi giorni, le pessimistiche osservazioni di Paul Krugman sull’efficacia ridotta che lo strumento dei tassi a breve rischia di avere nella presente congiuntura economica.

In un post sul suo blog, The Conscience of a Liberal, Krugman osserva come il più importante canale di trasmissione della politica monetaria della Federal Reserve – molto più importante degli investimenti delle imprese – sia il mercato della casa.

Come mai? Per una questione di durata. Un mutuo per la casa può durare 30 anni, mentre per l’acquisto di macchinari un’impresa tipicamente si indebita a una scadenza attorno ai 5 anni. E se i tassi scendono dal 6% al 4%, la rata mensile per l’impresa scenderà appena del 5% ma quella del mutuatario del 20%.

La differenza è enorme e spiega perchè sia proprio il mercato immobiliare il settore dell’economia più sensibile alle manovre sul costo del denaro da parte della banca centrale.

In una recessione, dice Krugman, quello che tipicamente succede è che la Fed taglia i tassi, il mercato della casa si rianima, e da qui la ripresa della domanda si trasmette via via al resto dell’economia.

Ma si tratta di uno scenario realistico nella situazione di oggi? Per Krugman, niente affatto, visto che lo scoppio della bolla immobiliare è l’epicentro della crisi, e il ritorno a valutazioni realistiche appare ancora molto lontano, come dimostra il seguente grafico, a cura del Congressional Budget Office, sul rapporto tra prezzi e affitti (price-to-rent ratio):

Conclude Krugman: “E’ mai possibile che la Fed riesca a tagliare i tassi al punto da creare un altro boom immobiliare? […] E se non è possibile, quanto può davvero fare la Fed per aiutare l’economia?”

Può fare poco, sembra. Sia per sostenere i mercati che l’economia. Ma questa è la storia di tutte le bolle. Sono, purtroppo, eccezionali: nell’euforia che generano, e nelle depressioni che lasciano al loro passaggio.

Casa, la bolla si sgonfia

Non pago di aver raccomandato a novembre l’acquisto di titoli bancari, mentre andava montando la tempesta nel settore che sta spingendo i mercati azionari in un bear market pieno di incognite e pericoli, il settimanale Il Mondo è tornato la scorsa settimana a tartassare i suoi lettori, consigliando l’acquisto di case. “Casa, è l’ora di comprare”, esorta la copertina (vedi foto). Pesce d’aprile fuori stagione o provocante e seria analisi controcorrente?

Di immobili, in questo blog, ho già parlato a ottobre nel post Il triste autunno del mercato della casa. Invito a leggere quell’articolo, che resta attuale e che vorrei utilizzare come base degli ulteriori elementi di riflessione che andrò ora ad aggiungere.

Contrarian investing o harakiri?

Cercavo di evidenziare, allora, due cose: l’enormità senza precedenti della bolla che si è gonfiata in questi anni nei mercati immobiliari a livello globale, e come lo scoppio del bubbone americano preluda, con ogni probabilità, a un lungo ciclo di penosa contrazione anche per i mercati della casa europei.

Il Mondo sostiene ora, con un articolo di copertina a firma di Daniela Stigliano, e un’intervista della stessa giornalista a Carlo Puri Negri, amministratore delegato e azionista di Pirelli Real Estate, che “il pessimismo generalizzato” sulle prospettive del settore immobiliare farebbe invece di questa fase il momento ideale per comprare.

“Perché – dice Stigliano – anche nell’immobiliare vale la regola prima di ogni investitore: sempre meglio anticipare il mercato. Ovvero, comprare sui timori, vendere sull’euforia. E poco importa se i timori, come l’euforia, siano davvero giustificati.”

Più che contrarian investing (una strategia che raccomanda l’acquisto nelle fasi di eccesso di panico, ma non certo quando cominciano a palesarsi dei timori giustificati), la ricetta di Stigliano sembra harakiri applicato alla finanza.

Ma stiamo alla sostanza.

Bolla o non bolla?

L’argomentazione meglio articolata del perché il pessimismo non sarebbe giustificato Il Mondo la offre in apertura dell’intervista a Puri Negri.

Domanda la giornalista: “Il mercato degli immobili in Italia vede grigio per il 2008. Lei invece sembra più ottimista.”

Risponde Puri Negri:

“Le ricerche non parlano di diminuzione dei prezzi, ma di un ulteriore rallentamento della crescita nel prossimo anno, al 2-3%, con un’inflazione in aumento. In Italia il fenomeno delle famiglie che non riescono a rimborsare le rate dei mutui sarà ben lontano dai livelli degli Usa. Negli ultimi dieci anni, inoltre, l’Italia ha avuto una rivalutazione del residenziale inferiore rispetto agli altri Paesi. Dopo la scomparsa della famiglia patriarcale, assistiamo a nuovi fenomeni come l’aumento dei single e la crescente immigrazione, inoltre esistono vincoli sugli immobili con più di 50 anni di vita, c’è una scarsità di terreni edificabili e, in definitiva, lo stock è sempre lo stesso. Con questo scenario è difficile che i prezzi calino.”

Questo è il messaggio. Ma è credibile? Quanto è valido questo elenco di ragioni?

Conflitti d’interesse

Prima di entrare nel merito, val la pena partire da una valutazione dell’affidabilità della fonte. Non conosco Puri Negri ma non ho difficoltà a immaginare che sia uno dei più abili ed esperti immobiliaristi italiani, con una conoscenza del mercato come pochi altri.

Ma può essere attendibile un’analisi che Il Mondo affida, senza contraddittorio, alle parole di un uomo d’affari che guida e ha una quota di proprietà rilevante (superiore al 2%) in una società, Pirelli RE, il cui business è comperare, gestire e vendere immobili?

“Non ci sarà il crollo”, recita il titolo dell’intervista. E’ però facile immaginare che se Puri Negri nutrisse timori di altro genere, non verrebbe certo a svelarli in pubblico. Meglio, molto meglio dare a intendere che le sorti del mattone, in Italia, non possono che essere solide, anzi “rocciose”, come suggestivamente suggerisce la copertina de Il Mondo.

Quando poi la società di Puri Negri è controllata da Pirelli & C, azionista rilevante di RCS MediaGroup (con oltre il 5%), editore de Il Mondo, siamo purtroppo in presenza del solito, inconfessato (la giornalista si guarda bene dal metterlo in luce) conflitto d’interessi che rende così poco credibile certa stampa italiana.

Un giornalista indipendente, attento agli interessi dei suoi lettori, avrebbe chiesto a Puri Negri perché, se il mercato della casa italiano è in buona salute, il titolo Pirelli RE, da qualche mese, sta collassando (ha perso quasi i due terzi del suo valore, come mostra il grafico qui sotto, tornando ai livelli del 2003):

Stigliano, invece, offrendosi come “portaparola” di un potente leader d’azienda legato alla proprietà del giornale, si è ben guardata dall’avanzare questa, o qualsiasi altra obiezione. Diventa inevitabile sospettare che Il Mondo abbia voluto o accettato di confezionare un servizio di copertina che serve gli interessi di Pirelli RE, ma danneggia quelli dei lettori.

Qualche dato sul mercato della casa

Un’ipotesi plausibile, infatti, è che, con caratteristica rapidità e accentuazione, il mercato azionario, nell’andamento del titolo Pirelli RE come di tutto il settore immobiliare italiano (vedi grafico qui sotto), stia anticipando la traiettoria che il mercato della casa, con altrettanto tipica tendenza a disegnare cicli più graduali e di lunga durata, finirà per percorrere nei prossimi anni.

Questo, dopo tutto, è quanto sta accadendo negli Usa, dove al crollo del settore dei costruttori di case (iniziato già nell’estate del 2005) è seguito quello del settore real estate e, infine, quello dei prezzi degli immobili (vedi grafico qui sotto), da tre trimestri precipitati in un ciclo di contrazione che i contratti future (come mostravo nel mio articolo di ottobre) non prevedono si arresti prima del 2010.

Sostiene Puri Negri, nella parte dell’intervista che ho riportato, che l’Italia non è l’America e che da noi le insolvenze sui mutui non raggiungeranno dimensioni altrettanto preoccupanti. E’ probabile. Il fenomeno dei mutui subprime è stato tipicamente americano. Resta però il fatto che anche da noi si è molto largheggiato con il credito immobiliare, come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi nel discorso tenuto per la giornata mondiale del risparmio a fine ottobre:

“Tipologie contrattuali simili a quelle dei mutui subprime statunitensi sono (in Italia, ndr) poco diffuse. L’attività del settore si sta però espandendo rapidamente. Tra il 2002 e il 2006 i mutui alle famiglie sono cresciuti a ritmi quasi doppi rispetto alla media europea (già estremamente elevata, ndr). Si sta innalzando il rapporto tra prestito e valore dell’immobile. […] L’incidenza delle sofferenze sui prestiti per acquisto di abitazioni, ancora bassa, inizia a mostrare segnali di deterioramento.”

C’è però un altro punto, più fondamentale, dove Puri Negri ha quasi sicuramente torto.

Sostiene l’amministratore di Pirelli RE che “negli ultimi dieci anni l’Italia ha avuto una rivalutazione del residenziale inferiore rispetto agli altri Paesi”, come a dire che da noi non solo non ci sarebbero gli eccessi nel credito ma neppure nelle valutazioni. Parlare di bolla, o anche di sopravvalutazione degli immobili, sembrerebbe insomma ingiustificato.

Le cose, però, non stanno così.

Misurare e confrontare l’evoluzione dei mercati immobiliari è stato, storicamente, un gran grattacapo, per la scarsa liquidità del settore e le sue molte atipicità, da zona a zona e da paese a paese.

Uno dei primi a cogliere il problema e a impegnarsi nello sviluppo di indici paese credibili e comparabili è stato il settimanale inglese The Economist, che anche grazie alla bontà degli sforzi profusi in questo progetto fu poi in grado, già nel 2003, di denunciare il gonfiarsi di una bolla immobiliare di dimensioni mai viste prima.

Da allora in poi The Economist ha monitorato, con regolarità e autorevolezza, l’evoluzione dei mercati della casa a livello globale. L’ultimo aggiornamento è stato pubblicato a dicembre, in un articolo titolato Run down (un’espressione, com’è spesso il caso nei titoli dell’Economist, un po’ maliziosa che si presta a una doppia lettura: “in sfacelo” o “corsa al ribasso”).

Cosa dice l’articolo?

In sostanza, che i mercati si stanno muovendo, in questo dopo bolla, in tre scaglioni.

A fare da guida, ci sono gli Stati Uniti, dove i prezzi sono da 23 mesi in decelerazione e da 10 mesi in un calo che va accelerando: a ottobre, ultimo dato disponibile dell’indice S&P/Case-Shiller, che riportavo sopra, si è avuta la più marcata flessione mensile nella storia dell’indice, per un tasso di variazione annuo che ha raggiunto il -6,7%.

Ci sono poi i mercati europei, dove da qualche mese è evidente che si è superato un punto di svolta: in Francia, Spagna, Italia i tassi di crescita stanno raffreddandosi, mentre in Germania, mossasi a lungo in controtendenza, si è passati dalla stagnazione al declino.

In Gran Bretagna, da tre mesi, i prezzi sono in calo e particolarmente preoccupante appare la rapidità del mutamento di clima nel settore degli immobili commerciali (vedi su questo punto, anche un altro articolo dell’Economist, Dominoes on the skyline).

Dopo un aumento medio del 17% nel 2006, i prezzi del comparto commerciale hanno fatto un improvviso dietrofront e solo a novembre (ultimo dato disponibile) sono scesi del 4% (il maggiore calo mensile mai registrato), portando la flessione da luglio in poi al 9%. I contratti future stimano un crollo senza precedenti del 30% nei prossimi tre anni.

Appare insomma confermata la storica tendenza, che descrivevo nel mio articolo di ottobre, per cui i mercati immobiliari europei tendono a seguire quelli americani con uno, al massimo due anni di ritardo.

Terzo scaglione, per ora all’apparenza indisturbato da quanto accade nei paesi occidentali, è quello dei mercati emergenti, dove i prezzi delle case sono ancora, per lo più, in febbrile ascesa.

Questa è la tabella riassuntiva pubblicata da The Economist, con la più recente variazione annua nella prima colonna, la variazione dell’anno precedente nella seconda colonna, e la crescita fatta segnare nell’ultimo decennio nella terza colonna.

Una scorsa ai dati decennali potrebbe far pensare che Puri Negri, dopo tutto, non si sbaglia di molto. La variazione cumulativa dei prezzi degli immobili italiani (+102%), per quanto molto elevata in termini assoluti, risulta nella parte bassa della classifica, superata sia dagli Stati Uniti che da molti paesi europei. Ma un’interpretazione così semplicistica sarebbe fuorviante. L’andamento del prezzo delle case, per essere valutato nella sua sostenibilità, va confrontato con altre variabili rappresentative delle condizioni del mercato e dell’economia nel suo complesso.

Come si fa per i mercati azionari, dove i prezzi sono messi in relazione agli utili, e gli utili vengono normalizzati in base al ciclo (procedura che ho più volte illustrato in questo blog, da ultimo nel post I multipli di Borsa restano elevati), i prezzi nel mercato della casa vengono di solito valutati in rapporto agli affitti e, soprattutto, al reddito disponibile.

Si tratta dei due ratio (con i loro tassi di crescita 1997-2006) riportati dal Fondo Monetario Internazionale nella seguente tabella, pubblicata nell’ultimo World Economic Outlook:

L’aumento medio del rapporto prezzi/reddito disponibile superiore a un terzo è definito dal FMI, con preoccupazione, come “molto elevato” (nel cauto linguaggio del Fondo, si tratta di quanto più prossimo ci possa essere all’uso del termine “bolla speculativa”). Risulta chiaro dalla tabella come per l’Italia tale incremento sia stato superiore alla media, superiore a quello degli Stati Uniti, e vicino al 50%.

Mentre molte altre economie vedevano crescere Pil e redditi a tassi sostenuti, e questo, in parte, contribuiva ad alimentare la fiammata dei prezzi delle case, da noi si è avuta una sostanziale stagnazione – una condizione di contesto che fa emergere con maggiore chiarezza la natura speculativa della frenetica corsa al rialzo del nostro settore immobiliare.

Se quasi nessuno mette ormai in dubbio che il mercato della casa americano abbia attraversato un periodo di bolla senza precedenti, che si sta ora sgonfiando con gravi ripercussioni sull’economia nel suo complesso, in un processo che i mercati a termine non prevedono tocchi il fondo prima di un altro biennio, non si capisce su quali basi si possano costruire scenari radicalmente diversi per l’Italia.

Certamente non con gli argomenti accessori utilizzati da Puri Negri.

L’aumento dei single è un fenomeno in corso da decenni e ormai maturo, se si considera che l’Istat rileva come più di un quarto dei nuclei familiari italiani sia fatto di persone sole e oltre la metà di non più di due persone.

La crescente immigrazione, poi, c’è da noi come in altri paesi occidentali, con la differenza che in Italia è l’unico sostegno a una dinamica demografica che resta tra le più depresse del mondo.

“E’ difficile che i prezzi calino”, dice Puri Negri. “E’ l’ora di comprare”, rincara Il Mondo. Se si sta ai fatti e ci si sforza di ragionare con obiettività, appaiono valutazioni su cui sarebbe azzardato scommettere anche solo un soldo bucato.

Perché una recessione negli Usa è probabile

Per i mercati azionari le festività natalizie sono state portatrici più che altro di cattive notizie. Chi aspettava il rally di fine anno ha dovuto invece fare i conti con indici che sono tornati a testare i minimi di agosto e di novembre, sulla spinta di paure crescenti che una recessione negli Usa sia ormai inevitabile.

Il precario quadro tecnico è ben visibile nel seguente grafico settimanale dell’S&P 500:

E il motivo dominante è sinteticamente illustrato da un altro grafico che riporta le quotazioni del contratto USrecession.08, scambiato sul mercato predittivo di Intrade (di cui ho già scritto nel post Mercati predittivi e recessione negli Usa):

Il contratto esprime le probabilità assegnate dagli scommettitori al verificarsi di una recessione negli Usa nel 2008. Come risulta chiaro, tali probabilità si sono impennate da livelli poco inferiori al 50%, prevalenti tra novembre e dicembre, fino all’attuale 64%. Quali sono stati i motivi di una così rapida e drastica revisione delle aspettative?

Quelli facilmente quantificabili sono per lo meno tre, che vado a riportare in ordine cronologico.

Il 21 dicembre è stato pubblicato l’Index of Leading Economic Indicators (LEI) di novembre, in Italia noto come superindice economico. E’ il più affidabile degli indicatori anticipatori del ciclo economico americano.

Come scrivevo nel post Un bear market azionario è forse alle porte?, il LEI, con l’unica eccezione di un falso segnale nel 1966, ha correttamente segnalato, con un trimestre d’anticipo, tutte le recessioni Usa degli ultimi 50 anni.

Qual è dunque stato il suo più recente responso? Ecco il grafico, che traggo dalle analisi di Northern Trust (le fasce grigie indicano i periodi di recessione):

Dopo un flebile rimbalzo nel corso del terzo trimestre, l’indice è tornato a sprofondare con più decisione in terreno negativo.

Come nota Asha Bangalore di Northern Trust, cumulando il -0,5% di novembre con il -0,4% di ottobre si ottiene la più marcata flessione su base annua dal terzo trimestre del 2001, quando l’economia Usa era in recessione. Il messaggio, per Bangalore, è che “i rischi di condizioni economiche di notevole debolezza stanno rapidamente aumentando.”

Il secondo motivo delle aumentate paure di recessione sta nel sondaggio ISM tra i responsabili degli acquisti del settore manifatturiero, diffuso il 2 gennaio e relativo al mese di dicembre. Ecco il grafico dell’ISM manifatturiero, sempre tratto da Northern Trust:

Con la caduta a 47,7 l’indicatore, che è pure tra i più affidabili nell’anticipare l’evoluzione del ciclo Usa, si è portato su livelli che in passato hanno spesso segnalato l’instaurarsi di condizioni recessive.

Cautamente, Bangalore osserva come conferme dovranno essere attese nei prossimi mesi. Ma la possibilità che il dato di dicembre sia un falso segnale appare ridotta.

Tra i componenti dell’indice, due dei più importanti, e cioè produzioneordinativi, hanno evidenziato estrema debolezza, scendendo ai livelli più bassi dall’autunno del 2001, quando l’economia Usa era in recessione, come risulta chiaro da quest’altro grafico:

L’ultimo motivo di allarme, in ordine temporale, è venuto lo scorso venerdì con la pubblicazione delle statistiche sull’occupazione relative a dicembre. Il tasso di disoccupazione si è improvvisamente impennato dal 4,7% al 5,0%, una rapida inversione di rotta che è tipicamente associata all’avvio di una recessione, come evidenzia il grafico seguente:

E con la creazione di appena 18 mila nuovi occupati a dicembre, il tasso annuo di crescita della forza lavoro è sceso allo 0,9% dal picco ciclico del 2,1% del marzo 2006, come illustra quest’altro grafico:

L’aspetto più preoccupante, nota Bangalore, è che l’89% della già esigua crescita della forza lavoro registrata nel 2007 è dovuto a un metodo di destagionalizzazione dei dati che solleva molte perplessità tra gli economisti. E’ insomma probabile che le statistiche ufficiali sovrastimino, in questa fase del ciclo, la salute del mercato del lavoro Usa.

Recessione del mercato della casa, recessione del settore manifatturiero e flessione del mercato del lavoro, se confermate, potranno solo mettere in ginocchio i consumi, tanto più in un contesto in cui la crescente debolezza economica va a colpire i bilanci di famiglie Usa già sin troppo indebitate.

Se, come appare dunque sempre più probabile, una contrazione dell’economia americana sarà nei prossimi mesi difficile da evitare, quale potrà essere l’impatto sull’Europa?

Un’indicazione ci viene dal grafico seguente, tratto dall’ultimo World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale. Illustra il tasso reale annuo di crescita del Pil negli Usa, zona euro e Giappone:

Trascurando i dati nella banda grigia, che rappresentano previsioni per il prossimo anno (notoriamente non molto affidabili), è facile notare la stretta correlazione tra le economie americana ed europea negli ultimi due cicli, con la funzione di traino, nelle fasi ascendenti come in quelle discendenti, che gli Usa hanno storicamente esercitato. La conclusione, insomma, è che se gli Usa sono in procinto di cadere in recessione, la crescita europea potrebbe in pochi mesi squagliarsi come neve al sole.

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