l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

Archivio per la categoria “oro e materie prime”

La Federal Reserve aggredisce la crisi

La Federal Reserve ha annunciato mercoledì scorso l’avvio di un programma di acquisto di 750 miliardi di dollari di titoli garantiti da prestiti ipotecari (mortgage-backed securities o MBS), 100 miliardi di altri titoli detenuti dalle agenzie federali e 300 miliardi di titoli del Tesoro. Nel complesso, si tratta di 1.150 miliardi di dollari che, dalla prossima settimana, verranno iniettati nel sistema americano allo scopo di abbassare tutta la struttura dei tassi, stimolare il credito – soprattutto nel settore immobiliare – e ridare fiato all’economia.

Si tratta di quantitative easing in proporzioni massicce: Continua a leggere…

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L’altalena dei prezzi delle materie prime

Mi è capitato di leggere, sul blog CalculatedRisk, che l’analista di Goldman Sachs Arjun Murti ha tagliato la sua previsione per il prezzo medio del petrolio nel 2009 a 45 dollari al barile – in linea, in pratica, con le quotazioni attuali. Per Murti la domanda di petrolio continuerà a deteriorarsi a causa delle condizioni economiche globali, che sono “le più deboli a partire, per lo meno, dai primi anni ’80.” Il crollo della domanda è tale che l’Opec, da sola, faticherà a riportare il mercato in equilibrio. Una stabilizzazione dei prezzi, a giudizio dell’analista, richiederà robusti tagli dell’offerta anche da parte dei produttori non-Opec.

CalculatedRisk aggiunge un’interessante osservazione. Per alcuni tra i maggiori produttori dell’Opec – quelli riuniti nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gulf Cooperation Council) – ridurre la produzione non è facile. Si stima infatti che, dopo aver fatto lievitare la spesa pubblica negli ultimi anni – al fine di finanziare, tra l’altro, investimenti in infrastrutture, welfare e sistemi pensionistici – quei paesi abbiano bisogno di un prezzo del greggio di 50 dollari al barile per raggiungere il pareggio di bilancio. Con le quotazioni scese fin quasi a 40 dollari, l’alternativa è o di aumentare la produzione (facendo crollare ancora di più il prezzo), o di accumulare debito pubblico, o di tagliare impegni di spesa già presi. Si tratta, in ogni caso, di opzioni dolorose. E’ normale che sia forte la tentazione di percorrere un’abituale scorciatoia:  vincolarsi  pubblicamente – in seno all’Opec – a limitare l’offerta e a rispettare il sistema di quote, solo per fare – una volta a casa – l’esatto contrario.

Ci sono dunque buone ragioni per pensare che, nell’immediato, i prezzi del greggio – come quelli di tutte le materie prime – rimangano sotto pressione (vedi grafico sotto, a cura di CalculatedRisk).

Il cambio di scenario, in meno di un semestre, è stato sconvolgente. Rispetto ai massimi di inizio luglio, le quotazioni del greggio hanno perso il 72%, crollando da 145 dollari a meno di 41. L’indice CRB, calcolato in base ai prezzi di un paniere di 19 commodities, è sceso da un massimo storico di 474 a 209 – una caduta del 56%.

A ripensarci, fa sorridere tutto lo scompiglio che, sempre sei mesi fa, poco prima che il mercato invertisse rotta, creò un’altra previsione di Murti, il quale stimava allora probabile un’ascesa del greggio verso i 150-200 dollari a barile “entro 6-24 mesi.”

In quei giorni scrissi un’analisi del mercato delle materie prime, intitolata Materie prime, il bull market si ferma in Cina?, che penso sia interessante rileggere alla luce dei turbinosi sviluppi degli ultimi sei mesi. In essa analizzavo gli squilibri fondamentali tra domanda e offerta, che stavano alla base del bull market iniziato nel febbraio del 1999 (quando l’indice CRB toccò un minimo di 118). Paventavo anche una possibile, imminente, inversione di rotta, esprimendomi così:

“[…] La crescita economica è il fattore che più di ogni altro concorre a determinare la domanda di greggio. Dopo un lungo periodo di forte espansione dell’economia mondiale, il 2008 si presenta come un anno gravido di incertezze. Gli Usa sono sull’orlo della recessione, l’Europa è in rapido rallentamento e persino dalla Cina […] vengono segni di raffreddamento.”

“[…] Nessun bull market procede ininterrotto, senza pause e temporanee inversioni del trend. L’occasione per un simile movimento in controtendenza comincia forse a stagliarsi all’orizzonte. Trae origine dallo scoppio della bolla immobiliare americana, che sta imponendo i suoi costi in termini di minore crescita a tutto il pianeta. Ma va maturando in Cina. […] E’ ovvio che un repentino rallentamento del gigante asiatico scuoterebbe dalle fondamenta i mercati delle commodities. I rischi che questo accada nei prossimi trimestri, come non è mai accaduto nell’ultimo decennio, non sono affatto trascurabili. […] L’insistenza con cui di recente le autorità cinesi hanno cercato di escludere qualsiasi rischio di hard landing per l’economia non fa che aumentare i sospetti. Le Olimpiadi di Pechino sono ormai imminenti ed è ovvio che tutte le leve del governo siano tese ad assicurare che all’appuntamento si presenti un paese in grande spolvero. Subito al di là della scadenza olimpica si profila però all’orizzonte uno scenario alquanto denso di nubi – per la Cina e per il mercato delle commodities.”

Nelle mie conclusioni, sposavo però la tesi che – in un orizzonte di più lungo periodo, guardando al di là del probabile, imminente rallentamento ciclico – il bull market secolare, iniziato nel 1999, non era da considerare defunto.

Citavo, a questo proposito, un grande investitore, Jim Rogers (ex partner di George Soros), che prima di ogni altro aveva preconizzato, sul finire della scorsa decade, l’avvento di un’era di grandi rialzi dei prezzi delle materie prime, divulgando poi questa sua visione in un libro di successo, Hot Commodities.

“Come scriveva nel 2004 Jim Rogers […] i bull market delle materie prime sono caratterizzati da grandi rally e grandi cadute. Nel mercato Toro del 1968-1982, ad esempio, l’indice CRB a un certo punto crollò del 53% prima di riprendere l’ultima fase della sua ascesa.”

Negli ultimi sei mesi, come ho già accennato, la caduta è stata del 56%. Per quanto straordinaria ci sia parsa, è da notare il fatto che esiste almeno un precedente, per niente remoto, di un simile collasso che si rivelò essere solo una correzione nel corso di un bull market di più lungo periodo e di ben più vaste dimensioni.

Nel mio post, riferivo anche di come Rogers consigliasse di tenere lo sguardo fisso sulla Cina, diventata in questi anni il consumatore più importante – decisivo ai fini della formazione dei prezzi – in molti mercati delle materie prime. Citavo il seguente passaggio del suo libro:

“Voglio essere chiaro: quando la Cina farà uno starnuto il resto del mondo correrà a caccia di aspirine. I prezzi delle materie prime, in particolare, cadranno e un sacco di investitori si faranno prendere dal panico. Voi e io, tuttavia, a quel punto compreremo altre materie prime: domanda e offerta hanno cospirato nel creare un bull market di dimensioni secolari, e ciò significa che i prezzi dovrebbero continuare a salire almeno fino al 2015…quel miliardo e trecento milioni di cinesi non sono certo in procinto di scomparire.”

Chiudevo il post col seguente commento: “Sulla data del 2015 non farò scommesse. Ma lo scenario tratteggiato quattro anni fa da Rogers continua a meritare la massima considerazione.”

Sei mesi dopo, non ho cambiato parere. Nonostante la gravità della crisi congiunturale, nonostante l’evidenza che il 2009 sarà – in buona parte – un anno di recessione globale, continuo a pensare, con Rogers, che “quel miliardo e trecento milioni di cinesi non sono certo in procinto di scomparire.” Né sono sul punto di svanire i rimanenti cinque miliardi e mezzo di voraci creature umane, tutte vogliose di benessere e crescita.

Penso che le forze della reflazione – tassi d’interesse spinti a zero, come ha appena fatto la Federal Reserve, e manovre fiscali espansive, già abbozzate, per un importo pari almeno a un punto e mezzo di PIL mondiale – alla fine avranno la meglio su quelle della deflazione. Se necessario, tra deflazione e inflazione, i governi sceglieranno quest’ultima. Hanno una semplice arma con cui prevalere: creare, a volontà, tutto il denaro che serve.

Una volta usciti dalle strettoie di questa crisi, si riaffacceranno i trend di più lungo periodo e di ben più vasta portata che l’umanità sta cavalcando in questo avvio di XXI secolo. In particolare, l’industrializzazione di un enorme continente ancora in gran parte povero come l’Asia, il crescente e insostenibile depauperamento di risorse naturali non rinnovabili, l’indifferibile necessità di transitare verso una civiltà ecosostenibile e un’economia post-materialistica, in cui l’esigenza di consumare “cose” dovrà diventare sempre meno prevalente rispetto allo scambio di beni sociali e immateriali.

Non so quanto durerà questa complicata transizione. Né so se avrà successo, anche se – com’è ovvio – me lo auguro con tutto il cuore. Immagino, però, che della sua urgenza – nei prossimi anni – torneranno a parlarci, col loro persuasivo linguaggio, i prezzi delle materie prime. In un modo: salendo.

Materie prime, il bull market si ferma in Cina?

Sono convinto, come insegna Warren Buffett, che i mercati finanziari non sono davvero prevedibili anche se, come vedremo ora a proposito delle materie prime, ci sono nessi che non sono casuali e la cui comprensione può essere d’aiuto a un investitore. Chi pensa però di poter formulare puntuali predizioni o è un ingenuo o è un imbonitore. Quando leggo, come mi è capitato in questi giorni, che Morgan Stanley vede il petrolio a 150 dollari al barile o che l’analista Arjun Murti di Goldman Sachs ne stima probabile l’ascesa a 150-200 dollari in un arco di tempo tra 6 e 24 mesi, la mia reazione è un sorriso.

Le materie prime sono l’unico mercato che continua a dare soddisfazioni alle banche d’investimento. Si capisce che non vogliano essere loro a spegnere l’incendio della speculazione. Continua a leggere…

Rendimenti finanziari, le lezioni della storia

Affrontare i mercati finanziari senza avere un’idea dei rendimenti che possono offrire è un po’ come navigare senza avere con sé le carte nautiche, con la differenza che il secondo comportamento è punito dalla legge mentre il primo non lo è. L’investitore, dunque, se vuole evitare naufragi, non può fare affidamento su vincoli esterni ma solo su se stesso. Sembra facile e invece si tratta di uno scoglio in più che per molti risulta arduo superare. Continua a leggere…

Petrolio, materie prime: analisi del bull market II

Nella prima parte di questa analisi abbiamo visto come il petrolio sia entrato, quasi di soppiatto nel 1999 e più tumultuosamente dal 2004, in un bull market paragonabile a quello degli anni ’70. L’ascesa delle quotazioni dai 10 dollari a barile di un decennio fa agli oltre 110 dollari di questi giorni (un nuovo massimo superiore, in termini reali, al precedente picco storico dell’aprile 1980) è solo in parte, come ho mostrato, un riflesso della crisi del dollaro. Ci sono, dunque, motivi più fondamentali. Quali? Continua a leggere…

Petrolio e materie prime: analisi del bull market

A tre decenni dalla crisi degli anni ’70, ci troviamo di nuovo a parlare, con quotidiano allarme, delle quotazioni del petrolio. Il superamento della soglia dei 100 dollari a barile ha creato comprensibile ansia. Quando finirà la corsa al rialzo? C’è il rischio che causi una recessione? Potrebbe riaccendere l’inflazione? E se le quotazioni non smettono di salire, vuol forse dire che il petrolio comincia a esaurirsi prima che siamo in grado di sostituirlo con un’altra fonte energetica? Infine, se come consumatori l’alternativa al pagare conti salati è per ora solo quella dell’”austerità”, come investitori c’è ancora spazio per fare profitti, con questo impetuoso bull market del petrolio e delle materie prime in generale?

Per non appesantire il discorso, prenderò in esame queste e altre questioni in una serie di post. Cercherò prima di sgombrare il campo da un paio di problemi introduttivi. Poi analizzerò le cose dal punto di vista economico. Infine, indosserò i panni dell’investitore.

Uno sguardo di lungo periodo

Se ci si vuole chiarire un po’ le idee, conviene fare un passo indietro rispetto alla cronaca concitata dell’attualità e partire da qualche grafico che illustri l’andamento del greggio nel lungo periodo.

Il primo, qui sotto, tratto da Moore Research Center, è un grafico mensile delle quotazioni in dollari del greggio di riferimento americano (il West Texas Intermediate o WTI) negli ultimi 25 anni.


Si vede come per quasi un quindicennio, se si esclude l’improvvisa impennata dell’estate 1990, conseguente all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, il prezzo abbia ristagnato in una forchetta tra 10 e 25 dollari al barile.

Poi, dal 1999, ha preso avvio l’attuale bull market. Prima un po’ in sordina, e poi con sempre maggiore intensità, tanto da far assumere al grafico un caratteristico profilo iperbolico. E’ stata rotta la soglia dei 40 dollari, nel 2004, poi quella dei 75 dollari, lo scorso autunno, e ora – parrebbe – anche quella dei 100 dollari.

Naturalmente, un grafico di lungo periodo può essere d’aiuto a impostare un’analisi se si evitano alcune illusioni ottiche. La prima riguarda l’impatto dell’inflazione.

Come si fa a capire fino a che punto le variazioni nel prezzo del greggio hanno a che fare con fattori propri di quel mercato (primo tra tutti il variare della domanda e dell’offerta) o riflettono invece la dinamica del livello generale dei prezzi? Bisogna depurare i prezzi del petrolio dagli effetti dell’inflazione, ricavandone così le sue quotazioni reali.

E’, ad esempio, quello che ha fatto Paul Krugman in questo grafico apparso qualche giorno fa sul suo blog, The Conscience of a Liberal:


Assumendo come base il prezzo in dollari del febbraio 2008, si nota come il greggio ha avuto, nel dopoguerra, due lunghe fasi di quotazioni basse e relativamente stabili – la prima fino al 1973, la seconda dal 1986 al 1999 – e due fasi di esplosivi rialzi – dalla prima crisi energetica del 1973 fino al picco storico dell’aprile 1980, e a partire dall’inizio di questo decennio fino a oggi.

In termini reali, i prezzi sono ormai tornati ai massimi di 28 anni fa.

Il secondo effetto distorsivo di cui bisogna tenere conto è la valuta. Il petrolio è quotato in dollari. E la moneta Usa, dal 2002, è entrata in un trend ribassista che le ha fatto toccare di recente, nei confronti delle altre principali monete, dei nuovi minimi.

Per capire quanta parte del rialzo delle quotazioni del greggio è conseguenza della debolezza del dollaro bisogna convertire il prezzo in altre valute, a partire dall’euro – la vera moneta forte degli ultimi anni.

E’ quanto ha fatto, ad esempio, la Federal Reserve di Dallas nella sua analisi del mercato dell’energia del trimestre scorso.


Fissando uguale a 100 il prezzo del barile di WTI nel gennaio 2002, il grafico mostra come da allora fino al terzo trimestre del 2007 la quotazione in dollari sia più che quadruplicata, mentre quella in euro è aumentata, più o meno, di due volte e mezza.

In una certa misura, l’apprezzamento del greggio è dunque un riflesso del deprezzamento del dollaro. Ma sotto c’è ben altro, perché il rally dell’oro nero risulta confermato anche se le sue quotazioni vengono espresse, anziché in dollari, in una valuta “forte”.

Cause del rally e prospettive

Nel prossimo post prenderò in esame alcune delle cause più evidenti della continua corsa del petrolio, che sono in parte di mercato (speculative), in parte geopolitiche, in parte legate a squilibri per lo più di breve periodo (l’andamento delle scorte), ma in ultima istanza fondate sulle tensioni di medio-lungo periodo generate da una domanda in crescita cui non è corrisposto, negli ultimi anni, un pari aumento della capacità produttiva (come già scrivevo a ottobre nel post Perché il prezzo del petrolio sale?).

Finirò per chiedermi se i problemi dal lato dell’offerta siano il frutto di un lungo periodo di inadeguati investimenti, o di una mutata strategia da parte dei paesi produttori, o costituiscano invece un più lugubre segnale d’allarme sul fatto che l’età del petrolio inizia a volgere al termine prima che l’umanità abbia trovato delle valide alternative energetiche.

Vedremo quali indicazioni se ne possono trarre per il futuro a medio termine. Da qui passerò poi a trattare le prospettive del mercato del petrolio e delle materie prime più in generale dal punto di vista dell’investitore.

Due caratteristiche, in particolare, dovrebbero risultare di notevole interesse:

a) le materie prime tendono a performare bene quando i mercati azionari vanno male e le economie entrano in recessione (sono dunque un asset che consente di migliorare il grado di diversificazione dei portafogli);

b) le materie prime tendono a seguire andamenti strettamente correlati tra loro e a tracciare cicli molto lunghi: nell’ultimo secolo ci sono stati altri tre bull market (1906-1923, 1933-1953, 1968-1982), la cui durata media è stata di 17 anni.

Se il passato si ripeterà (un se su cui è sempre raccomandabile nutrire dubbi), l’attuale bull market potrebbe insomma essere appena a metà del suo corso.

Al prossimo post, dunque.

Perché il prezzo del petrolio sale?

Il petrolio ha di recente superato la soglia dei 90 dollari a barile e il traguardo dei 100 dollari è ormai in vista. Ma perché il prezzo continua a salire? Per una volta, la risposta è elementare – come nota James Hamilton, professore di economia all’Università di California, in un post sul suo blog Econbrowser. Si tratta del semplice effetto del gioco tra una domanda in costante crescita e un’offerta stagnante.

Vediamo i dati.

La produzione globale, nel 2006, è rimasta stazionaria rispetto all’anno prima, mentre nei primi 7 mesi di quest’anno è scesa leggermente. E’ la prima volta nella storia, nota Hamilton, che la produzione non aumenta in assenza di shock e recessioni, come risulta anche dal grafico che segue.

Produzione globale in milioni di barili al giorno. Fonte: EIA

L’incapacità di espandere la produzione è ancora più rimarchevole visto l’incentivo costituito dai prezzi in rapida ascesa. Invece sia all’interno dell’Opec che dell’Ocse (paesi sviluppati) l’offerta è diminuita.

E se la produzione globale non ha fatto un sensibile passo indietro si deve solo al marcato incremento nei paesi dell’ex Unione Sovietica, dove la produzione è aumentata di 400mila barili al giorno nel 2006 e di altri 700mila barili al giorno nella prima metà del 2007.

Ecco il dettaglio:

Variazione nella produzione media tra 2005 e 2006 per alcuni paesi Ocse e totale Ocse. Fonte: EIA

Variazione nella produzione media tra 2005 e 2006 per i paesi Opec e totale Opec. Fonte: EIA

Alla maggiore produzione in Canada, Algeria e Iraq ha fatto da contrasto il calo in Messico, Mare del Nord (UK e Norvegia), Nigeria e, soprattutto, Arabia Saudita. In Nigeria ha pesato la guerra civile. Ma in Messico, Mare del Nord e Arabia Saudita il problema è il calo di produttività di giacimenti in avanzato stato di sfruttamento.

Mentre la produzione langue, la domanda globale continua a crescere, sospinta dall’insaziabile sete di petrolio della Cina. La Cina, ricorda Hamilton, rappresentava il 3,4% della domanda mondiale nel 1990. Ma questa percentuale è salita all’8,6% nel 2006, quando la domanda è cresciuta più dell’8% rispetto all’anno prima.

Il trend esponenziale di aumento della domanda cinese è evidente nel grafico che segue:

Consumi di petrolio in Cina in milioni di barili al giorno. Fonte: EIA

Le differenti dinamiche della domanda e dell’offerta sono dunque la semplice risposta al perché il prezzo del petrolio continui a salire. Ma cosa ci vorrà per cambiare la situazione? Beh, questo, conclude Hamilton, è un quesito molto più difficile.

Il mercato delle idee: Rally, rischi e black box

Nel Mercato delle Idee presento una serie di link ad articoli interessanti. Quelli qui raccolti trattano temi come la crisi finanziaria di agosto, la fuga dal dollaro, il ruolo crescente ma oscuro degli hedge fund, il rally delle materie prime e i rischi d’inflazione, il collasso del mercato americano della casa, le contrastanti valutazioni sulla possibilità che una recessione sia alle porte.

Mercati

Buttonwood su l’Economist si chiede se la crisi finanziaria di agosto assomigli di più a quella del 1990 (collasso delle Casse di Risparmio americane), che sfociò in una recessione e in un pronunciato calo delle Borse, o a quella del 1998 (default russo e crollo del fondo LTCM), che fu seguita da un anno e mezzo di scapigliata speculazione rialzista sull’onda delle riduzioni dei tassi decise dalla Fed (da allora in poi descritte col nomignolo di “Greenspan put”). Non ci vorrà molto per capirlo. Ma il consiglio è di monitorare attentamente tre fattori che potrebbero annunciare l’arrivo di tempi bui: un aumento degli spread sui mercati del credito, una ripresa dell’inflazione, e una fase di improvvisa forza dello yen (che indicherebbe una fuga dal rischio da parte degli investitori più aggressivi, i quali fino ad oggi si sono indebitati in yen per investire con leva su altri mercati). Il primo fenomeno è già accaduto (anche se non nelle dimensioni del 1998), il secondo è diventato più probabile (se ha un senso la corsa a vendere dollari e a comprare oro dopo il recente taglio dei tassi da parte della Fed), ma del terzo, per ora, non c’è traccia. L’appetito per il rischio è dunque ancora elevato. Anche se si sa che sulla stabilità e durevolezza degli appetiti degli investitori non è consigliabile fare affidamento.

Anche Bespoke Investment Group fa confronti, in questo caso di natura grafica e con l’andamento dell’S&P 500 nelle crisi del 1987 e del 1998. Risultato? Come appare evidente (vedi sotto), sembrano esserci davvero pochi paralleli.

Banking Credit Analyst riflette sulle caratteristiche dei flussi d’investimento emersi dalla crisi estiva. I due temi portanti sono “go global” (e cioè diversificazione a livello globale, soprattutto a beneficio dei mercati emergenti) e “via dall’epicentro della crisi” (e cioè mercato immobiliare Usa, mutui subprime e, in genere, il dollaro). I beneficiari di questi flussi sono, nel complesso, i mercati azionario e delle commodities, e le valute più lontane dal dollaro. Per BCA si tratta di trend destinati a durare.

Mark Hulbert è uno specialista dell’analisi del sentiment del mercato, che fa da decenni basandosi soprattutto sulle raccomandazioni degli autori di newsletter finanziarie in America. L’assunto di fondo di tale analisi è che, agli estremi, panico ed euforia sono indicatori contrari: quando ci sono troppi pessimisti il mercato è probabilmente vicino al fondo, e viceversa, quando ci sono troppi ottimisti, un picco non è lontano. Come interpretare, su queste premesse, il rally dell’oro, che a settembre ha varcato di gran corsa la soglia dei 700 dollari l’oncia? Hulbert ha verificato che il sentiment è molto più cauto oggi di quanto non fosse nel maggio del 2006, quando l’oro si spinse una prima volta verso livelli analoghi. Il rally attuale, insomma, sembra poggiare su basi molto più solide.

Ken Fisher, figlio d’arte, grande investitore, e columnist di lungo corso per Forbes, dove tiene una rubrica che ha azzeccato con raro tempismo quasi tutti i grandi punti di svolta dei mercati azionari nell’ultimo ventennio, è rimasto fedele al campo dei Tori durante tutta la crisi estiva delle Borse. Nel suo ultimo articolo per Forbes enuncia “quattro ragioni” alla base della convinzione che quella estiva è stata solo una correzione in un rally destinato a continuare. Meritano di essere attentamente ponderate. Dice Fisher che l’ascesa e poi il crollo dei mercati, nel corso degli ultimi mesi, sono stati troppo ripidi per assomigliare alla fine di un bull market e all’inizio di un bear market. Queste transizioni da un ciclo all’altro sono in genere lente e graduali. In secondo luogo, non esiste bear market che prenda l’avvio da “notizie vecchie” e risapute. Ci vogliono fatti nuovi. E la crisi del mercato subprime non lo è. Era da anni che tanti investitori avevano messo in conto il crollo dell’enorme mucchio di prestiti facili e dissennati contratti nel mercato immobiliare americano.

Il terzo motivo è che il credit crunch di cui tanto si parla è per Fisher una contrazione del credito che, almeno nel settore corporate, fa solletico più che paura. Nel 2000 gli spread tra titoli del Tesoro e junk bond si allargarono all’improvviso di tre o quattro punti percentuali. Oggi si sono allargati di un punto per poi tornare a restringersi, e gran parte dell’aumentato differenziale è stato provocato dalla discesa dei rendimenti dei titoli del Tesoro più che da un’impennata di quelli dei junk bond: uno sviluppo tutt’altro che negativo. Infine c’è il pessimismo dei media, che per Fisher è sempre presente nelle correzioni di un bull market e mai quando un bull market cede finalmente il passo a un bear market. Insomma, finchè i pessimisti di oggi non diventeranno ottimisti c’è per Fisher un buon motivo per pensare che il rally delle Borse continuerà, con il suo epicentro nei mercati emergenti dell’Asia.

Delle cause della crisi di agosto ho già scritto nel post Derivati, armi di distruzione di massa? riservandomi di tornarne a parlare con l’aiuto di un grande esperto come Satyajit Das. Lo farò, ma per ora, per quanti masticano l’inglese, vorrei proporre un suo testo recente, un po’ lungo ma illuminante: “Credit crunch, the new diet snack for financial markets”. E aggiungere il link a un articolo del New York Times che fa riferimento a un paio di altri studi di autori importanti come Andrew Lo del MIT e Clifford Asness di AQR, un grande e prestigioso hedge fund pure scosso dalla crisi. Tra le analisi di questi autori ci sono molti punti in comune: il moltiplicarsi di hedge fund ha aumentato il rischio nei mercati, il fatto che molti perseguono strategie simili ha ridotto i ritorni, sollecitando l’impiego di una leva finanziaria sempre maggiore. In caso di improvvise difficoltà di qualche grosso player (come è accaduto ai primi di agosto tra gli hedge fund quantitativi) le liquidazioni forzate che ne derivano portano a un “impazzimento” caotico dei mercati più diversi, con conseguenze negative che ricadono a cascata su un numero via via crescente di investitori.

A proposito di hedge fund, un articolo del Financial Times riporta i risultati di uno studio di Hedge Fund Intelligence: nei primi sei mesi dell’anno gli asset amministrati da fondi hedge a livello globale sono aumentati del 19% raggiungendo i 2.500 miliardi di dollari. Se si tiene conto della leva finanziaria spesso impiegata da questi fondi, e della segretezza con cui operano, si capisce perché molti cominciano a preoccuparsi del fatto che sono dei misteriosi “black box” (scatole nere) a farla sempre più da padroni sui mercati finanziari.

Un articolo di Bloomberg mette in rilievo i caratteri travolgenti del rally in corso delle materie prime. Nel mese di settembre l’indice CRB ha guadagnato l’8,1%, sospinto dall’ascesa dei prezzi del grano, del petrolio e dell’oro. Si tratta del risultato migliore dal luglio del 1975. Il riferimento alla metà degli anni ’70, quando la prima crisi petrolifera, innescata dal conflitto tra arabi e israeliani, fece esplodere l’inflazione, fa pensare. Oggi la domanda di materie prime è sostenuta dall’impetuoso processo di industrializzazione della Cina, un fattore a cui durante l’estate si è aggiunto il sospetto che per contrastare la sempre più profonda crisi immobiliare negli Usa la Federal Reserve tornerà a inondare i mercati di liquidità. I rischi d’inflazione sono dunque in aumento. E in tempi d’inflazione, sono gli asset reali (come le materie prime) a offrire la protezione migliore.

Delle scomode opzioni che la Federal Reserve ha davanti a sè si occupa Bill Gross, il “re dei bond”, nella sua lettera mensile agli investitori. Il problema per la banca centrale americana è la situazione schizofrenica tra un settore corporate in buona salute e milioni di famiglie che rischiano di finire sul lastrico, affossate dai debiti e da un mercato della casa in caduta libera (vedi grafico sotto). Scrive Gross: “Se Bernanke fa finta di nulla e congela i tassi, rischia di esacerbare una crisi immobiliare in pieno sviluppo. D’altra parte, se decide di favorire le famiglie a scapito delle imprese, il rischio è di tornare ad accendere comportamenti speculativi nel mercato azionario, e di provocare una fuga dal dollaro.” Cosa farà la Fed? Cercherà probabilmente una via mediana ma efficace nel contrastare una crisi del mercato della casa destinata a restare per anni al centro delle sue preoccupazioni. Per Gross questo significa che nei prossimi 6-12 mesi i tassi a breve dovranno scendere a livelli non superiori all’1% reale, pari al 3,75% in termini nominali – molto più in basso, insomma, di quanto non sia al momento scontato dal consenso degli investitori.

Una sintesi efficace della performance dei mercati mondiali alla fine del terzo trimestre, espressa in termini di valuta locale, è pubblicata da Bespoke Investment Group. Svettano i guadagni di petrolio, oro e mercati emergenti; tra le Borse sono quelle dei cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) a guidare la classifica.

Economia

Paul Kasriel di Northern Trust riassume in un recente articolo la sua valutazione dello stato dell’economia Usa. Kasriel parla di una “growth recession” (recessione con crescita), cioè di un’economia che cresce meno del suo potenziale e che vede dunque diminuire la capacità utilizzata e aumentare i disoccupati, con rischi elevati di una vera e propria recessione nell’immediato futuro. Il pericolo viene dal mercato della casa, il cui collasso sta inducendo le famiglie a mettere un freno ai consumi. Sono diversi gli indicatori che confermano come gli Usa siano ad appena un passo dalla recessione: dal LEI (Index of Leading Economic Indicators, da noi noto come superindice economico), al rapporto tra occupati e popolazione (che ha iniziato a calare, come è accaduto all’inizio di ogni recessione degli ultimi decenni), all’indicatore di Kasriel (“Kasriel Recession Warning Indicator” o KRWI, vedi grafico sotto), composto dal tasso di variazione annua della base monetaria in termini reali, e dalla media mobile a quattro trimestri dello spread tra tassi decennali e Fed Funds.

Nota Kasriel che, assieme, l’andamento reale della base monetaria e la curva dei rendimenti hanno sempre dato segnali affidabili di recessione negli ultimi 50 anni. Quest’anno hanno emesso un “segnale qualitativo” o debole, nel senso che sono scesi leggermente in territorio negativo per poi rimbalzare, seppur di poco. Ci troviamo, insomma in una situazione di grande incertezza e notevoli rischi, a cui la Fed, ad avviso di Kasriel, ha cominciato a rispondere con una manovra di riduzione dei tassi che con ogni probabilità continuerà in modo aggressivo nei mesi a venire.

A misurare i rischi di recessione c’ha provato anche un sondaggio di Rothstein Kass tra i manager di hedge fund americani. Hanno risposto in 239, e per il 61% del campione una recessione è “molto probabile” nel 2008. L’87%, messo evidentemente sul chi va là dagli scossoni dell’estate, ha anche previsto un aumento della volatilità nei mesi a venire. Ma, si sa, per gli hedge questo non è un problema.

Una stima ben diversa la fa invece il campione eterogeneo di investitori istituzionali che Merrill Lynch sonda ogni mese nella sua nota e molto seguita “Global Fund Manager Survey”. Riferisce David Rosenberg che, nel più recente sondaggio, solo il 7% vedeva rischi di recessione per il prossimo anno. E’ presumibile, dunque, che se una recessione dovesse davvero prendere piede, si abbatterebbe come una sorpresa di grande impatto sui mercati globali. E qual è la stima di Merrill Lynch? In base al loro modello, il rischio viene quantificato al 70%. E’, insomma, molto alto.

Un tassello del puzzle che ancora manca per arrivare a dire che una recessione negli Usa è inevitabile è sicuramente l’ISM manifatturiero, un sondaggio tra i responsabili degli acquisti che ha dimostrato nel tempo di predire correttamente, con un trimestre circa d’anticipo, l’evoluzione del Pil. Il rapporto di settembre è uscito due giorni fa, e come nota Northern Trust, ha evidenziato un indebolimento per il terzo mese di fila. Ma il dato di 52 resta per ora sopra la soglia di 50, che individua il punto di demarcazione tra espansione e contrazione dell’attività economica.

Un utile sommario dello stato del mercato della casa, l’origine dei problemi americani, lo offre Barry Ritholtz nel suo blog. Le tabelle alla fine del post, tratte dal New York Times, rendono con efficacia l’asprezza del tonfo. Non solo i prezzi delle case sono in caduta libera, ma se si dà credito ai contratti future, una stabilizzazione dei prezzi non è prevista prima del 2010. La crisi, insomma, è appena agli inizi.

Politica e media

La fiducia degli americani nell’amministrazione federale, stando all’ultimo sondaggio Gallup, è crollata ai livelli più bassi dai tempi dello scandalo Watergate, che costrinse l’allora presidente Nixon alle dimissioni. Manca appena un anno alle elezioni, ed è lecito pensare che George W. Bush farà di tutto per evitare una disfatta dei Repubblicani, e una fine così ingloriosa del suo secondo mandato. Chi pensa, e sono in tanti, che l’appuntamento ciclico con una recessione sarà almeno un po’ differito, fa affidamento sull’inesorabile logica del cosiddetto ciclo presidenziale. Il terzo e quarto anno di questo ciclo (nel nostro caso, il 2007 e il 2008) sono tipicamente i migliori per la Borsa per la semplice ragione che la Casa Bianca fa di tutto (compreso l’esercizio di ogni tollerabile pressione sulla Fed) per assicurare che i rubinetti della spesa e della liquidità siano ben aperti nell’imminenza della scadenza elettorale. E’ l’applicazione pratica del motto: “It’s the economy, stupid.” Scommettere su una recessione a breve sarebbe insomma un po’ come scommettere contro il ciclo presidenziale: in passato si è trattato, quasi sempre, di una puntata perdente.

MarketWatch, il portale di informazioni finanziarie che fa capo alla Dow Jones (e cioè, in definitiva, alla News Corporation di Murdoch), ha lanciato la versione beta di MarketWatch Community: un servizio gratuito che consente agli utenti di riorganizzare, condividere, commentare, etc. etc. i ricchi contenuti del sito. E’ un altro passo in quella rivoluzione dei media che ci sta trasformando tutti in “prosumer” (produttori/consumatori), e di cui ho scritto nel mio post Internet, i media e l’imprevedibile futuro. L’Italia, in questa rivoluzione, si trastulla nelle retrovie. E’ di oggi la notizia che la commissione europea agirà contro il nostro governo per i ripetuti ritardi nell’eliminare parti che contrastano con le norme sulla concorrenza contenute nella legge Gasparri (figlia prediletta del governo Berlusconi). Scrive Reuters: “Bruxelles ha messo nel mirino la legge Gasparri soprattutto nella parte che consente alle sole imprese già presenti nel mercato televisivo di comprare frequenze da altri operatori per avviare le trasmissioni digitali.” Tenacemente, e a tanti livelli, l’Italia appare impegnata a difendere un indifendibile passato, che le tecnologie e lo “spirito dei tempi” stanno affossando.

 

Il mercato delle idee: curve, commodities e bolle

Tra gli articoli recenti che vado a esporre nel mercato delle idee ci sono le riflessioni di Barry Ritholtz sui dati americani sull’inflazione, un ammonimento di Mike Panzner tratto dall’andamento della curva dei rendimenti, le previsioni di PIMCO, che resta bullish sui mercati delle commodities, un’interessante ricerca di Michael Mauboussin sull’importanza del carattere per un investitore, le considerazioni di Northern Trust sui tratti sempre più speculativi del rally del mercato azionario cinese.

Le borse si sono entusiasmate per gli ultimi dati sull’inflazione Usa. Ma le statistiche sono ingannevoli, come ben argomenta Barry Ritholtz in The Big Picture.

La curva dei rendimenti Usa, dopo un protratto periodo di inversione, è tornata ad avere un’inclinazione positiva, in seguito al brusco rialzo dei tassi a lunga. Chi ha interpretato positivamente la novità, e sono i più, rischia di sbagliarsi di grosso, come mostra Mike Panzner su Bloggingstocks.

Il pessimismo sul dollaro va molto di moda. Eppure, forse anche per questo, il biglietto verde potrebbe essere a una svolta. Di nuovo Mike Panzner nel suo blog .

Bill Gross, “re dei bond” e fondatore di PIMCO, illustra le previsioni di medio-lungo periodo del suo gruppo: crescita globale sostenuta, tassi in ripresa, dollaro sempre debole, borse OK e rally di materie prime e valute emergenti.

Per BCA Research i mercati azionari restano attraenti rispetto agli asset concorrenti, anche dopo la recente ascesa dei rendimenti obbligazionari. Il consiglio è di continuare a comprare nelle fasi di debolezza (“buy the dips”).

L’ultimo paper di Michael Mauboussin è, come sempre, affascinante. Sono i tratti del carattere quelli che distinguono i grandi investitori, come d’altra parte sembra avere ben chiaro Warren Buffett nella ricerca di un successore alla guida del suo gruppo. Quali sono le caratteristiche che Buffett ritiene essenziali? L’abilità di riconoscere ed evitare i rischi gravi, la capacità di pensare in modo indipendente, la stabilità emotiva e il talento nel comprendere i comportamenti umani.

Ticker Sense ogni settimana tasta il polso di oltre 50 tra i più noti blogger finanziari, per conoscere le loro attese sui mercati azionari. Il sentiment resta in prevalenza negativo, una condizione che ha accompagnato tutto il rally dell’ultimo anno.

Crosscurrents di Alan Newman documenta il fervore speculativo che anima la Borsa americana. I volumi negoziati sono tornati a superare un multiplo di tre volte il Pil per la seconda volta nella storia (la prima, ovviamente, è stata nel 2000), l’holding period medio di un titolo azionario è sceso verso i 6 mesi, e la liquidità detenuta dai fondi è crollata ai livelli più bassi di sempre. Conclusione? Gli investitori sono quasi scomparsi e domina il trading di breve periodo in un mercato ipercomprato. Newman prevede una correzione almeno del 15% entro l’autunno.

Think BIG di Bespoke Investment Group osserva come il rally dei rendimenti obbligazionari americani, che alle scadenze decennali hanno superato di gran corsa la soglia del 5%, abbia colpito l’immaginazione dei media. Ne hanno parlato tutti con grande rilievo, anche i piccoli giornali di provincia, tra attese di continui rialzi. Quando il sentiment si fa così estremo – commenta il blog – è probabile che un massimo, per lo meno di breve periodo, sia stato raggiunto.

Northern Trust analizza la bolla del mercato azionario cinese, simile ormai al Nasdaq di fine anni ’90. Non solo il multiplo P/E ha toccato il livello irragionevole di 44 volte gli utili dello scorso anno, ma la volatilità è sempre più elevata, segno di un mercato molto speculativo. Solo negli ultimi sei mesi ci sono state 11 sedute in cui l’indice di Shanghai ha chiuso con variazioni superiori al 4%. Benché manchino dati precisi, c’è ampia evidenza del fatto che i piccoli investitori cinesi, che contano anche per l’80% delle transazioni nelle giornate più attive, ricorrono ampiamente al debito per “giocare” in borsa. Quando la bolla scoppierà – e non c’è dubbio che scoppierà – sarà difficile per le autorità evitare gravi ripercussioni sociali. E il colpo che verrà inferto ai consumi dell’emergente classe media cinese finirà per pesare sull’export di tutto il continente asiatico.

Sei ragioni per cui l’ascesa dei rendimenti obbligazionari è una minaccia per i mercati azionari: le illustra Barry Ritholtz su The Big Picture.

L’oro, negli ultimi mesi, ha subito una sensibile correzione. Ma per Prieur du Plessis c’è un lungo bull market ancora davanti a noi. Le analogie con il ciclo degli anni ’70, analizzate in un post sul blog Investment Postcards from Cape Town, sono suggestive.

 

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