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La guerra valutaria e i suoi minacciosi precedenti

CurrencyWarsSiamo o non siamo nel pieno di una currency war (“guerra valutaria”) di dimensioni globali? Dipende. A sostenerlo, tra i primi, è stato Guido Mantega, il ministro delle finanze brasiliano, che ha coniato l’espressione nel settembre del 2010 con l’intento di denunciare la natura destabilizzante, e di fatto ostile, della politica monetaria superespansiva adottata dalla Federal Reserve americana. Ma la questione resta controversa. Continua a leggere…

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Il mercato delle idee: TED spread, trend e tormenti

Rischi privi di rendimento

La rubrica Buttonwood dell’Economist, in un articolo dal titolo Yielding to none, si chiede quale sia l’elemento più eccezionale che si presenta alla vista degli investitori in avvio di 2009 e conclude che non si tratta né dell’andamento dei mercati azionari né delle quotazioni del petrolio ma piuttosto dei rendimenti dei titoli di stato. I titoli decennali del Tesoro americano, ad esempio, offrono solo il 2,3% rispetto a una media, negli ultimi due secoli, del 4,5%. Nella parte breve della curva, poi, i rendimenti sono inferiori all’1%. Al confronto, il tasso di dividendo del mercato azionario è del 3,3%. Che senso ha tutto ciò?

Gli investitori, pare ovvio, sono disperati di mettere le mani sugli asset meno rischiosi che riescano a trovare. Ma così facendo, in massa, stanno creando dei nuovi pericoli. Nell’immediato, è difficile immaginare tanto una ripresa dell’inflazione che dei tassi manovrati dalle banche centrali. La Federal Reserve ha portato i Fed funds in una forchetta tra 0% e 0,25% e annunciato di volerli congelare lì per un certo periodo di tempo. Ma in prospettiva le cose potrebbero cambiare, e di molto.

L’enorme stimolo monetario e, nei mesi a venire, anche fiscale che le autorità stanno imprimendo al sistema per scongiurare una depressione e rianimare il ciclo economico solleva non poche possibilità di una ripresa dell’inflazione nel prossimo futuro. Per gli investitori, in quel caso, il problema sarà riuscire a scappare dal mercato obbligazionario prima che lo faccia la massa: una condizione spiacevole in cui è sempre alto il rischio di finire travolti.

Insomma, i titoli di stato, che sono noti – nel gergo della finanza – come strumenti che garantiscono “rendimenti privi di rischio” si presentano oggi piuttosto come una classe d’investimento che, secondo l’arguta definizione di James Grant, offre “rischi privi di rendimento.” Un “orrendo bear market”, paventa l’Economist, appare prima o poi inevitabile.

Meno stress nel mercato del credito

L’attenzione di investitori e media, negli ultimi mesi, si è spostata dagli aspetti finanziari della crisi a quelli economici. A preoccupare, insomma, sono l’andamento della produzione, delle vendite, dell’occupazione. Resta il fatto, però, che l’origine del rapido raffreddamento della congiuntura, a cui si assiste, sta nella crisi finanziaria e nella condizione di vero e proprio collasso del sistema creditizio a cui si era giunti lo scorso autunno.

Le banche centrali, Federal Reserve in primis, si sono date da fare – anche attraverso l’utilizzo di diversi strumenti non convenzionali – per riportare un po’ d’ordine e di normalità. Senza credito, infatti, non è pensabile che l’attività economica possa riprendersi. Ma quali sono stati finora i risultati? Un prezioso aggiornamento per quel che riguarda il mercato guida, e cioè quello americano, è offerto dal blog Calculated Risk, che fa un regolare monitoraggio di diversi indicatori, come il TED spread (vedi grafico qui sotto, tratto da Bloomberg), il tasso swap a 2 anni o il tasso LIBOR.

Di che si tratta? Sono tassi o spread fra tassi (come nel caso del TED spread, dato dalla differenza tra il rendimento dei Titoli del tesoro a tre mesi e il tasso sui prestiti interbancari a tre mesi) atti a misurare le condizioni di liquidità e di rischio sui mercati del credito. Per fare un esempio, se le banche hanno timore del rischio di controparte posto da altre banche, saranno restie a prestare loro liquidità ed esigeranno dei rendimenti più alti, facendo lievitare il tasso LIBOR o il TED spread.

Come il grafico qui sotto evidenzia, la situazione negli ultimi mesi è alquanto migliorata, anche se non si è del tutto normalizzata. Il TED spread è sceso verso l’1%, in prossimità dei livelli più bassi dell’ultimo anno, dal massimo storico del 4,63% toccato il 10 ottobre. In condizioni normali, il differenziale non dovrebbe essere superiore allo 0,5%. Comunque, è evidente che la Federal Reserve – come osserva Calculated Risk – “sta facendo progressi.”

L’Europa non fa abbastanza

Eurointelligence lamenta, in un commento alla decisione di ieri della Banca Centrale Europea di tagliare i tassi di riferimento di 50 punti base al 2,0%, che l’Europa sta facendo troppo poco, sia sul versante monetario che fiscale, per fronteggiare la recessione. Il presidente della BCE, Jean Claude Trichet, ha lasciato intendere che la banca centrale si prenderà una pausa di riflessione a febbraio e che nuove mosse sui tassi non sono da mettere in conto prima di marzo. Per Eurointelligence è chiaro che la BCE non ha alcuna intenzione di inseguire la Federal Reserve nel perseguimento di una politica dei tassi zero.

La reazione dei mercati è stata quella di vendere l’euro, che ha toccato i minimi nei confronti del dollaro da cinque settimane. La valuta americana, oltre a essere preferita come safe haven (bene rifugio) nei momenti di più accentuata avversione al rischio, non dà segni di patire lo sfavorevole differenziale sui tassi. Più che a questo, infatti, gli investitori sembrano prestare attenzione alle possibilità di fuoriuscita dalla crisi economica. E la scommessa è che, quando la ripresa verrà, sarà ancora una volta l’America e non l’Europa a fare da battistrada.

Paesi ancora emergenti

Gli alti tassi di crescita dei paesi emergenti sono stati resi possibile, negli ultimi anni, anche dal boom dei consumi americani, dal facile accesso al credito e dagli alti prezzi delle materie prime. Ora che tutti e tre questi fattori sono venuti meno, saranno in grado i paesi emergenti di continuare la loro rincorsa nei confronti di quelli avanzati?

A sostenere di sì è un articolo dell’Economist della scorsa settimana, intitolato Stumble or fall, da cui è tratto il grafico sotto, che mostra la forbice apertasi in questo decennio nel contributo alla crescita globale offerto dalle economie sviluppate e da quelle emergenti.

Anche se ci sono eccezioni di rilievo, come l’Argentina o alcuni stati dell’Europa dell’Est, molti di quei paesi godono di condizioni di solidità macroeconomica invidiabili rispetto ai paesi avanzati. In particolare, tendono ad avere alti tassi di risparmio, bilance commerciali in attivo e livelli di indebitamento pubblico molto esigui. In Cina, ad esempio, il debito pubblico ammonta solo al 18% del PIL. Questo consentirà loro di dare fondo a politiche fiscali espansive e di perseguire una via d’uscita dalla crisi mediante lo stimolo ai consumi interni.

Blogger a rischio

In tempi di crisi economica capita anche che i blogger si debbano guardare dalle ire dei governi, a caccia di capri espiatori verso cui canalizzare l’insoddisfazione popolare. Lo racconta Beppe Grillo in un articolo, al tempo stesso amaro e divertente, intitolato Minerva.

Le banche, i mercati e la bolla del credito II

Ho scritto nella prima parte di questo articolo che per comprendere i tremori che stanno scuotendo da qualche mese i mercati finanziari globali bisogna guardare alle banche. E per decifrare le difficoltà delle banche bisogna andare oltre l’implosione del mercato Usa dei mutui subprime, e risalire fino alle origini di quella che oggi appare sempre più nitidamente come una bolla dei tassi e della liquidità, di proporzioni senza precedenti.

Chiudevo la prima parte notando come la tardiva stretta con cui la Federal Reserve, a partire dal giugno 2004, cercò di normalizzare una politica monetaria troppo espansiva fallì in quello che era uno dei suoi scopi, e cioè produrre anche un rialzo della parte lunga della curva dei tassi così da calmierare, in primis, un mercato della casa già allora troppo effervescente.

Perchè la manovra non ebbe gli effetti desiderati?

Uno dei primi a sollevare la questione, senza però trovare una risposta soddisfacente tanto da definire il problema col termine diventato poi famoso di “conundrum (enigma), fu proprio Alan Greenspan in un’audizione parlamentare del febbraio 2005, quando era ancora presidente della Federal Reserve.

Da lì in poi è stato tutto un susseguirsi di studi e interpretazioni, ben riassunti in un articolo del Financial Times dello stesso anno. In estrema sintesi, le spiegazioni più accreditate dell’enigma dei bassi tassi americani a lungo termine hanno finito per essere tre:

a) Globalizzazione e bassa inflazione

Si è detto che il mercato scontava il permanere di condizioni di bassa inflazione. I cicli di espansione economica del passato erano sempre stati caratterizzati dall’emergere di pressioni sui prezzi, che finivano per spingere al rialzo i tassi a lunga e indurre la banca centrale a intervenire con una stretta sui tassi a breve. Ma quest’ultimo ciclo appariva diverso.

Per tutto il periodo 2004-2007, l’azione della Federal Reserve fu semplicemente finalizzata a “normalizzare” tassi a breve troppo bassi e non a sopprimere inesistenti dinamiche inflative.

Il processo di globalizzazione, infatti, grazie all’immissione sui mercati internazionali di almeno un miliardo di nuovi lavoratori a basso costo dalla Cina e dall’India, aveva creato le condizioni per una sostenuta espansione economica, di lunga durata, con bassa inflazione.

b) Debito insostenibile e recessione

Altri, più pessimisti, hanno ritenuto che il mercato scontasse l’insostenibilità dell’espansione americana, che aveva fatto leva, dal 2001 in poi, su un cumulo crescente e senza precedenti di passività: i “deficit gemelli” del bilancio federale e della bilancia commerciale



… l’indebitamento abnorme delle famiglie che, per la fatale attrazione di un mercato immobiliare in ebollizione, per l’eccessivo ottimismo nelle loro possibilità di guadagno e l’anemica crescita dei salari, riuscivano a tenere elevati i consumi solo facendo ricorso al credito…


… abbattendo fino a livelli negativi, per la prima volta nella storia, il tasso di risparmio:


I bassi tassi a lunga anticipavano dunque il collasso dell’economia Usa sotto il peso di tali e tanti squilibri: una fine traumatica della crescita nel baratro della recessione, e, piuttosto che l’assenza di inflazione, un periodo di deflazione (e cioè di diminuzione dei prezzi) causato dal degenerare dei debiti eccessivi in insolvenze.

c) Eccesso di liquidità e bolle, bolle, bolle

La terza interpretazione proposta all’”enigma” dei bassi tassi a lunga americani, per certi versi complementare alla seconda, è stata che i tassi si trovavano in uno stato di bolla speculativa. Avevano perso, perciò, ogni capacità di segnalare tanto gli eventuali rischi di deflazione come l’assenza o meno di inflazione.

La politica troppo a lungo espansiva della Federal Reserve aveva finito per inondare di liquidità diversi mercati, da quello immobiliare a quello azionario a quello obbligazionario.

Tali eccessi si erano poi venuti aggravando in conseguenza delle politiche economiche di molti paesi asiatici, Cina in testa, che, dalla crisi valutaria del 1997 in poi, avevano puntato con decisione su una crescita a tappe forzate, tutta basata sull’export.

A sostegno e a rinforzo delle loro politiche mercantilistiche, questi paesi avevano utilizzato le ingenti riserve valutarie

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

… generate dai surplus commerciali (espressi nel grafico qui sotto in percentuale del Pil mondiale)…

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

… per acquistare titoli del debito americano e mantenere in tal modo l’allineamento delle loro valute al dollaro (il grafico qui sotto mostra la percentuale del debito pubblico Usa detenuta da investitori stranieri: come si vede, è andata crescendo in modo esplosivo dal 2001, in larga misura per l’intervento massiccio delle banche centrali, soprattutto asiatiche).


Si era così andato consolidando un processo di mutuo sostegno tra Usa e Asia, ribattezzato Bretton Woods II, perchè in qualche modo riecheggiante gli accordi raggiunti nel 1944 nell’omonima località del New Hampshire, che avevano gettato le basi del sistema monetario, centrato sul dollaro, in vigore fino ai primi anni ’70.

Un simile, informale, rapporto di scambio era funzionale a mantenere elevati i consumi americani e le produzioni ed esportazioni asiatiche. Finiva, però, per scaricare i suoi costi sull’Europa, la cui moneta era l’unica, tra le principali, che tendeva ad apprezzarsi oltre ogni ragionevole misura.

Nel complesso, Bretton Woods II risultava comunque fortemente espansivo per tutta l’economia globale, come lascia ben intendere il grafico che segue:

Sommate assieme, base monetaria e riserve valutarie raggiungevano, a livello globale, tassi di crescita mai visti prima, andando a configurare un’enorme bolla di liquidità, che inondava un mercato dopo l’altro.

In sintesi e semplificando, secondo questa interpretazione, la dinamica sottostante agli sviluppi dell’economia e dei mercati finanziari su scala planetaria è stata, nell’ultimo decennio, la seguente:

a) in America, centro del sistema globale: bassi tassi a breve, ampia liquidità, consumi sostenuti, deficit commerciale, mercati degli asset in crescita, ottimismo e propensione al rischio, ricca e variegata offerta di credito, accumulo di debito, dollaro debole;

b) in Asia, piattaforma produttiva per l’economia globale: forti esportazioni soprattutto verso il mercato Usa, elevati surplus commerciali e accumulo di riserve, acquisto di titoli del debito in dollari per mantenere competitive le valute locali;

c) di nuovo in America e da qui a livello globale: bassi tassi a lunga, sostenuta crescita economica (l’ultimo quinquennio, anche se in Italia non ce ne siamo accorti, ha fatto registrare la più poderosa e prolungata espansione dell’economia mondiale dagli anni ’70).

L’enigma di Greenspan svelato

Delle tre interpretazioni del “conundrum” di Greenspan, è quest’ultima, probabilmente, la più completa.

C’è stato un tacito e informale scambio tra America e Asia, per cui la prima si è gonfiata di debiti che hanno finanziato tanto i consumi interni quanto l’industrializzazione della seconda, e la seconda ha ammassato risparmi che sono stati utilizzati per acquistare i debiti della prima, mantenendone basso il costo e consentendo così ulteriore accumulo di debito e un altro giro di questa giostra.

Si è trattato, per anni, di un processo caratterizzato da uno stabile squilibrio, come l’ha definito Bill Gross di PIMCO.

Stabile” perché mutualmente vantaggioso e implicitamente garantito dalle autorità politiche e monetarie della superpotenza americana e dei paesi emergenti asiatici. Ma “squilibrato” perché tanto l’accumulo di debito in America che quello di riserve in dollari nei paesi asiatici era, a lungo andare, fondamentalmente insostenibile.

Ciò che di recente ha cominciato a manifestarsi è che, sia per i tentativi di “riequilibrare lo squilibrio”, attraverso la leva dei tassi a breve negli Usa e la maggiore diversificazione delle riserve in Asia, sia per la logica implicita allo squilibrio stesso, il processo da “stabile” si è fatto “instabile.”

Per intravedere cosa questo possa comportare, bisognerà prima fare una panoramica di quel che Bretton Woods II, col suo mix incendiario di debito, liquidità, crescita drogata ed eccessiva propensione al rischio, abbia prodotto sui mercati finanziari, in particolare quelli del credito.

Lo vedremo in una terza parte di questa analisi. Per ora, vorrei chiudere con un’osservazione che ci sarà essenziale da qui in avanti.

La liquidità come “stato della mente”

Ho fatto più volte uso del concetto di liquidità, che in finanza non è dei più univoci. Si tratta della disponibilità di moneta, in ultima istanza controllata dalle banche centrali? Sì, anche. E sulla base di questa definizione, ho mostrato graficamente di quale entità sia stata la bolla degli ultimi anni.

Ma questa accezione è diventata sempre più inadeguata nei mercati finanziari del XXI secolo, nei quali sono proliferati nuovi veicoli di credito e d’investimento poco o per niente regolati dalle banche centrali – quello che Paul McCulley di PIMCO ha per primo definito, nel suo complesso, come “shadow banking system” (sistema bancario ombra). Banche d’investimento, Siv (structured investment vehicles) e hedge fund sono i suoi attori protagonisti.

In questo nuovo contesto, cos’è dunque la liquidità? La definizione migliore mi pare sia di nuovo quella di McCulley, che l’ha chiamata uno “stato della mente”.

“Nei mercati dei capitali di oggi, integrati globalmente e regolati in modo leggero, la liquidità ha a che fare con l’appetito per il rischio di prestatori e prenditori di denaro, collettivamente considerati. E’ cioè una funzione della disponibilità da parte degli investitori di sottoscrivere rischio e incertezza con capitali presi a prestito e della disponibilità da parte dei risparmiatori di prestare denaro a investitori che intendono sottoscrivere rischio e incertezza con capitali presi a prestito.”

Vedremo come uno “stato della mente” reso euforico dalle irripetibili opportunità di crescita offerte ai mercati del credito da Bretton Woods II e dalle innovazioni di prodotto frutto di un’ingegneria finanziaria sempre meno frenata dal buon senso e/o dalle autorità, abbia finito per generare “liquidità” (e, per un certo periodo di tempo, profitti) che sfidano la più fervida immaginazione.

Ora che lo “squilibrio” di Bretton Woods II da “stabile” ha cominciato a farsi “instabile” (il mercato della casa americano è stato, in fin dei conti, il punto più debole di una catena planetaria, che avrebbe potuto iniziare a sfilacciarsi anche in altri punti), lo “stato della mente” è diventato ansioso e preoccupato da euforico che era.

Ha così preso avvio un processo inverso di contrazione della “liquidità” (e dei profitti, come dimostrano i tremendi buchi venuti a galla nelle trimestrali delle grandi banche americane) che, a una a una, finirà per afflosciare le tante bolle gonfiatesi in questi anni.

Le banche, i mercati e la bolla del credito I

“Banche, un rischio o di nuovo un affare?” si chiedeva qualche settimana fa Il Mondo in un lungo articolo a firma di Ivan Del Ponte. “Bene”, mi sono detto. “Proprio quello che ci vuole”. Non è infatti possibile comprendere gli scossoni sui mercati finanziari di questo ultimo semestre se non si analizza a fondo la situazione del settore bancario.

Dopo anni di leadership e sovraperformance…

Fonte: Borsa Italiana

 … è dalle banche che ha preso le mosse la correzione globale delle Borse (o bear market?), iniziata sul listino milanese verso la fine di maggio:

Fonte: Borsa Italiana

Purtroppo, a dispetto del titolo, l’articolo de Il Mondo saltava a piè pari ogni valutazione dei rischi.

Si limitava a descrivere come “irrazionali” i comportamenti del mercato che, facendo “di tutta l’erba un fascio”, avrebbe finito per penalizzare senza motivo anche gli istituti di credito italiani per la crisi dei mutui subprime americani.

E sposava la tesi dell’”affare” attribuendo agli “investitori più scaltri” l’idea che “per chi ha un’ottica di investimento superiore all’anno è il momento di fare shopping” tra i titoli bancari del nostro listino.

Quali, in particolare? Intesa Sanpaolo, UniCredit, Banco Popolare…insomma, gli azionisti bancari di RCS, editore de Il Mondo.

Nessuna vera analisi, nessun accenno all’evidente conflitto d’interessi in cui il giornale era andato a ficcarsi (l’intenzione era di proporre buoni consigli ai lettori o fare un favore alla proprietà?): l’articolo aveva tutta l’apparenza di quella che in gergo si chiama “marchetta”, un malcostume che, nei paesi civili, le testate attente alla propria credibilità cercano in ogni modo di evitare (vedi quanto ho scritto nel post Blog e fondamenti del giornalismo).

Cestinato l’indecente servizio de Il Mondo, resta l’interrogativo. Che succede alle banche?

Purtroppo, l’analisi dei nessi tra mondo del credito e mercati non è facile, perché complesse, sin troppo, sono diventate le attività in cui le banche – quelle almeno radicate al cuore del sistema – sono impegnate.

In una battuta, si potrebbe dire che se nelle ultime settimane Chuck Prince e Stan O’Neal, Ceo di due formidabili istituzioni come Citigroup e Merrill Lynch, sono stati di punto in bianco messi alla porta dai loro azionisti è perché non avevano capito, loro per primi, cosa facessero le banche di cui erano alla guida. E se non l’avevano capito loro, potrà essere un compito alla portata di un piccolo investitore qualsiasi?

Non lo so, ma è necessario provarci. Nel seguito di questa analisi mi ci cimenterò usando molti grafici per stare ai fatti e mirando a ricomporre, senza perdermi in dettagli, un contesto in cui sia possibile ridare senso alla grande confusione e incertezza che hanno invaso i mercati da qualche mese a questa parte.

La bolla dei tassi e della liquidità

Il primo problema, cercando di sviscerare un sistema complesso come i mercati, è capire da dove cominciare.

Nel descrivere la crisi palesatasi a partire dall’estate, si è per lo più concentrata l’attenzione sul suo epicentro, i mutui subprime (quelli cioè più rischiosi perché offerti a una clientela che dà scarse garanzie), visti come manifestazione di una tendenza al rilassamento degli standard creditizi e all’eccesso speculativo limitata a una parte del mercato della casa americano.

E’ un approccio interpretativo che è stato incoraggiato, in primo luogo, dalle autorità americane.

Ancora nel giugno scorso, ad esempio, Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve, si esprimeva in termini rassicuranti in un discorso all’annuale Conferenza Monetaria Internazionale, nel quale dichiarava che:

“Fattori fondamentali, tra cui la solida crescita dei redditi e tassi sui mutui relativamente bassi, dovrebbero in ultima istanza sostenere la domanda di case; appare a questo punto improbabile che i problemi nel settore subprime finiscano per avere serie ripercussioni sull’economia nel suo complesso o sul sistema finanziario.”

Dall’estate si è cominciato poi a capire quanto riduttiva fosse quell’interpretazione.

Scrive Charles Kindleberger, nel suo classico Manias, Panics and Crashes, a history of financial crises, che “le manie speculative si gonfiano grazie all’espansione della liquidità e del credito o, in alcuni casi, prendono proprio avvio per effetto di un’iniziale espansione della liquidità e del credito.”

E’ da qui, più che dai mutui subprime, che bisogna partire.

All’origine dei tremori che scuotono oggi i mercati finanziari sta una bolla dei tassi e della liquidità che non ha precedenti e che viene da lontano.

Vediamola, a partire dal grafico che segue, che ci mostra l’evoluzione dei tassi reali a breve negli Usa e nella zona euro (linea rossa) e la deviazione da quella condizione di neutralità della politica monetaria chiamata in gergo Taylor rate (linea blu):

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

Il Taylor rate è dunque un tasso di equilibrio. Definito dall’economista John Taylor sulla base di una formula che tiene conto dell’andamento del ciclo economico e dell’inflazione, fu ampiamente utilizzato dalla Federal Reserve come metro di valutazione negli anni della presidenza di Alan Greenspan.

Appare chiaro come già dalla fine del 1998, negli Usa, e dal 2001 in Europa la politica monetaria diventò espansiva e vi rimase a lungo, prima di tornare verso una condizione di equilibrio solo in tempi recenti. Senza però sortire gli effetti desiderati, come mette in chiaro il grafico che segue:

Un tratto anomalo e importante dell’andamento dei tassi nell’ultimo decennio è stato che, al netto dell’inflazione (in termini cioè “reali”), quelli a lungo termine hanno continuato a flettere, in aggregato, in tutti i paesi del G7, insensibili alla restrizione monetaria messa in atto dalla Federal Reserve a partire dal giugno 2004 e dalla BCE a partire dal dicembre 2005. Siccome molte attività di investimento o di consumo di beni durevoli sono più sensibili ai tassi a lunga che a quelli a breve, l’azione delle banche centrali, tesa a riequilibrare la politica monetaria in presenza di una crescita economica sempre più effervescente, è stata dunque in larga parte frustrata dai mercati (dove vengono liberamente fissati i tassi a lunga).

Questa osservazione è ancora meglio visibile nel grafico seguente, che mette direttamente a confronto i tassi a breve (Fed Funds) con quelli a lunga (T-bond decennale) del mercato americano:

Fonte: Federal Reserve

Come è facile notare, nei cicli passati era sempre accaduto che, nelle fasi di stretta monetaria, ai rialzi dei tassi a breve, decisi dalla Federal Reserve, si accompagnassero anche aumenti dei tassi a lunga.

Nell’ultimo ciclo, dal 2004 al 2007, questo non si è però verificato. Come mai? Lo vedremo nella seconda parte di questa analisi.

Il mercato delle idee: Cina, dollaro e inflazione

Tra gli articoli degli ultimi giorni che ho trovato d’interesse ce n’è uno che individua delle analogie tra la situazione di oggi e i contesti in cui maturarono i crash del ’29 e dell”87. Questa volta, nel mirino, ci sarebbero i mercati cinesi. Un’altra analisi osserva tre fasi nel declino del dollaro e conclude che la sua svalutazione è destinata a continuare con ricadute negative sull’inflazione negli Usa.

Ecco i link a queste e ad altre storie.

Bolle e crash, come nel ’29 e nell”87

Interessante post su Alphaville, l’ottimo blog del Financial Times, che riprende un articolo di John Plender in cui si analizzano profonde affinità tra il crash del 1929, quello del 1987 e la situazione attuale.

All’origine delle crisi di mercato del ’29 e dell’’87 ci furono cambiamenti nei rapporti di potere tra un grande paese emergente e il centro del sistema economico internazionale, ossia Usa e Gran Bretagna nel ’29 e Giappone e Usa nell’87. Oggi la situazione sembra ripetersi, a grandi linee, nella relazione tra USA e Cina.

In tutti questi casi il perseguimento di politiche protezionistiche da parte della potenza emergente ha portato a crescenti squilibri nelle bilance dei pagamenti. E la manipolazione dei mercati valutari, tesa a limitare il deprezzamento della valuta dominante (la sterlina nel ’29, il dollaro nell’87 e oggi) ha finito per gonfiare enormi bolle speculative nei mercati della potenza emergente (Usa negli anni ’20, Giappone negli anni ’80, la Cina ai nostri giorni).

L’esito di questi processi è stato un crash catastrofico negli Usa degli anni ’30, con profonde ripercussioni sull’economia globale, e nel Giappone degli anni ’90, con conseguenze però in gran misura limitate a quel paese.

La conclusione dell’analisi di Plender è che un crash dei mercati cinesi appare ora l’esito più probabile degli squilibri attuali. Quali però potranno essere le ripercussioni a livello globale resta da capire.

L’insostenibile leggerezza del dollaro

Il destino del dollaro sembra segnato. Lo scrive sul Wall Street Journal Richard Clarida, professore alla Columbia University, ex sottosegretario al Tesoro e ora consulente strategico globale di Pimco, il primo asset manager obbligazionario al mondo. E le opinioni di Clarida sono riprese e condivise da Barry Ritholtz nel suo blog, The Big Picture.

Il declino del biglietto verde, come documenta il grafico che riproduco qui sotto, ha attraversato dal 2001 tre fasi, scandite dagli orientamenti di politica monetaria della Federal Reserve.

Dal 2001 al 2004, con l’economia Usa in anemica ripresa e la Fed impegnata ad allentare drasticamente la leva dei tassi fino all’1%, il dollaro non ha fatto che deprezzarsi. E’ poi seguito un periodo di consolidamento, dall’estate 2004 all’estate 2006, che ha coinciso con l’irrobustirsi dell’espansione economica e la decisione della Fed di dare il via a una serie di “misurati” rialzi dei tassi.

A partire dall’agosto 2006 il dollaro ha però ripreso a deprezzarsi, via via che si manifestava un rallentamento dell’economia e la Fed si orientava prima verso una “pausa” nella stretta monetaria e poi invertiva rotta dando avvio a un nuovo ciclo di tagli.

Scoppio della bolla immobiliare e crisi creditizia forzeranno la Fed a mantenere espansiva la politica monetaria ancora a lungo. Questo servirà, forse, a evitare o quanto meno a rendere meno severa una recessione.

Ma come nota Ritholtz, riprendendo il detto reso famoso da Milton Friedman, in economia “non ci sono pasti gratuiti.” Il prezzo da pagare sarà un dollaro sempre più debole e, almeno negli Usa, il rischio di indesiderate pressioni sui prezzi.

Le probabilità di una recessione? Al 38%

Nel post Mercati predittivi e recessione negli Usa avevo parlato di uno strumento innovativo per monitorare i rischi di recessione negli Usa, un evento che per i mercati globali resta una delle minacce più incombenti.

Si tratta del contratto US.recession.08, scambiato sul mercato predittivo di Intrade. Il contratto segnala, mentre scrivo, una probabilità del 38% che l’economia americana cada in recessione nel prossimo anno.

Come evidenzia il grafico che riproduco qui sotto, le quotazioni hanno subito sensibili oscillazioni nel corso degli ultimi due mesi, in un ampio range tra il 30% e il 60%. I rischi sono comunque elevati, in un contesto che viene percepito dagli investitori come particolarmente volatile e incerto.

Le società più rispettate al mondo

Come ogni anno, Barron’s ha sondato i money manager americani per stilare una classifica delle società “più rispettate” al mondo.

Al primo posto – e mi fa piacere – c’è Berkshire Hathaway del grande Warren Buffett. Seguono Johnson & Johnson, Toyota Motor, Procter & Gamble, General Electric, Microsoft, Nestlé, Apple, Cisco Systems ed ExxonMobil.

Tra le europee, dopo Nestlé, si segnalano Novartis, Nokia, Roche e Royal Bank of Scotland.

E le italiane? Sottorappresentate, ma non del tutto assenti: nella top 100 riescono a entrare Eni (83esima), Unicredito Italiano (86esima) e Intesa Sanpaolo (92esima). Per tutte e tre si tratta di un passo avanti rispetto al ranking dello scorso anno.

C’è, insomma, anche un’Italia che in quanto a credibilità internazionale riesce a fare progressi. La classifica completa è consultabile su MSN Money.

Previsioni cicliche e strategie del “re dei bond”

PIMCO, il gruppo fondato e guidato da Bill Gross, “il re dei bond” (nella foto), ha aggiornato come fa all’inizio di ogni trimestre le sue previsioni sulla congiuntura e le linee guida della strategia d’investimento. La tesi di fondo è che l’economia americana riuscirà, almeno nel prossimo anno, a evitare la recessione grazie all’intervento della Federal Reserve e al complessivo stato di salute dell’economia mondiale.

I tassi a breve dovrebbero scendere sotto il 4% (dall’attuale 4,75%), consentendo un soft landing, e cioè un atterraggio morbido verso tassi di crescita del Pil modesti, attorno cioè all’1-2%, ma non negativi.

Il raffreddamento dell’economia Usa, frenata dalla crisi del mercato della casa e dall’irrigidimento delle politiche di credito da parte del sistema bancario, si trasferirà anche al resto del globo, senza risparmiare né le economie sviluppate dell’Europa e del Giappone né quelle emergenti dell’Asia e dell’America Latina, nel complesso ancora troppo dipendenti dalla domanda esterna per riuscire a ignorare gli sviluppi in America.

Tuttavia, la condizione di forza dei bilanci pubblici di molti paesi emergenti consentirà loro di fare ricorso a politiche fiscali più espansive in modo da ovviare al prevedibile indebolimento delle esportazioni.

Una generale moderazione dei tassi di crescita avrà benefici effetti sull’inflazione, contribuendo a tenere sotto controllo le pressioni generate dalla corsa dei prezzi delle materie prime.

“Soft landing with modest disinflation”, e cioè atterraggio morbido con modesta disinflazione, è dunque l’idea di fondo.

La strategia d’investimento

Da qui seguono le linee guida della strategia d’investimento, così riassumibili:

a) La discesa dei tassi controllati dalle banche centrali, negli Usa ma anche in Gran Bretagna, porterà a curve dei rendimenti più ripide (curve steepening), che PIMCO intende sfruttare puntando soprattutto sul previsto apprezzamento dei titoli a breve termine.

b) Il rapido e generalizzato allargamento dei credit spread, nel corso degli ultimi mesi, ha creato opportunità nel mercato dei corporate bond, che, per essere correttamente identificate, esigeranno però un’attenta analisi del merito di credito dei singoli titoli. PIMCO ritiene che, in modo selettivo, condizioni di sottovalutazione si siano manifestate nei settori finanziario e dell’auto.

c) Nel mercato delle valute, è prevedibile che il dollaro rimanga debole, per effetto delle politiche reflative che la Federal Reserve sarà costretta a seguire. A ciò farà da contrasto la continua forza di valute come il peso messicano, il rublo russo e il real brasiliano, sostenute da ottimi fondamentali economici e da bilance commerciali in forte avanzo.

d) La salute economica di paesi come Messico, Brasile e Russia, oltre che nella forza delle valute, si dovrebbe tradurre anche in ulteriori miglioramenti del rating del debito pubblico. PIMCO prevede di continuare a sovrappesare l’esposizione verso i titoli obbligazionari emessi da questi paesi in valuta locale: un modo per sommare al previsto apprezzamento delle valute quello derivante dal maggiore merito di credito.

e) La previsione di un’inflazione in moderata attenuazione renderà meno interessanti i titoli obbligazionari indicizzati, come i Tips americani, nei confronti dei quali PIMCO prevede di mantenere un’allocazione invariata, a livelli modesti: si tratta, in ogni caso, di un’utile hedge contro improvvise ed impreviste impennate nella dinamica dei prezzi.

Con circa 700 miliardi di dollari di asset in gestione, PIMCO è uno dei principali attori nel mercato globale del reddito fisso. Le sue sono dunque opinioni che pesano e che, anche quando non sono condivise, è saggio tenere in considerazione.

Il mercato delle idee: mutui, tassi e CDO

Nel mercato delle idee espongo idee altrui che trovo stimolanti. In vetrina, oggi, ci sono John Hussman che giudica sopravvalutati e ipercomprati i mercati azionari, Bill Gross che prevede il diffondersi delle insolvenze sui mutui con la Fed costretta a tagliare i tassi a breve ma gli spread in aumento, e poi Paul Kasriel al quale appare sempre più difficile che sia evitata una recessione negli Usa. Controcorrente resta l’opinione di Ken Fisher, che giudica il pessimismo dei media come uno dei migliori indicatori contrari.

Mercati azionari troppo rischiosi

John Hussman suona l’allarme, e non per la prima volta. Cosa caratterizza il mercato azionario di oggi (o quanto meno, il benchmark per eccellenza, e cioè l’S&P 500)? Il fatto di quotare a un multiplo del picco ciclico degli utili superiore a 18, di essere ai massimi dell’ultimo quadriennio, di trovarsi oltre l’8% sopra la media mobile esponenziale a 52 settimane, in un contesto di rendimenti obbligazionari in ascesa.

Ci sono stati altri momenti, negli ultimi 50 anni, in cui l’S&P 500 ha affrontato un’uguale costellazione di fattori?

Sì, è accaduto altre sette volte e con questi esiti: nel dicembre 1961, quando il mercato perse poi il 28% in 6 mesi; nel gennaio 1973, quando seguì un crollo del 48% in 20 mesi; nell’agosto 1987, quando la caduta fu del 34% in tre mesi; nel luglio 1998, quando l’indice scese del 18% in tre mesi; nel luglio 1999, quando la flessione fu del 12% in tre mesi; nel dicembre 1999, quando il calo fu del 9% in due mesi; e infine nel marzo 2000, quando, come molti ricorderanno, iniziò un bear market che portò l’S&P 500 a dimezzare il suo valore nell’arco di 30 mesi.

Osserva Hussman che a voler rendere il confronto più selettivo, si potrebbe aggiungere un indicatore di sentiment, e cioè il fatto che, al momento, meno del 20% dei consulenti d’investimento sondati da Investors’ Intelligence si dichiara bearish (pessimista). Con questo quinto elemento descrittivo, i precedenti si restringono al gennaio 1973 (-48%) e all’agosto 1987 (-34%).

Hussman mette in chiaro che la sua non è una previsione, ma una semplice constatazione: il mercato di oggi è così sopravvalutato e ipercomprato da offrire una combinazione di rischi e rendimenti attesi estremamente sfavorevole.

Crisi del mattone e contagio

Per qualche settimana il mercato ha temuto che le difficoltà dei due fondi di Bear Stearns, messi in ginocchio da scommesse sbagliate nell’opaco mondo dei CDO, dessero il via a un effetto domino tra altri hedge fund e i broker primari che prestano loro ingenti quantità di denaro. Poi un salvataggio da 3 miliardi di dollari messo rapidamente in atto da Bear Stearns ha calmato gli animi.

Ma Bill Gross si chiede se siano davvero questi i rischi da cui gli investitori si devono guardare. La sua risposta è che il vero contagio è in arrivo da un’altra direzione, e cioè dalla marea di mutui ipotecari, a tasso variabile e (sino a oggi) a condizioni di estremo favore, che in America saranno soggetti a revisione nei prossimi mesi.

Stima Bank of America che si tratta di 500 miliardi di dollari di mutui nel 2007 (con una revisione media al rialzo del tasso applicato stimata in 200 punti base) e di 700 miliardi nel 2008, di cui circa i tre quarti sono subprime, riguardano cioè debitori di bassa qualità.

La catena di eventi che si sta mettendo in moto, per Gross, è chiara: le insolvenze, che tra i mutui subprime sono già al 7% del totale, si moltiplicheranno; e la crisi si diffonderà ben oltre il mercato subprime.

I prezzi delle case scenderanno ancora. La disponibilità di credito diminuirà. Molti investitori in CDO che ora vantano rating di BBB o anche A si ritroveranno in mano dei pezzi di carta senza valore. E gli spread, anche nei mercati apparentemente meno correlati a quello americano, punteranno al rialzo mentre la liquidità eccessiva, di cui oggi tutti parlano, diventerà un ricordo.

E’ possibile che tutto questo prenda le forme di un semplice ritorno alla razionalità piuttosto che di una crisi globale. Ma Gross prevede che in ogni caso, per assicurarsi contro il montare dei rischi, la Federal Reserve comincerà nei prossimi sei mesi a tagliare i tassi a breve.

Esuberanza contenuta

Per Mark Hulbert, analista di lungo corso del sentiment del mercato (è dal 1980 che tiene sott’occhio le raccomandazioni di 160 newsletter finanziarie americane), gli umori non sono ancora quelli tipici di un top delle Borse.

L’ottimismo è tutt’altro che pervasivo, come rivela l’Hulbert Stock Newsletter Sentiment Index (HSNSI), un indicatore che condensa il sentiment di quegli autori di newsletter che praticano strategie di market timing di breve termine. L’HSNSI segnava 40,6% verso la fine della settimana scorsa, rispetto al 62,4% dei massimi di fine febbraio.

L’analisi contraria rivela dunque come manchi quell’“esuberanza irrazionale” che si manifesta tipicamente alla fine di un bull market. Le Borse, per Hulbert, possono ancora salire.

L’incoraggiante pessimismo dei media

Ken Fisher, che nel 2000 diventò bearish e dall’estate del 2002 tornò a essere bullish, resta molto ottimista sulle prospettive dei mercati azionari. E quali sono i motivi, che cita nel suo ultimo articolo per Forbes?

Intanto, il fatto che i media, a larga maggioranza, non hanno mai creduto al bull market iniziato quasi 5 anni fa e continuano a non crederci, ammonendo a ogni passo che gli utili record sono insostenibili e che il mercato, dall’alto dei nuovi massimi di questi giorni, è costoso. Finchè l’ultimo di questi “Orsi” non sarà diventato “Toro”, le Borse, per Fisher, continueranno a salire.

Quanto ai più fondamentali problemi valutativi, Fisher osserva che il mercato è molto meno costoso che nel 2000. I nuovi massimi recenti sono apparenti, dato che non tengono conto dell’inflazione. In termini reali l’S&P dovrebbe toccare quota 1800 prima di stabilire davvero un nuovo record. Inoltre, dal 2000, gli utili sono saliti del 57%. E per quanto i paventati rischi di insostenibilità possano anche essere fondati, non c’è segno che un’inversione del trend sia imminente.

Consumatori alle strette

Paul Kasriel di Northern Trust analizza la brusca decelerazione delle vendite al dettaglio negli Usa. In termini reali, il dato del secondo trimestre potrebbe segnare un calo del 4,9% annualizzato, dopo la crescita del 2,5% del primo trimestre.

Nel complesso, i consumi privati, nel trimestre da poco concluso, faticheranno a raggiungere un tasso di crescita dell’1%-1,5% rispetto all’ancora esuberante +4,2% del primo trimestre. Bisogna essere ciechi per non vedere che il collasso del mercato della casa sta “strangolando” le famiglie americane, sostiene Kasriel.

Né è sensato lasciarsi illudere dai segnali positivi che sono venuti di recente dai sondaggi sulla fiducia dei consumatori. Uno studio della Federal Reserve di Filadelfia ha infatti dimostrato che l’andamento del sentiment non ha alcuna valenza predittiva in relazione ai consumi.

Senza una riduzione dei tassi la recessione sarà difficile da scongiurare. E’ una conclusione a cui Kasriel si aspetta che arrivi anche la Federal Reserve, ma non prima dell’incontro del FOMCdel 31 ottobre, quando saranno diffuse anche le prime stime sul Pil del terzo trimestre. E quando potrebbe essere ormai troppo tardi per evitare il peggio.

Un sistema di disequilibrio instabile

Nouriel Roubini si interroga sulle prospettive del sistema di cambi semi-fissi, ancorati al dollaro, instaurato nell’ultimo decennio da molti paesi emergenti dell’Asia, e in parte responsabile per i crescenti squilibri delle bilance dei pagamenti a livello globale (il cosiddetto Bretton Woods 2, o BW2).

Gli Usa, la prima economia al mondo, ne sono diventati anche il maggiore debitore, con disavanzi che vengono sempre più finanziati dalle banche centrali asiatiche a tassi particolarmente bassi. Nel 2006 il deficit delle partite correnti americano ha toccato gli 811 miliardi di dollari, pari al 6,1% del PIL. E il dato è destinato a crescere nel 2007.

I paesi emergenti dell’Asia hanno tratto vantaggio dall’ancoraggio al dollaro debole perchè i tassi di cambio molto sottovalutati hanno consentito l’accumulo di ingenti riserve valutarie e il perseguimento di aggressive politiche di crescita economica e di industrializzazione basate sull’export.

Ma per Roubini BW2 si sta tramutando da un sistema di “disequilibrio stabile”, come molti l’hanno definito, a uno di pericoloso disequilibrio instabile. Già diversi paesi asiatici lo hanno abbandonato. E altri lo faranno, perchè i suoi limiti, in termini di surriscaldamento economico, rischi d’inflazione e bolle sui mercati finanziari, si stanno facendo sempre più evidenti.

 

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