Internet, i media e l’imprevedibile futuro I
Mi è capitato di pensare al futuro dei media nell’età di Internet e di considerare, di riflesso, anche le prospettive della mia professione, il giornalismo: un campo minato, sia perché mi tocca troppo da vicino, sia perché le dimensioni dei cambiamenti in corso sono sconvolgenti. Ho provato a eliminare questo improvvido post dalla mia testa. Ma non ce l’ho fatta. Me ne devo liberare pubblicandolo, in qualche modo. E forse l’unico modo possibile è procedere per cenni: rapidi pensieri, citazioni, associazioni di idee.
Il futuro è imprevedibile e gli esperti non lo sanno
Mi sforzerò di cercare un senso alle novità del presente per scrutare nel futuro. Serve allora una premessa metodologica, ed è quella contenuta nelle due citazioni che seguono:
“Quelli che hanno la conoscenza non fanno previsioni. Quelli che fanno previsioni non hanno la conoscenza.” (Lao Tzu)
“Fare previsioni è molto difficile, soprattutto quando riguardano il futuro.” (Niels Bohr)
Il futuro ancora non esiste e dunque non è conoscibile. La storia procede per salti e discontinuità. I cosiddetti esperti ne sanno (poco) quanto noi. A proposito, un bellissimo libro che analizza i fallimenti degli esperti è Expert political judgment di Philip Tetlock. In tre parole, il senso del libro è sintetizzato così in una recensione di Louis Menand per il New Yorker, ripresa sul retro di copertina: “Think for yourself” (“pensa per te”).
Si tratta di un’ottima massima anche per l’investitore accorto alle prese con le previsioni dei guru della finanza e mi è venuta in mente grazie allo sciopero di ieri dei giornalisti italiani (su cui, volente o nolente, tornerò).
Per dare una scorsa alle notizie del giorno sono andato, come peraltro faccio spesso, sul sito della BBC . Lì ho letto anche della brillante vittoria di Valentino Rossi ad Assen. Siccome il sito è ben curato e ricco di contenuti, la cronaca della gara conteneva diversi link, tra cui due riguardavano le previsioni, fatte prima dell’inizio del campionato, dallo stesso Rossi e da un panel di 4 esperti della BBC.
Quali erano i favoriti di Rossi? I 5 ai vertici della scorsa stagione, i “migliori motociclisti” del momento, e cioè Pedrosa, Hayden, Capirossi, Melandri e, ovviamente, lo stesso Rossi. E i favoriti del panel di esperti della BBC? La previsione unanime era che la stagione si sarebbe ridotta a un duello tra Rossi e Pedrosa, con scarse possibilità, per gli altri, di inserirsi (anche se in un momento di illuminata autocritica, uno degli esperti ricordava come l’anno scorso nessuno avesse inserito Hayden, poi vincitore, tra i pretendenti al titolo).
Sappiamo come sono andate le cose: sin qui ha dominato Casey Stoner, l’outsider, anche se ad Assen Rossi ha lasciato immaginare che la seconda parte della stagione potrà essere diversa.
“Del futuro non v’è certezza”, e i giudizi degli esperti sono altrettanto inaffidabili dei nostri: sono queste le premesse metodologiche di ogni discorso sul futuro. Ma adesso partiamo col mio treno di pensieri (sperando di arrivare da qualche parte).
La rivoluzione di iPhone
Tutto è nato dal solito giro tra i miei siti preferiti, che mi ha portato sul blog The Big Picture di Barry Ritholtz. Qui ho trovato un commento al nuovo iPhone di Apple, che ha debuttato venerdì sul mercato americano. C’era una recensione entusiastica dell’esperto di personal technology del Wall Street Journal, Walt Mossberg, e un video, che ho guardato.
Wow! Io non sono un patito di gadget elettronici. Me ne servo, di solito, con quel distacco che trovo naturale per degli attrezzi. Però l’iPhone mi ha colpito. Molto innovativo, bello e facile da usare, renderà piacevole e dunque sempre più diffusa l’esperienza di essere online & mobile.Quali sono le osservazioni che fa Ritholtz sull’iPhone? E’ un prodotto che nasce dalla scelta di lasciare briglia sciolta ai creativi, piuttosto che governare un’azienda per comitati e decisioni calate dall’alto. E’ il risultato di un’estrema attenzione ai consumatori (l’interfaccia dell’iPhone è straordinario), e del riconoscimento dell’importanza prioritaria degli investimenti in ricerca e sviluppo. Nota Ritholtz: chi ha puntato sull’R&D, come Apple, Google, Toyota o Nintendo, in questi anni ha sbaragliato il campo.
Ricerca, sviluppo, creatività, attenzione ai consumatori: cosa ci può insegnare tutto questo? Beh, intanto che in tempi di discontinuità bisogna imparare a rischiare (a tutti i livelli, dal singolo lavoratore al sistema paese). Chi si attarda a difendere o rimpiangere il passato è perduto (e non si gode la vita!).
La rivoluzione digitale e il futuro dei media
Che poi questi siano tempi rivoluzionari per quanti sono coinvolti nel mondo dei media (e in un modo o nell’altro lo siamo tutti) lo spiega bene Augusto Preta, nel libro Economia dei contenuti.
In una densa pagina introduttiva, Preta identifica il senso del cambiamento in corso. Ne riprendo, a mo’ di indice, solo le parole-chiave:
– innovazione tecnologica: digitalizzazione, protocollo Internet, larga banda;
– globalizzazione dei mercati;
– convergenza tra industria informatica, telecomunicazioni e media;
– competizione “verso terreni ignoti o poco frequentati da attori nazionali, abituati a operare in una dimensione prevalentemente locale e spesso protetta da insormontabili barriere all’entrata (monopoli/oligopoli legali e/o naturali)”;
– radicale trasformazione delle strutture d’impresa;
– flessibilità e moltiplicazione dell’offerta, differenziazione dei prodotti;
– personalizzazione dei servizi;
– dematerializzazione dei contenuti;
– affrancamento del contenuto dal suo contenitore: il contenuto diventa il vero driver della convergenza;
– il digitale più che essere un’evoluzione dell’analogico porta l’industria dei media a trasformarsi in “industria dei contenuti.”
I contenuti dunque diventano sovrani (il rovesciamento di quanto diceva Marshall McLuhan con il suo “the medium is the message“, il mezzo è il messaggio). E allora vediamoli un po’ meglio, questi contenuti, analizzati nei loro tratti innovativi in un altro capitolo del libro di Preta dedicato alla creative industry:
– i consumatori non sono interessati alle piattaforme distributive quanto al contenuto in sé;
– con Internet i consumatori decidono quando e cosa desiderano guardare indipendentemente dalle scelte dell’emittente;
– i consumatori diventano anche produttori e distributori di contenuti multimediali: siamo tutti prosumer (produttori/consumatori);
– i consumatori si servono di un’amplissima gamma di fonti di informazione e seguono percorsi personali, non lineari: è la personal media revolution, che, in ultima istanza, “permette a chiunque di scegliere o creare la propria comunità.”
– è questo il senso del successo dei social networks, dei siti di user generated content (blog, wikis), delle online communities (MySpace, YouTube), e poi dell’instant messaging, chatting, podcasting;
– conclude Preta: “I consumatori di Internet dunque non sono più utenti passivi, ma al contrario sono soggetti attivi nella catena del valore dei contenuti. La diffusione di media basati sulla condivisione – software open source, P2P, siti collaborativi, i cosiddetti wikis, social networks – permette la collaborazione sociale e la condivisione, che spesso si dimostra essere più efficiente e affidabile del mercato tradizionale. Il segreto della popolarità dei media partecipativi è la capacità di rivolgersi più direttamente alle persone, essendo più economici e più accessibili, e talvolta anche più creativi.”
La mia personal media revolution
Mi ritrovo in questo quadro che fa Preta? Un po’ con la sensazione di essere a metà del guado, ma certo che mi ci ritrovo.
Da un paio di mesi scrivo il mio blog, ed è un’esperienza che mi entusiasma. Lo scorso anno ho partecipato intensamente alla campagna elettorale discutendo per ore e ore sul forum de Il termometro politico. Mi informo attingendo da centinaia di “preferiti” in una crescente indifferenza all’esistenza di confini nazionali e gestendo con efficienza la molteplicità di fonti grazie a feed e web aggregator. Mi aiuta, anche, il fatto di saper leggere in cinque lingue. Ma le differenze linguistiche sono destinate a scemare d’importanza grazie all’evoluzione dei traduttori automatici.
Da anni, sia al lavoro che a casa, utilizzo un collegamento a Internet in banda larga 24×7, e trovo inconcepibile farne a meno: i costi sono contenuti e il 90% della mia comunicazione che non sia interpersonale e diretta (fisica) passa da lì.
Ho praticamente smesso di guardare la TV, se non per eventi sportivi o qualche occasionale programma di grande interesse (mi sembra ormai un mezzo primitivo), compro poco i giornali di carta (e quando li compro, mio figlio Valerio, di 6 anni, mi chiede, come ha fatto la scorsa settimana, lasciandomi di sale: “Papà, ma perché li compri? Tanto non li leggi”).
Sono abbonato ai siti di Economist, Wall Street Journal, Financial Times e Barron’s, e trovo che pagare poco più di un dollaro la settimana per avere accesso ai contenuti ricchissimi di un sito come, ad esempio, quello dell’Economist sia un affare incredibile. Compro molti libri su Amazon.com (a prezzi stracciati, anche grazie al dollaro debole).
Le difficoltà dei media tradizionali
Ma a parte me, che non rappresento nessuno e potrei anche essere un caso bizzarro, gli italiani che frequentano Internet (un terzo del totale, ma in crescita) come si comportano? Ho rifatto un giochino simile a quello che mi aveva ispirato il post Gli italiani e l’informazione finanziaria online, e sono andato a controllare su Alexa la classifica dei siti più visitati in Italia.
Fa una certa impressione. Nel top 10 ce n’è solo uno di italiano (ma per quanto tempo ancora?), ed è Alice.it di Telecom Italia, al nono posto. Ai primi sei posti ci sono siti di proprietà di Google, Microsoft e Yahoo!, al settimo posto c’è Libero.it, ora della Orascom dell’egiziano Naguib Sawiris, all’ottavo c’è EBay, al decimo MySpace, fresca acquisizione della NewsCorp. di Murdoch.
All’undicesimo posto si trova Wikipedia e, finalmente, al dodicesimo posto c’è il primo tra i gruppi editoriali italiani, che è stato storicamente anche il più attivo nel campo dei nuovi media: Repubblica.it.
E gli altri? Tra i primi 100 siti italiani, ce ne sono solo nove che fanno capo a media tradizionali. Dopo la Repubblica seguono Corriere della Sera, Mediaset, Gazzetta dello Sport, Rai (al 34° posto, solo tre piazze più avanti di Giorgiotave.it), Kataweb, ANSA, Stampa, Sole 24 Ore.
Cercherò di mettere a fuoco, in una seconda parte di questa riflessione, cosa questo può significare per i media e il giornalismo in Italia.
Ma la classifica di Alexa non lascia dubbi sul fatto che la grande editoria italiana – quella nei cui consigli d’amministrazione, trasformati in “salotti buoni”, molti ricchi e potenti d’Italia siedono o vorrebbero sedere per moltiplicare le loro capacità di condizionare la vita pubblica del paese – tanto in salute non è.
Confesso che il senso della celebre affermazione di Mc Luhan mi è sempre rimasto oscuro, ma penso di non essere il solo. Ho provato a leggere “Gli strumenti del comunicare”, ma dopo una cinquantina di pagine ho dichiarato forfait. Non capivo dove andasse a parare, anche se la prosa di Mc Luhan era affascinante, la cultura profonda, le osservazioni estremamente stimolanti, ma anche molto difficili. Poi, ho letto un libro che, a mio avviso, è il lavoro più importante del XX secolo per quanto riguarda la comprensione di che cosa è un mezzo di comunicazione. Si tratta di “Quattro buoni motivi per eliminare la televisione” di Jerry Mander. Già il titolo è una bestemmia, perché la TV sostiene il Pil, e il Pil è l’unico vero dio della nostra epoca. Ma al di là di questo, la tesi del libro è che “ogni tecnologia predetermina il suo uso”. Questo è esattamente l’opposto di ciò che il 99,999% dei commentatori ha sostenuto e continua a sostenere. Applicato alla televisione, l'”assioma” dominante si traduce in un concetto del tipo: la televisione non è in sé né buona né cattiva, può veicolare programmi stupidi o intelligenti, noiosi o creativi; tutto dipende da chi la utilizza e con quali fini o propensioni. Mander, sulla scia della sua interpretazione di Mc Luhan, afferma invece che la televisione può veicolare sola una ristretta gamma di messaggi: non può trasmettere informazioni, diffondere il sapere, educare al bello o all’arte, insegnare alcunché. Non permette il confronto fra tesi contrapposte, neppure le più semplici. L’unico messaggio che funziona attraverso il mezzo televisivo è lo spot pubblicitario. La tesi può apparire estrema, ma se si legge il libro appare estremamente persuasiva, anche alla luce del fatto – piuttosto sconcertante – che un libro scritto a metà degli anni ’70 contiene delle impressionanti anticipazioni sul nostro futuro. In sostanza il libro anticipa come è la televisione oggi, i contenuti e i programmi che dominano ma va ben oltre e prevede con trent’anni di anticipo come si sarebbero svolte le campagne elettorali e la diffusione dei sistemi maggioritari (visti come un prodotto necessario del mezzo e della sua estrema pervasività).Tutta questa lunga premessa per dire cosa? Che quando si parla di comunicazione in un contesto che internet e le nuove tecnologie informative hanno reso così cangiante si rischia di fare lo stesso errore. Quando Mander ha scritto il suo libro, non solo, in Italia, ma anche negli usa la televisione appariva come uno strumento ancora passibile di essere impiegato per il progresso dell’umanità (attese simili aveva generato la radio) e non l’attuale veicolo di stupidaggini rincretinenti, uno strumento che sembra fatto apposta per mettere alla berlina tutte le teorie sul capitale umano.Oggi si ripropongono speranze – che mi augurano non siano quelle, o solo quelle, di “fare i danée” – senza chiedersi perché le tecnologie precedenti hanno fallito.Faccio un solo esempio. Qualche settimana fa su Rai Tre alcuni giornalisti parlavano della rivoluzione dei blog, al che Norma Rangeri disse testualmente “Non scherziamo!”, facendo notale che i blog sono seguiti e letti da una micropencentuale di persone, in un paese dove i cittadini non sono informati di nulla perché i quotidiani non si leggono e le uniche “notizie” sono quelle che passano attraverso la Tv.Il nocciolo del problema è che non si diventa lettori di un blog sofisticato e intelligente come questo senza essere passati prima attraverso l’informazione classica, quella su carta stampata, poi attraverso l’approfondimento sui testi. Al blog si arriva solo dopo un lungo percorso, un percorso che nella società di oggi e con tutta probabilità in quella di domani, faranno sempre meno persone, a meno che non si parli di blog stupidi basati sui pettegolezzi.Pensate al caso Sarkozy-Carla Bruni. Non ve l’aspettavate, vero, che si tornasse, a livello europeo e forse mondiale, all’equivalente delle copertine sui Savoia del settimanale Gente?Come si spiega questa regressione cultural-mediatica se non con il fatto che questo confronto continuo fra media tradizionali e nuovi media (molto importanti i giornali di strada e i notiziari trasmessi nelle gallerie del metro) ha prodotto una contaminazione che ha costretto anche testate importanti a riportare in primo piano della robaccia.Se l’idillio fra Sarkozy-Carla Bruni (o fra Chavez e Naomi Campbell) è così importante, vuol dire che sarà meno importante la politica, le cose da conoscere, le scelte da prendere. La gente, giornalisti compresi, non vive in compartimenti stagni. Le pagine di intrattenimento che da anni ci propinano il Corriere e Repubblica sono tracimate nelle pagine di politica interna ed estera. Ed è successo anche il contrario, per cui quando si fa un articolo sulle spezie lo si fa con un rigore documentario e analitico senza dubbio superiore a un tempo. Forse gli unici rating relativamente affidabili oggi sono quelli dei ristoranti.
San Siro,è tardi ma vorrei comunque fare qualche osservazione “a caldo” sul suo commento. “Ogni tecnologia predetermina il suo uso”? In una certa misura, probabilmente sì. Ma ciò non toglie che entro i limiti dell’uso possibile, quello stesso uso possa essere buono o cattivo, in modi estremamente variabili. Insomma, io sarei meno radicale di lei. Applicando alla televisione, e in particolare al campo dell’informazione che mi è più vicino, io – che non mi sono mai sentito molto “tagliato” per il mezzo televisivo – mi ritrovai per la prima volta a pensare di fare il giornalista guardando Linea Diretta di Enzo Biagi, nei primi anni ’80. E nei diversi anni trascorsi a Londra, c’erano serate in cui avvertivo una vera urgenza di trovare un televisore per vedere programmi che mi entusiasmavano. Ritornato in Italia, mi sono presto abituato a fare a meno della TV. L’esperienza, insomma, mi porta a dire che c’è un uso buono, creativo, altamente informativo della TV, e ce n’è uno cattivo, deformante, meramente pubblicitario.Quanto ai blog o ai nuovi media in generale, penso che il digitale offra una vasta gamma di nuove possibilità esperibili da molti se non da tutti – anche in Italia. Insomma, tendo a non condividere il pessimismo di Norma Rangeri. Naturalmente, si comunica quello che si è. Amplificare attraverso i media – vecchi o nuovi che siano – un grande deserto di cultura e di umanità non è uno spettacolo che possa fare piacere.
Aggiungo una nota essenziale a quanto ho appena scritto. Dicevo: “Si comunica quello che si è.” Ma è altrettanto vero, penso, che si è, o meglio si diventa, ciò che si comunica e ci viene comunicato. Insomma, noi uomini siamo esseri sociali ed è la rete di comunicazioni in cui siamo inseriti che definisce la nostra identità. In tal senso, la stagnazione nella palude del duopolio televisivo Rai-Mediaset, pesantemente condizionato da appetiti e interessi partitici, penso che abbia molto contribuito a impoverire il paese. La mia speranza è che la transizione al digitale spezzi queste catene, creando gli spazi per una comunicazione sociale più libera, più creativa, più significativa. Le possibilità ci sono.
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