l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

Archivi per il mese di “marzo, 2008”

La settimana enigmistica del Sole 24 Ore

Un mese e mezzo fa, con l’indice S&P 500 a 1350 punti, la rubrica Settimana finanziaria del Sole 24 Ore, a firma di Walter Riolfi, propose un’analisi della congiuntura economica e delle prospettive dei mercati azionari che attirò la mia attenzione. A ogni passo l’autore vedeva “spiragli di ottimismo”, al punto da abbandonarsi alla confessione che una recessione negli Usa era uno scenario che lo lasciava “poco convinto”. Per le Borse, secondo lui, “un buon recupero” era da mettere in conto.

Quell’articolo mi parve così lontano dalla realtà, così fondato su elementi di analisi parziali o distorti da indurmi a scrivere un post alquanto critico dal titolo Recessione, Borse e ottimismo al Sole 24 Ore.

Cinque settimane dopo, alla vigilia di Pasqua, mi sono di nuovo imbattuto nella rubrica di Riolfi. Continua a leggere…

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Asset allocation: perché conviene diversificare

La notizia che il miliardario britannico Joe Lewis (nella foto) avrebbe perso oltre un miliardo di dollari in seguito al tracollo della banca d’investimenti Bear Stearns impartisce una lezione non nuova ma sempre utile sui rischi della speculazione finanziaria e delle scommesse concentrate.

Lewis, oltre che proprietario della squadra di calcio londinese del Tottenham, era fino a qualche giorno fa, secondo la rivista Forbes, il 369esimo individuo più ricco del mondo, con un patrimonio stimato di 2,5 miliardi di dollari – accumulati in gran parte grazie ad audaci puntate sui mercati valutari. Continua a leggere…

Petrolio, materie prime: analisi del bull market II

Nella prima parte di questa analisi abbiamo visto come il petrolio sia entrato, quasi di soppiatto nel 1999 e più tumultuosamente dal 2004, in un bull market paragonabile a quello degli anni ’70. L’ascesa delle quotazioni dai 10 dollari a barile di un decennio fa agli oltre 110 dollari di questi giorni (un nuovo massimo superiore, in termini reali, al precedente picco storico dell’aprile 1980) è solo in parte, come ho mostrato, un riflesso della crisi del dollaro. Ci sono, dunque, motivi più fondamentali. Quali? Continua a leggere…

Investire e speculare, qual è la differenza?

La differenza tra investire e speculare risulta in genere alquanto confusa. Ma chi riesce in qualche modo a elaborarla tende ad associarla al concetto di rischio. L’investitore sarebbe così un tipo razionale che presta attenzione a minimizzare le perdite, lo speculatore un tipo avventuroso e spesso spregiudicato che non si cura dei rischi pur di inseguire la prospettiva di grandi arricchimenti. Espressa in questi termini, la distinzione mantiene quella certa vaghezza che possono avere le definizioni di un dizionario della lingua italiana. Sarà utile cercare di andare più a fondo. Continua a leggere…

I fondi comuni e i rating che irretiscono

Sono andato a rileggere il mio post Classifiche dei fondi: come evitare le trappole, del luglio scorso. Penso che anche per i miei lettori potrebbe essere interessante fare altrettanto. In quell’analisi prendevo di mira un servizio pubblicato con grande evidenza su CorrierEconomia all’avvio del secondo semestre del 2007. L’inserto del Corriere della Sera aveva elaborato, sulla base di criteri che venivano presentati come particolarmente affidabili, una classifica dei “magnifici 20”: i 20 fondi azionari italianipiù brillanti e costanti negli ultimi 5 anni.” A cinque tra i migliori gestori, enfaticamente introdotti come “i campioni”, il giornale aveva poi chiesto di esprimere delle previsioni su cosa avrebbe fatto il mercato italiano nella seconda metà dell’anno e quale sarebbe stato il titolo migliore su cui puntare.

I cinque intervistati – Giordano Beani, direttore investimenti di BNL, Alessandro Pacchiani, gestore di Oyster italian value, Fausto Artoni, gestore di Azimut trend Italia, Luca Mori, gestore di Capitalia small cap Italy, e Francesco Agnès, gestore di Fondersel Pmi – non si erano sottratti alla sfida.

A livello di mercato, dopo la correzione iniziata a metà maggio, i “campioni” avevano espresso un giudizio sostanzialmente unanime che le cose sarebbero andate un po’ meglio nella seconda parte dell’anno. Le previsioni per il Mibtel erano raccolte in un fazzoletto, tra il +3% di Beani e il +8% di Mori.

A livello di titoli, ogni gestore aveva espresso invece una preferenza diversa. La rosa comprendeva Eni, Generali, Autogrill, Mediaset e Danieli.

Nel mio articolo, mi ero sforzato – per diversi buoni motivi e nell’interesse dei miei lettori – di demolire quel servizio da cima a fondo.

La classifica dei fondi, argomentavo, era “inutile, anzi dannosa.”

Tendeva a selezionare, com’è il caso per i ranking basati su performance di breve o medio periodo, “i “campioni” del passato quando sono a fine corsa e si accingono a diventare – non tanto per demerito dei singoli gestori quanto per la specializzazione dei fondi e le rotazioni settoriali del mercato – i “brocchi” del prossimo futuro.”

Le previsioni degli esperti, aggiungevo, erano inaffidabili più o meno al pari di quelle di ciascuno di noi.

Ricordavo il giudizio di Warren Buffett, che in una delle sue lettere agli azionisti di Berkshire Hathaway, descrisse l’ossessione per le previsioni come una “costosa distrazione per molti investitori e uomini d’affari.”

E citavo una formidabile e lapidaria massima cinese, di Lao Tzu: “Quelli che hanno la conoscenza non fanno previsioni. Quelli che fanno previsioni non hanno la conoscenza.”

Infine, mettevo in guardia dall’”asfittico consenso” espresso dai 5 money manager in relazione alla prevista evoluzione delle Borse. Così come risultava anche da un analogo sondaggio pubblicato dalla rivista americana Barron’s in quegli stessi giorni, i punti di vista erano quasi tutti molto simili.

Ecco cosa scrivevo:

“Non c’è unanimità di vedute, ma c’è meno diversità di quanto non sia normale riscontrare. Vuol dire che ci si può fidare? No, al contrario.

I mercati finanziari operano come efficienti macchine di sconto quando riflettono le fisiologiche diversità di opinioni della moltitudine degli investitori.Quando le opinioni cominciano a cristallizzarsi in un consenso sempre più ristretto (come accadde ad esempio tra il 1999 e l’inizio del 2000) è segno che bisogna stare in guardia.

Punti di vista sempre più omogenei sono un segnale di inefficienza, che precede traumatici aggiustamenti (al rialzo come al ribasso). Insomma, quando tutti prevedono le stesse cose – che proprio perché sono previste sono anche già scontate dal mercato – vuol dire che sta per accadere l’inaspettato.”

Ora che ho riassunto il mio post di luglio, è il momento di riepilogare i risultati della verifica che sono andato a fare. Quanto erano fondate le mie critiche?

Il valore del consenso

Sul valore del “consenso”, mi pare che avevo ragione. A posteriori, sappiamo ora che l’estate dello scorso anno è stato un punto di svolta per i mercati azionari. Il “traumatico aggiustamento” che paventavo, stava proprio allora prendendo avvio, al ribasso.

I dissesti del mercato della casa e dei mercati del credito americani (e non solo), che allora la stragrande maggioranza degli investitori tendeva a ignorare o quanto meno a sottovalutare, hanno fatto infine irruzione nella coscienza collettiva, mandando a picco le Borse.

Il valore delle previsioni

Sul valore delle previsioni dei cinque “campioni” del Corriere della Sera, i conti sono presto fatti.

L’indice Mibtel, rispetto a una forchetta di previsioni che andava da +3% a +8%, e a una stima media di +6,2%, ha fatto segnare, nel secondo semestre dello scorso anno, un calo del 10,6%. L’errore, in appena sei mesi, è stato dunque del 16,8%!

Naturalmente, ai nostri esperti sarebbe potuta andare molto peggio, considerato che la flessione dei listini si è accentuata dai primi giorni di quest’anno.

Quanto ai cinque “titoli migliori”, raccomandati per il secondo semestre del 2007, la performance media è stata del -8,0% – un po’ meglio dell’indice Mibtel, dunque.

Ma a fare il confronto con l’indice S&P/Mib, tenuto conto che in quattro casi su cinque le azioni raccomandate erano delle large cap, anche quel risicato vantaggio viene meno.

L’S&P/Mib, nel secondo semestre dello scorso anno, ha messo infatti a segno un -8,1%, un risultato quasi perfettamente in linea con la media dei 5 migliori titoli dei nostri money manager. Insomma, un esito sconsolante, non diverso da quello che si sarebbe potuto ottenere scegliendo i titoli a caso.

Il valore dei rating e delle classifiche

E la classifica dei fondi? Ha retto, almeno quella, alla prova? Niente affatto.

Una volta mutato il clima di mercato, si sono manifestati dei trend interessanti, che sembrano confermare – almeno per ora – quel fenomeno di “regressione verso la media” di cui parlavo nel post di luglio.

Ho ricavato i miei dati dal sito pubblico di Morningstar, che – se non erro – non consente di fare confronti a partire da un giorno scelto a piacere. Si possono però rapidamente verificare le performance a 6 o a 12 mesi. I risultati, nella sostanza, non cambiano.

Vediamo allora cosa è accaduto negli ultimi 12 mesi (il confronto più lusinghiero, dato che incorpora ancora qualche scampolo del bull market, in cui, come spiegavo a luglio, i nostri “campioni”, gonfi di small cap e titoli value, correvano più degli indici): 4 dei 5 fondi hanno sottoperformato l’indice di mercato, 3 su 5 hanno fatto peggio anche dell’indice di categoria (i fondi azionari italiani).

Nel dettaglio:

Oyster Italian Value di Alessandro Pacchiani: -22,7% (peggio della media dei fondi, peggio del mercato);
Capitalia Small Cap Italy di Luca Mori: -19,8% (peggio della media dei fondi, peggio del mercato);
BNL Azioni Italia Pmi di Giordano Beani (in qualità di direttore investimenti, il gestore è Antonio Cavallo): -19,7% (peggio della media dei fondi, peggio del mercato);
Fondersel Pmi di Francesco Agnes: -17,4% (un po’ meglio della media dei fondi, un po’ peggio del mercato);
Azimut Trend Italia di Fausto Artoni: -10,7% (meglio della media dei fondi, meglio del mercato).

La media dei 5 “campioni” dà, negli ultimi 12 mesi, un risultato del -18,1% rispetto al -15,9% del benchmark, l’indice MSCI Italy.

Negli ultimi 6 mesi – tutti racchiusi nel bear market, e dunque nel mutato clima di mercato – la performance relativa peggiora.

Tre fondi – Oyster Italian Value, Capitalia Small Cap Italy e BNL Azioni Italia Pmi – soffrono una vera debacle, cumulando una sottoperformance nei confronti del mercato del 15,5% il primo, dell’8,3% il secondo, e del 5,1% il terzo.

Fondersel Pmi si barcamena, con un -1,6% rispetto al benchmark. Mentre Azimut Trend Italia si conferma al top, con un +1,8% rispetto al MSCI Italy (anche se, in termini assoluti, la performance a 6 mesi resta un pesante -16,5%).

La performance media a 6 mesi, per i 5 fondi, dà un calo del 24,1%, ben 5,7 punti peggio del benchmark!

Stelle cadenti e rating che irretiscono

Se a luglio scorso, i “campioni” di CorrierEconomia erano tutti fondi che Morningstar classificava al top del ranking, con quattro o cinque stelle di merito, oggi la situazione è radicalmente cambiata: Oyster Italian Value e Capitalia Small Cap Italy si vedono assegnate solo due stelle, BNL Azioni Italia Pmi ne ha tre, Fondersel Pmi ne ha quattro, e solo Azimut Trend Italia è rimasto ai vertici, con le sue cinque stelle.

Non so come andranno le cose in futuro. E’ possibile (ma improbabile) che, da veri “campioni”, tutti i nostri 5 fondi si sappiano riscattare.

Ma per ora i dati ci dicono che quanto avevo scritto a luglio, basandomi su studi condotti nell’arco di decenni da grandi analisti come David Dreman o Richard Bernstein, resta confermato. Cambia il ciclo di mercato, mutano i trend, e i “campioni” del recente passato diventano, nella media, i “brocchi” del prossimo futuro.

Certamente, i lettori che lo scorso luglio fossero stati indotti dall’articolo di CorrierEconomia a puntare su quei fondi che il giornale aveva così superficialmente esaltati, avrebbero oggi molte ragioni per recriminare.

In tre casi su cinque la loro scelta d’investimento sarebbe risultata, a oggi, fortemente penalizzante – sia in termini assoluti che in relazione all’indice di riferimento.

Un’eccezione, già lo scorso luglio, io l’avevo fatta, scrivendo che – tra i 5 – l’unico che performava meglio del mercato pur non essendo uno specialista delle small cap (lo stile più in voga negli anni del bull market) era Azimut Trend Italia di Fausto Artoni.

Lo stesso fondo è l’unico, tra i 5, che nel bear market si è dimostrato sinora di nuovo capace di battere gli indici. Non conosco Artoni, non ho analizzato la sua performance di più lungo corso, ma ci sono motivi per pensare che, nel mucchio delle ingiustificate raccomandazioni fatte da CorrierEconomia, la sua meriti invece di essere tenuta in considerazione.

Per il resto, penso di aver dimostrato che – di quell’articolo del Corriere della Sera che avevo preso di mira perchè così tipico e comune nel suo genere e così sbagliato nella sua concezione – era giusto rifiutare tutto o quasi.

Non avevano senso le classifiche, non avevano senso le previsioni. Solo il consenso era meritevole di attenzione: ma come indicatore contrario.

Petrolio e materie prime: analisi del bull market

A tre decenni dalla crisi degli anni ’70, ci troviamo di nuovo a parlare, con quotidiano allarme, delle quotazioni del petrolio. Il superamento della soglia dei 100 dollari a barile ha creato comprensibile ansia. Quando finirà la corsa al rialzo? C’è il rischio che causi una recessione? Potrebbe riaccendere l’inflazione? E se le quotazioni non smettono di salire, vuol forse dire che il petrolio comincia a esaurirsi prima che siamo in grado di sostituirlo con un’altra fonte energetica? Infine, se come consumatori l’alternativa al pagare conti salati è per ora solo quella dell’”austerità”, come investitori c’è ancora spazio per fare profitti, con questo impetuoso bull market del petrolio e delle materie prime in generale?

Per non appesantire il discorso, prenderò in esame queste e altre questioni in una serie di post. Cercherò prima di sgombrare il campo da un paio di problemi introduttivi. Poi analizzerò le cose dal punto di vista economico. Infine, indosserò i panni dell’investitore.

Uno sguardo di lungo periodo

Se ci si vuole chiarire un po’ le idee, conviene fare un passo indietro rispetto alla cronaca concitata dell’attualità e partire da qualche grafico che illustri l’andamento del greggio nel lungo periodo.

Il primo, qui sotto, tratto da Moore Research Center, è un grafico mensile delle quotazioni in dollari del greggio di riferimento americano (il West Texas Intermediate o WTI) negli ultimi 25 anni.


Si vede come per quasi un quindicennio, se si esclude l’improvvisa impennata dell’estate 1990, conseguente all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, il prezzo abbia ristagnato in una forchetta tra 10 e 25 dollari al barile.

Poi, dal 1999, ha preso avvio l’attuale bull market. Prima un po’ in sordina, e poi con sempre maggiore intensità, tanto da far assumere al grafico un caratteristico profilo iperbolico. E’ stata rotta la soglia dei 40 dollari, nel 2004, poi quella dei 75 dollari, lo scorso autunno, e ora – parrebbe – anche quella dei 100 dollari.

Naturalmente, un grafico di lungo periodo può essere d’aiuto a impostare un’analisi se si evitano alcune illusioni ottiche. La prima riguarda l’impatto dell’inflazione.

Come si fa a capire fino a che punto le variazioni nel prezzo del greggio hanno a che fare con fattori propri di quel mercato (primo tra tutti il variare della domanda e dell’offerta) o riflettono invece la dinamica del livello generale dei prezzi? Bisogna depurare i prezzi del petrolio dagli effetti dell’inflazione, ricavandone così le sue quotazioni reali.

E’, ad esempio, quello che ha fatto Paul Krugman in questo grafico apparso qualche giorno fa sul suo blog, The Conscience of a Liberal:


Assumendo come base il prezzo in dollari del febbraio 2008, si nota come il greggio ha avuto, nel dopoguerra, due lunghe fasi di quotazioni basse e relativamente stabili – la prima fino al 1973, la seconda dal 1986 al 1999 – e due fasi di esplosivi rialzi – dalla prima crisi energetica del 1973 fino al picco storico dell’aprile 1980, e a partire dall’inizio di questo decennio fino a oggi.

In termini reali, i prezzi sono ormai tornati ai massimi di 28 anni fa.

Il secondo effetto distorsivo di cui bisogna tenere conto è la valuta. Il petrolio è quotato in dollari. E la moneta Usa, dal 2002, è entrata in un trend ribassista che le ha fatto toccare di recente, nei confronti delle altre principali monete, dei nuovi minimi.

Per capire quanta parte del rialzo delle quotazioni del greggio è conseguenza della debolezza del dollaro bisogna convertire il prezzo in altre valute, a partire dall’euro – la vera moneta forte degli ultimi anni.

E’ quanto ha fatto, ad esempio, la Federal Reserve di Dallas nella sua analisi del mercato dell’energia del trimestre scorso.


Fissando uguale a 100 il prezzo del barile di WTI nel gennaio 2002, il grafico mostra come da allora fino al terzo trimestre del 2007 la quotazione in dollari sia più che quadruplicata, mentre quella in euro è aumentata, più o meno, di due volte e mezza.

In una certa misura, l’apprezzamento del greggio è dunque un riflesso del deprezzamento del dollaro. Ma sotto c’è ben altro, perché il rally dell’oro nero risulta confermato anche se le sue quotazioni vengono espresse, anziché in dollari, in una valuta “forte”.

Cause del rally e prospettive

Nel prossimo post prenderò in esame alcune delle cause più evidenti della continua corsa del petrolio, che sono in parte di mercato (speculative), in parte geopolitiche, in parte legate a squilibri per lo più di breve periodo (l’andamento delle scorte), ma in ultima istanza fondate sulle tensioni di medio-lungo periodo generate da una domanda in crescita cui non è corrisposto, negli ultimi anni, un pari aumento della capacità produttiva (come già scrivevo a ottobre nel post Perché il prezzo del petrolio sale?).

Finirò per chiedermi se i problemi dal lato dell’offerta siano il frutto di un lungo periodo di inadeguati investimenti, o di una mutata strategia da parte dei paesi produttori, o costituiscano invece un più lugubre segnale d’allarme sul fatto che l’età del petrolio inizia a volgere al termine prima che l’umanità abbia trovato delle valide alternative energetiche.

Vedremo quali indicazioni se ne possono trarre per il futuro a medio termine. Da qui passerò poi a trattare le prospettive del mercato del petrolio e delle materie prime più in generale dal punto di vista dell’investitore.

Due caratteristiche, in particolare, dovrebbero risultare di notevole interesse:

a) le materie prime tendono a performare bene quando i mercati azionari vanno male e le economie entrano in recessione (sono dunque un asset che consente di migliorare il grado di diversificazione dei portafogli);

b) le materie prime tendono a seguire andamenti strettamente correlati tra loro e a tracciare cicli molto lunghi: nell’ultimo secolo ci sono stati altri tre bull market (1906-1923, 1933-1953, 1968-1982), la cui durata media è stata di 17 anni.

Se il passato si ripeterà (un se su cui è sempre raccomandabile nutrire dubbi), l’attuale bull market potrebbe insomma essere appena a metà del suo corso.

Al prossimo post, dunque.

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