l'Investitore Accorto

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Archivi per il mese di “febbraio, 2008”

Il neoliberismo, il Dalai Lama e io

Un lettore ha criticato il mio ultimo post L’Italia, le lobby e l’interesse generale, perché sosterrebbe posizioni neoliberiste che finirebbero solo per aumentare le disuguaglianze. Ma come, ho pensato. Mi dichiaro a favore del “disarmo” delle “tante caste che irrigidiscono e segmentano la nostra società, erigendo barriere e creando discriminazioni tra i cittadini, e mi si obietta che così facendo le disparità crescerebbero? Mi è sembrato un nonsenso.

Il lettore si era peraltro espresso in modi civili, argomentati, pienamente legittimi. Meritava tutto il mio rispetto. Ho così risposto, cercando tra l’altro di mettere in evidenza come quei paesi che già applicano – in qualche modo, ma comunque più e meglio di noi – le ricette proposte da Mario Monti, e da me sostenute, siano meno diseguali del nostro.

Neoliberista, io?

Quanto ho scritto, nella mia risposta, mi è sembrato persuasivo. Ma mi è rimasto un dubbio, di natura più personale. Com’è possibile che io, che neoliberista non sono mai stato (qualsiasi sia l’interpretazione che si vuol dare del termine neoliberismo), venga percepito come tale?

Della propria immagine pubblica penso sia giusto occuparsi, per far sì che ci sia sufficiente armonia (nell’inevitabile differenza dei punti di vista) tra la nostra percezione di noi stessi e quella che ne hanno gli altri.

La nostra identità si sviluppa grazie alla rete delle nostre relazioni. Se non ci sono strappi e cesure tra l’idea che abbiamo di noi stessi e quella che ne hanno gli altri, il nostro “io” sarà più equilibrato e forte. E maggiore sarà il benessere che trarremo dallo stare in compagnia di noi stessi, e che presumibilmente gli altri trarranno dallo stare con noi.

Inoltre, e più semplicemente, siccome scrivo un blog che ha un suo pubblico, mi sta a cuore che i miei lettori – anche quelli occasionali – capiscano senza troppe difficoltà con chi hanno a che fare.

Con queste motivazioni, sono tornato a chiedermi: com’è che qualcuno pensa che quello che scrivo è da neoliberista?

Un test per capire la politica

Per capirlo, ho fatto un test, liberamente accessibile sul sito The Political Compass. Si tratta di una sessantina di domande, che sondano gli atteggiamenti nei confronti dello stato, l’economia, la società, la religione, il sesso al fine di determinare l’orientamento politico complessivo di una persona.

Vi invito a provarlo. E’ anonimo. E’ solo in inglese, purtroppo, anche se basta una limitata conoscenza della lingua per riuscire a districarsi.

Ecco il mio risultato:

Sono, secondo il test, un libertario di sinistra. Siccome la scala va da 0 a 10, tra chi sta nella metà di sinistra, io, con il mio punteggio di 3,50, risulto un moderato. Tra quanti invece sono classificati come libertari, con il punteggio di 5,59 mi colloco appena oltre la media. E’ una descrizione calzante? Direi di sì. Una conferma dell’affidabilità del test l’ho trovata nella pagina di analisi disponibile su The Political Compass (analisi che è comunque opportuno leggere solo dopo aver fatto il test).

Lì appare il seguente grafico, che raffigura la posizione politica di alcune personalità. Il questionario, per loro, è stato compilato da un panel di esperti sulla base dell’esame di pubbliche dichiarazioni.

La figura più vicina – quasi coincidente – al mio risultato è il Dalai Lama, la più lontana è George W. Bush (assieme a Robert Mugabe, Bashar al-Asad e Hu Jintao). Si tratta, in effetti, di una rappresentazione accurata di quanto penso. Tra le personalità del grafico, il Dalai Lama è quella che mi piace di più, Mugabe, al-Asad, Hu Jintao e Bush quelle che mi piacciono di meno. Il neoliberismo alla Bush, in particolare, come quello di Reagan o della Thatcher prima di lui, è agli antipodi della mia visione politica.

Un problema di assi

Cos’è allora che ha tratto in inganno il mio lettore? Non lo so. Ma sarebbe interessante se anche lui facesse il test e condividesse i risultati. Avanzo un’ipotesi. Da quanto ha scritto, sono portato a pensare che il mio lettore sia più di sinistra ma soprattutto meno libertario di me.

E’ evidente che ha avvertito, nel mio post, una distanza. Ha pensato che fosse rappresentabile soltanto nei termini di destra e sinistra: lui, di sinistra, io, neoliberista. Si trattava, piuttosto, della distanza che separa un autoritario da un libertario.

Io, le barriere, per quanto possibile le voglio abbattere – in un “disarmo” multilaterale e generalizzato. Ma per il mio lettore almeno alcune di queste barriere restano, se non sbaglio, essenziali per costruire una società più giusta. Non sono d’accordo. Ma, sempre se il mio lettore conferma la mia ipotesi, avremmo individuato meglio cosa ci differenzia. E capito che il neoliberismo – un concetto spesso imbracciato come un’arma nella polemica di sinistra – c’entra ben poco.

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L’Italia, le lobby e l’interesse generale

Vorrei che i lettori del blog andassero a vedere l’intervista che Mario Monti ha rilasciato ieri su La Stampa, a cura di Mario Bastasin. Offre una delle più sintetiche e, a mio modesto avviso, più corrette interpretazioni del perché l’economia italiana è in crisi. Eccola:

“Molti italiani fanno sempre più fatica ad arrivare alla fine del mese perché l’Italia fa sempre più fatica ad essere competitiva nel mondo. La scarsa produttività riduce la quota di mercato di ciò che l’Italia produce e restringe il prodotto totale che essa è in grado di distribuire.”

“E quegli stessi fattori che frenano la produttività – privilegi, rendite, poteri di blocco di cui godono tante categorie – fanno sì che a pagare il conto della mancata crescita e della maggiore inflazione siano soprattutto le poche categorie non protette.”

E’ chiarissimo. Ma vale la pena ripeterlo. Se l’Italia va male, è perché i nostri prodotti e i nostri servizi, in un’economia sempre più globalizzata, vengono rimpiazzati da quelli di altri paesi dove si lavora meglio e a costi più bassi.

E se questo accade è perché noi siamo frenati da “privilegi, rendite, poteri di blocco di cui godono tante categorie.” I costi, naturalmente, ricadono su tutti ma in primo luogo sui più deboli.

Il paese delle tante caste

Le responsabilità sono dunque diffuse. Sono certamente a carico della politica, ma non solo. Denunciare la cattiva politica è giusto. Ma limitarsi a questo espone ad almeno due rischi. Vediamo quali, di nuovo nelle parole di Monti:

“L’insofferenza dei cittadini per i costi e le inefficienze della politica contiene una carica salutare. E’ positivo che i politici reagiscano, con le parole e, speriamo, con i fatti. Ma presenta anche, secondo me, due rischi insidiosi.”

“Il primo rischio è che i titolari del potere pubblico vengano presi da un sistematico ‘senso di colpa’, che quasi si scusino per l’esistenza dello Stato e che, per essere eletti, promettano di togliere qualcosa allo Stato per darlo agli elettori.”

“Il secondo rischio è che, all’opposto, la società civile tenda sistematicamente ad autoassolversi, a considerare lo Stato e le tasse come il male principale, a non vedere come un male le tutele corporative in cui ogni categoria si rinchiude a riccio”.

Transitare dunque, come accade, dalla polemica contro la “casta” dei politici all’insofferenza anti-Stato è un grave errore. Abbiamo bisogno sì di uno Stato meno invadente, ma anche più efficiente e forte.

In secondo luogo, non esiste solo la casta dei politici. Il nostro è il paese delle “tante caste”, e fare finta di non vederlo ci priva della possibilità di risolvere il problema della scarsa produttività del sistema.

Un bel programma di governo

Quale potrebbe essere, pertanto, la soluzione? Sentiamo Monti:

“A mio parere occorre certo uno Stato più leggero ed efficiente. Ma uno Stato più forte, senza complessi. Uno Stato che, proprio perché crede nel mercato, ne disciplini rigorosamente il funzionamento, ne punisca le devianze.”

“Uno Stato che sappia imporre a noi cittadini, a tutte le nostre organizzazioni e corporazioni, un disarmo della foresta di protezioni e rendite. Una foresta che si è ampliata a dismisura nei decenni proprio con la complicità di uno Stato debole. Per acquisire consensi, ha introdotto norme che riparano dalla concorrenza e ha eretto le organizzazioni delle categorie in protagonisti ufficiali delle decisioni di politica economica.”

“Speriamo che sia possibile ridurre la pressione fiscale. Ma perché non dare priorità massima alla riduzione della ‘fiscalità’ da rendite? Ogni privilegio crea una rendita. Ogni rendita ha gli effetti di una tassa: determina prezzi più alti, minore crescita, minore occupazione. Eliminare le rendite è come ridurre le tasse, ma senza gravare sul bilancio dello Stato”.

Questo sì che è un bel programma di governo!

– Stato leggero, efficiente e forte.
– Stato che crede nel mercato e lo disciplina rigorosamente.
– Stato che impone a tutti un “disarmo”: basta con le protezioni e i privilegi.
– Stato che, così facendo, abbatte la “fiscalità” impropria che davvero soffoca il paese: quella delle rendite (per alcuni o per molti) che si traducono in vere e proprie tasse (per tutti).

Bravo Monti! Avresti il mio voto.

Ottimismo della volontà e giochi della ragione

Arrivati a questo punto, dovrebbe essere chiaro come l’origine dei nostri problemi economici non è economica ma culturale e morale.

Vale allora la pena chiedersi: cos’è che fa sì che noi italiani, oltre a essere – com’è naturale – attaccati ai nostri interessi particolari siamo anche, spesso, così poco capaci di organizzarci in società in modo da far sì che ci sia chi, a beneficio di tutti, è preposto in primo luogo a perseguire l’interesse generale?

E’ un tema che in questo blog ho già toccato, a esempio nel post Il “particulare” e lo Stato di diritto.

Lì citavo Francesco Guicciardini e il suo invito alla cura del “particulare,” che tanta influenza ha avuto nella nostra storia nazionale.

Dicevo:

Mentre il Rinascimento era al suo canto del cigno e le città italiane, in balia di eserciti stranieri, perdevano una dopo l’altra la loro libertà, Guicciardini scriveva: “Gli uomini che conducono bene i loro affari sono quelli che tengono fisso lo sguardo sul proprio interesse privato e misurano tutte le loro azioni in base alle sue necessità.”

Questa cura del “particulare”, da allora, è rimasta purtroppo una chiave privilegiata per interpretare il carattere degli italiani e la storia politica del nostro paese.

Forse bisognerebbe partire dalla considerazione che la “lezione” di Guicciardini nasceva in tempi di decadenza. Era impregnata del pessimismo di una società che aveva perso la libertà e, con essa, ogni possibilità di autogoverno.

Ma in un paese libero, come l’Italia di oggi, adoperarsi a tutti i livelli per un governo migliore della cosa pubblica è l’unico atteggiamento ragionevole, oltre che giusto e doveroso.

Così facendo, non solo è possibile conquistarlo, quel governo migliore, ma si tutela il bene sommo della libertà.

Sono infatti il pessimismo e il cinismo, applicati alla vita pubblica, che portano all’esclusiva cura del “particulare” come via d’uscita dai conflitti, e da qui alla decadenza, poi all’imbarbarimento, fino, in ultima istanza, alla perdita della libertà stessa.

I termini di questo discorso sono morali. Ma sono al tempo stesso razionali, come ci ha permesso di capire, ad esempio, il matematico e Premio Nobel John Nash con la sua teoria dei giochi.

Molti ricorderanno la scena del film A beautiful mind, in cui il giovane Nash, studente a Princeton, si trova con quattro amici che si accingono a corteggiare un gruppo di cinque ragazze, tutte carine ma tra cui una – l’unica bionda – spicca per il suo fascino.

Nash spiega loro che l’unico comportamento razionale, che può assicurare il successo di tutti, è che ognuno dei quattro si concentri su una della quattro ragazze more, lasciando perdere la bellissima bionda.

Tornando a noi, all’intervista di Monti, e all’imminente appuntamento elettorale, cosa ci insegna la soluzione ottimale di Nash al gioco del corteggiamento?

Ci fa capire che il risultato migliore l’otterremo non se ognuno cerca soltanto di massimizzare la propria utilità (voto chi mi abbassa di più le tasse o chi garantisce il massimo vantaggio alla mia corporazione di appartenenza) ma se ognuno farà in modo di scegliere, al tempo stesso, ciò che è meglio per sé e per la collettività intera.

Meno male che Silvio c’è

Silvio Berlusconi, si sa, non sopporta di essere secondo a nessuno. Così, in questi giorni, prima ha accusato il Partito Democratico di Walter Veltroni di “copiare la sua ricetta liberale” per l’Italia. Poi si è affrettato a competere persino sulla questione morale. A pochi giorni dall’approvazione del codice etico del Partito Democratico, ha annunciato, per bocca del fido Sandro Bondi (nella foto), che anche il Popolo della Libertà si doterà di una regola che garantisca l’irreprensibilità delle candidature.

Eccola: “Eventuali procedimenti penali che riguardano nostri parlamentari o eventuali candidati, esclusi quelli che hanno un’origine politica, costituiscono un motivo sufficiente di esclusione dalle liste”.

Ora, questo sì che è un guazzabuglio degno del nostro funambolico Cavaliere. Comico, direi, al pari della canzone “Meno male che Silvio c’è” e della buffonesca interpretazione che molti hanno potuto gustare ieri a Striscia la Notizia.

Veltroni imita le nostre ricette liberali, si lamenta Berlusconi. E poi che fa? Corre a scopiazzare il codice deontologico del PD. Con una vistosa, illiberale variante.

Giudica i giudici e affossa il fondamentale principio liberale della separazione dei poteri, attribuendosi di fatto la facoltà di discriminare i procedimenti penali validi da quelli non validi.

Infatti, chi deciderà quali siano i processi macchiati da un vizio di così arbitraria e soggettiva definizione come “l’origine politica”? Bondi non lo dice, ma è difficile sbagliarsi se si suppone che, alla fin fine, arbitro della questione sarà proprio lui, il leader maximo del PDL, Silvio “Meno-male-che-c’è”.

La situazione è così ridicola che mi ha fatto venire in mente una storiella. L’ho trovata nel libro Platone e l’ornitorinco, a esemplificazione di un atteggiamento che, in filosofia, viene chiamato emotivismo etico: è buono quel che mi fa piacere e mi fa sentire bene. Ovvero, nella versione di “liberalismo all’amatriciana” che Berlusconi sembra preferire, “facciamo quel che ci pare.”

Dice la barzelletta:

Un uomo scrive una lettera all’ufficio imposte dicendo: “Non riesco a dormire perché vi ho mentito. Ho dichiarato un imponibile troppo basso. Pertanto, allego alla presente un assegno di centocinquanta euro. Se continuo a non riuscire a dormire vi farò avere il resto.”

P.S.: Lo so, la storiella si presta a una facile contestazione. Viene infatti dagli Stati Uniti, un paese dove succede spesso che la gente soffra d’insonnia per il timore di non aver pagato tutte le tasse.

Qui da noi, è molto più comune che si dorma sonni tranquilli. E l’emotivismo etico, anziché un vizio, è normale che sia percepito come una virtù: “flessibilità, capacità d’adattamento,” si dice.

Per questo temo che del principio “deontologico” del PDL, enunciato da Bondi, finiremo per vedere applicata la seguente, estensiva interpretazione: “Dicesi procedimento penale di origine politica quel procedimento che, per qualsiasi ragione, vada a colpire un candidato o un eletto nelle liste del PDL.”

E siccome esclusi dalle cause di esclusione sono i procedimenti penali di origine politica, quale sarà mai il candidato o eletto nelle liste del PDL a veder sollevata contro di sé una causa di esclusione? L’ipotesi non esiste, per definizione.

E questo è il punto, ci dirà sorridente e sornione Silvio “Meno-male-che-c’è”. Il codice “deontologico” del PDL, a differenza di quello sinistramente liberticida di Veltroni, è “liberale”: lascia libero ogni candidato ed eletto del partito di fare quel che gli pare.

Silvio li sceglie? La sua scelta sana ogni difetto. Il popolo li vota? Il voto sana ogni difetto. Il popolo è sovrano, e non c’è nessuno più sovrano del leader che il popolo ama: Silvio “Meno-male-che-c’è”. Ahimé.

Un punto di vista contrario: Ken Fisher

Un investitore accorto rifiuta il dogmatismo, presta attenzione ai punti di vista più diversi, purché ben argomentati, elabora le sue opinioni in modo critico e libero da pregiudizi. Da quando questo blog è nato, la scorsa primavera, le mie valutazioni sul ciclo economico e sulle Borse sono state improntate a un fondamentale pessimismo. Tuttavia, al cospetto dei mercati finanziari, il mio istinto è di non sentirmi mai sicuro. Continua a leggere…

Qualche grafico sulla crisi dell’economia Usa

Dopo aver licenziato, un po’ frettolosamente, il mio post Recessione, Borse e ottimismo al Sole 24 Ore, mi sono imbattuto in diversi articoli interessanti che analizzano lo stato dell’economia Usa anche con l’ausilio di grafici più eloquenti di molte parole. Contestando la superficiale interpretazione data dal Sole 24 Ore ai dati macroeconomici americani della scorsa settimana, scrivevo domenica che le vendite al dettaglio erano apparse migliori del previsto solo a causa degli aumenti dei prezzi della benzina e dei beni alimentari. Quella che veniva spacciata per una tenuta dei consumi era solo inflazione.

Ho poi trovato il seguente grafico sul blog The Big Picture di Barry Ritholtz. E’ tratto da Haver Analytics e illustra l’andamento delle vendite al dettaglio in termini reali, depurati cioè dall’effetto distorsivo delle variazioni dei prezzi.

Come si vede, per la prima volta in questo ciclo, il tasso annuo di crescita è diventato negativo. E per Walter Riolfi de Il Sole 24 Ore questo sarebbe un motivo di ottimismo? Gli consiglio di leggersi il commento di Ritholtz: “(Il dato) suggerisce con forza che una recessione o è già in corso o è destinata a iniziare da un momento all’altro.”Nel mio post analizzavo poi la situazione del mercato del lavoro, che l’articolo de Il Sole 24 Ore trascurava di menzionare. Citavo, tra l’altro, il terribile rapporto sull’occupazione diffuso all’inizio del mese, la cui serie storica (con le variazioni mensili, in migliaia, a sinistra, e quelle annuali, in termini percentuali, a destra) è rappresentata nel grafico qui sotto, a cura di Barron’s Econoday, e tratto di nuovo da The Big Picture.

Il calo di 17 mila occupati a gennaio (il dato più negativo dall’agosto del 2003) è stato non solo molto al di sotto delle attese di consenso, ma anche peggiore della più pessimistica tra le stime formulate in precedenza dagli 80 analisti interpellati da Bloomberg.Nel mio post di domenica, non citavo invece – perché lo speranzoso articolo de Il Sole 24 Ore non me ne aveva offerto l’opportunità – il sondaggio ISM sul settore dei servizi, pubblicato all’inizio del mese.

Si è trattato del dato macroeconomico che di recente ha creato più sconquasso sui mercati, provocando un brusco calo delle Borse di un paio di punti percentuali – e per buoni motivi.

L’indice ISM è costruito in modo tale per cui il livello di 50 fa da spartiacque tra espansione e contrazione. Si tratta – ricordiamolo – di un affidabile sondaggio tra i responsabili degli acquisti di imprese operanti nel settore dei servizi, che rappresenta oltre l’80% dell’economia americana.

Le attese di consenso prevedevano una lieve flessione dal 53,9 di dicembre al 52,5 di gennaio. Il risultato è stato invece di 41,9, come indica il seguente grafico della Federal Reserve di St. Louis:

E’ il dato peggiore dall’ottobre 2001, subito dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre – quando l’economia Usa già era in recessione. Il crollo di 12,5 punti in un solo mese non ha precedenti nella storia dell’indice.

Nessuna componente dell’ISM ha offerto il benché minimo motivo di conforto. Tra i molti dettagli preoccupanti, su uno in particolare si è soffermato Paul Krugman (nella foto in alto) nel suo blog The Conscience of a Liberal. Il sotto-indice relativo all’occupazione è sceso dal 52,1 di dicembre a 43,9. Indica dunque che gli occupati nel settore dei servizi hanno iniziato a contrarsi. Ma di quanto? C’è un modo per stimarlo?

Krugman ha costruito una matrice dove ogni dato mensile della componente occupazione dell’indice ISM – dal luglio 1997 – è stato incrociato con il saldo pubblicato nel rapporto sull’occupazione del mese successivo.

Il risultato è quello che segue (i dati ISM sono sull’asse orizzontale, i risultati del rapporto sull’occupazione del mese successivo – espressi in migliaia di unità – sull’asse verticale):

La prima cosa che si nota è che la relazione è alquanto stabile: l’ISM ha cioè una notevole capacità predittiva dell’andamento reale del mercato del lavoro.

La seconda cosa ce la dice Krugman: il 43,9 del sotto-indice ISM corrisponde a una perdita, nel rapporto sull’occupazione del prossimo mese, di 137 mila posti di lavoro (dopo l’inatteso calo di 17 mila unità annunciato all’inizio di questo mese).

Il numero, naturalmente, è solo frutto di un calcolo statistico su dati del passato. Non va preso troppo alla lettera. Ma c’è di che tremare. “Se il dato ISM non è del tutto sballato – conclude Krugman – siamo già in piena recessione.”

Nel mio articolo di domenica, infine, non ho parlato del mercato della casa – di nuovo perché la rubrica de Il Sole 24 Ore non ne faceva cenno.

Ma sappiamo come i guai dell’economia Usa proprio da lì traggano origine. E’ allora importante chiedersi: come va il mercato della casa? C’è almeno qualche segno di stabilizzazione, dopo il collasso dell’ultimo anno?

No, il mercato della casa continua a peggiorare, come mettono in chiaro due grafici tratti dal blog Think B.I.G. di Bespoke Investment Group.

Il primo ci mostra il più recente aggiornamento (relativo al novembre scorso) dell’indice S&P/Case-Shiller sull’andamento dei prezzi degli immobili nelle dieci principali aree urbane americane: dal picco registrato nella seconda metà del 2006 i prezzi segnano un calo medio del 9,4%. Mese dopo mese, la flessione si va accentuando.

Quel che è più grave, le aspettative continuano a deteriorarsi, come evidenzia la tabella qui sotto, che sintetizza l’andamento dei contratti future, con scadenza novembre 2008, scambiati al Chicago Mercantile Exchange (CME).

Al momento, i contratti scontano che a novembre la flessione annua dei prezzi (annua e non dal punto di massima, come nel primo dei due grafici di Think B.I.G.) sarà, nella media (Composite 10), del 9,89%. Questa previsione – come indica l’ultima colonna – è peggiorata del 6,67% negli ultimi tre mesi!

“Spiragli di ottimismo”, scriveva il Sole 24 Ore. Ma dati alla mano, appare evidente come solo l’export regga ancora. Per il resto, mercato della casa, consumi delle famiglie, servizi e occupazione sono o stanno entrando in una crisi sempre più cupa.

Recessione, Borse e ottimismo al Sole 24 Ore

La rubrica Settimana finanziaria del Sole 24 Ore, a firma di Walter Riolfi, annunciava ieri – nel suo titolo – la comparsa di “Spiragli di ottimismo sui mercati.” L’occhiello chiariva che “tra gli operatori si attenuano i timori di recessione”, anche se il sottotitolo metteva in guardia come “la crisi del credito è lungi dall’essere conclusa e può frenare i consumi delle famiglie.” Rimproverandomi per le distrazioni che mi avevano impedito di condividere, nel corso della settimana, il più sollevato stato d’animo diffusosi a Il Sole 24 Ore, mi sono tuffato nella lettura dell’articolo.

Ho così appreso, tra l’altro, che:

a) la scorsa settimana “s’è parlato un po’ meno di recessione economica”;

b) i dati macroeconomici Usa dell’ultima settimana “sembrerebbero scongiurare l’evenienza estrema” (la recessione, ndr): vendite al dettaglio, produzione industriale e bilancia commerciale sarebbero infatti state un po’ superiori alle attese;

c) la Federal Reserve, dopo aver contemplato dieci giorni fa, per bocca di un suo esponente, uno scenario di recessione, si è mostrata “molto più cauta”. Il suo presidente Ben Bernanke, in particolare, ha previsto semplicemente una “crescita da lumaca” e poi un “andamento più sostenuto” verso fine anno;

d) Riolfi in persona è stato in questi mesi “poco convinto dell’imminente recessione Usa” e continua a esserlo, anche se resta “piuttosto scettico” sull’eventualità di una “forte ripresa” nella seconda metà dell’anno. Un “prolungato rallentamento economico negli Usa e in parte in Europa” è il suo scenario preferito. E come mai? Perché “la crisi del credito è lungi dall’essere conclusa […] e un credito ridimensionato significa pure un rallentamento dei consumi […]”;

e) infine, sempre Riolfi, rincuorato dal fatto che il suo cauto ottimismo sul fronte macroeconomico sembra finalmente diffondersi anche al di fuori delle stanze de Il Sole 24 Ore, si dichiara fiducioso sulle prospettive del mercato azionario. Magari non ci sarà un’inversione a “V” delle Borse (e cioè un rally altrettanto esplosivo quanto repentina è stata la caduta dai massimi). Ma “si dovrebbe vedere un buon recupero di parecchi titoli (specie medie capitalizzazioni) industriali, utility, tecnologici, le cui quotazioni sono state falcidiate.”

Ritorno alla realtà

Finita la lettura, mi sono stropicciato gli occhi. E ho cercato di ritornare con i piedi per terra.

Naturalmente, io non so cosa faranno le Borse nei prossimi mesi: inversione a “U”, “V”, “W”, o un altro tonfo del 20%. Né penso di sapere quali saranno i settori migliori. E non capisco come faccia Riolfi a prevedere scintille per i “falcidiati” titoli industriali, tecnologici e dei servizi di pubblica utilità.

Proprio a fianco all’articolo, il Sole 24 Ore pubblicava ieri una tabella con gli andamenti dei 18 macrosettori del mercato europeo, da cui era facile vedere come nell’ultimo anno utility, industriali e tecnologici hanno fatto tutti molto meglio dell’indice generale DJ Stoxx. Le utility, in particolare, sono state uno dei soli tre comparti a far registrare un andamento positivo (+3,8%) a 12 mesi. Dov’è la falcidie?

Purtroppo, l’abbozzo di analisi macroeconomica su cui poggiava l’articolo non era molto più accurato. Ed è su questo che vorrei concentrarmi, visto che è da qui che Riolfi sembra far discendere le positive aspettative di mercato propagate poi dalle pagine di un giornale influente come Il Sole 24 Ore.

Mi sono chiesto: ma è vero che i timori di recessione, tra gli operatori, si sono attenuati?

Per cercare di capirlo, sono andato a vedere un indicatore sintetico e sensibile, che consente di fare un’accettabile valutazione, e cioè il contratto US.recession.08 scambiato sul mercato di Intrade (di cui ho già diffusamente parlato nel post Mercati predittivi e recessione negli Usa).

Ecco il grafico:

Com’è evidente, dopo essersi impennato a partire dalla metà di ottobre (quando Wall Street cominciò la sua picchiata dai massimi), il contratto, da un mese circa a questa parte, si è stabilizzato in una stretta forchetta tra il 62% e il 70% di probabilità di recessione: insomma, due probabilità su tre – un livello molto elevato.Gli “spiragli” di ottimismo sono dunque da ieri visibili ai lettori del Sole 24 Ore, ma restano invisibili ai comuni investitori.

Bernanke: parole e fatti

Né ha senso farsi forza con le parole di Bernanke. Il suo ruolo istituzionale gli impone di seminare cautela quando c’è troppo ottimismo, e rassicurazioni quando si diffonde il timore.

A parole, un presidente della Fed non potrà mai permettersi di prevedere una recessione: verrebbe prontamente e giustamente accusato di contribuire a provocarla.

Nei fatti, i recenti interventi di politica monetaria, con tagli ai Fed Funds di 225 punti base negli ultimi 5 mesi, anche mediante il ricorso a procedure d’urgenza, bastano a evidenziare quanto i timori di recessione, alla Fed, siano elevati.

Dati macroeconomici da interpretare

Che poi “l’evenienza estrema” della recessione sia stata in qualche modo “scongiurata” dai dati macroeconomici dell’ultima settimana è un’interpretazione davvero curiosa.

L’articolo del Sole 24 Ore cita vendite al dettaglio, produzione industriale e bilancia commerciale. E già stupisce il fatto che non vengano citati dati, altrettanto recenti, ma eloquentemente negativi, come quelli sui sussidi di disoccupazione o sulla fiducia dei consumatori.

Vediamoli, nei grafici e nelle analisi di Northern Trust:

Il dato di giovedì ha fatto balzare la media mobile a 4 settimane delle richieste di sussidi di disoccupazione al livello di 347.250, il più alto dal giugno 2004. Il deterioramento, dagli inizi del 2006, non dà segni di tregua. Commenta Asha Bangalore di Northern Trust: “la debolezza del mercato del lavoro è persistente.”Naturalmente, le rilevazioni settimanali sui sussidi di disoccupazione integrano e aggiornano quella mensile sul mercato del lavoro nel suo complesso, l’ultima delle quali – diffusa il primo febbraio – ha offerto scoraggianti indicazioni.

Gli occupati a gennaio sono scesi di 17 mila unità e un indicatore importante come il rapporto tra quanti hanno perso il posto di lavoro nel corso del mese e il monte totale dei disoccupati nel settore civile è salito al 50,7% rispetto al minimo ciclico del 46,0% nel luglio 2006.

Come osserva Bangalore, ed evidenzia il grafico qui sotto (dove le fasce grigie rappresentano periodi di contrazione del Pil), un sensibile incremento di questo rapporto è tipicamente associato all’avvio di una recessione.

Curioso, dicevo, è anche il fatto che Riolfi non citi – tra i dati settimanali di un qualche interesse – quello sulla fiducia dei consumatori, diffuso venerdì. E’ stato peggiore del previsto, spingendo l’indice verso livelli molto più bassi di quelli della recessione del 2001 e paragonabili alla recessione del 1990-1991, come risulta chiaro dal grafico seguente, sempre tratto da Northern Trust:

Il sondaggio sulla fiducia dei consumatori non ha, dal punto di vista quantitativo, una stretta correlazione con l’andamento della spesa per consumi. Ma dal punto di vista qualitativo, è ovvio che un così marcato deterioramento può solo preoccupare.Tanto per cominciare, getta un’ombra sulla meno recente rilevazione relativa alle vendite al dettaglio di gennaio, che nel suo articolo Riolfi si sforza di presentare come una sorpresa positiva.

In verità, il frazionale incremento fatto segnare dalle vendite il mese scorso (+0,3%) è interamente ascrivibile all’aumento dei prezzi di prodotti alimentari e benzina (dunque, non delle quantità vendute). Ed è stato accompagnato da una revisione al ribasso delle vendite nel quarto trimestre del 2007, che già sulla base della stima iniziale erano state le meno dinamiche dalla fine del 2001 (quando l’economia Usa stava uscendo dalla recessione).

I bilanci in crisi delle famiglie Usa

Le vendite al dettaglio rappresentano poi solo una parte dei consumi complessivi delle famiglie, ed è sui secondi più che sulle prime che vale la pena concentrare l’analisi – come fa Paul Kasriel, chief economist di Northern Trust, nel suo ultimo Outlook mensile, pubblicato il 4 febbraio.

La motivata convinzione di Kasriel è che gli Usa siano con ogni probabilità già entrati in recessione (i dati ufficiali, soggetti ad ampie revisioni, sono sempre qualche mese in ritardo). E che a differenza del 2001, quando furono gli investimenti delle imprese a mettere in ginocchio l’economia, questa volta saranno i consumi delle famiglie a farlo – determinando una crisi di più difficile soluzione.

L’elemento di fondo, che Riolfi dimentica di menzionare nel suo articolo, è che le famiglie sono estremamente indebitate – per effetto della corsa all’acquisto di case, fin troppo incentivata dai tassi d’interesse negativi del triennio 2003-2005. Lo vediamo nel seguente grafico di Northern Trust, che mette in relazione l’indebitamento totale con il valore di mercato degli asset delle famiglie:

Il ricorso al credito non si è però tradotto solo nell’acquisto di case – mercato gonfiatosi a dismisura e che, com’è noto, sta ora contraendosi drammaticamente.

In parte ha infatti contribuito a spingere i consumi a livelli mai toccati prima in rapporto al reddito disponibile, come illustra il grafico seguente (PCE sta per spese per consumi personali mentre DPI significa reddito personale disponibile):

“La festa – osserva Kasriel – sta ora per finire.”

Non ci sono più aumenti dei prezzi delle case da utilizzare per avere maggiore, quasi indiscriminato accesso al credito. Al contrario, il collasso del mercato immobiliare ha messo in difficoltà tutto il settore finanziario, al punto che anche i tagli dei tassi a breve da parte della Federal Reserve, per un bel po’ di tempo, potranno fare ben poco per restituire dinamismo al credito.

Gravate di debiti, incapaci di accedere a nuovi crediti, anzi sotto pressione per ridurre una leva finanziaria eccessiva, le famiglie americane hanno nell’ultimo biennio fatto crescente ricorso – nel tentativo di fare quadrare i conti – alla cessione di altri asset finanziari, titoli azionari in particolare, che sono stati venduti al settore corporate.

Ma anche questa opzione, ora che le difficoltà delle Borse e la contrazione dei profitti aziendali impongono un freno a buyback e LBO, sta diventando sempre meno percorribile.

Resta una sola strada, conclude Kasriel, ed è la riduzione di livelli di consumo non più sostenibili.

Per tornare all’articolo di Riolfi, un altro dato che lui cita per illuminare i suoi “spiragli di ottimismo” è in fondo null’altro che l’ennesima dimostrazione di una domanda interna sempre più esangue.

“La bilancia commerciale è stata meno peggio del previsto,” scrive nel suo articolo. Ma vediamo il perché.

Le esportazioni a dicembre sono aumentate dell’1,5%, un dato positivo. Ma la vera ragione della sorpresa è stato il brusco calo delle importazioni, scese dell’1,1% dopo essere aumentate nei mesi precedenti.

Tutte le principali categorie di beni e servizi hanno mostrato il segno meno (a indicare una debolezza molto diffusa). E sul dato complessivo ha pesato in particolar modo il crollo delle importazioni di auto, scese del 9,4% su base mensile.

Il saldo commerciale migliora, dunque, perché la domanda interna è entrata in sofferenza, a partire dai beni più costosi e dove conta la disponibilità di credito, come l’auto.

Ovviamente, l’import è anche uno dei principali canali di trasmissione attraverso cui la crisi dell’economia Usa (e soprattutto dei suoi consumatori) si trasferisce all’estero, in un contagio ancora agli inizi.

“Spiragli di ottimismo” risulta a me difficile vederne. Una recessione negli Usa resta molto probabile ed è forse già iniziata.

Recessione e mercato azionario

Quanto al possibile impatto sui mercati azionari, scrivevo nel post Mercati azionari e rischi di recessione come in presenza di recessione i bear market americani dal 1950 a oggi abbiano avuto una durata media di 491 giorni – e cioè oltre un anno e quattro mesi. I massimi di questo ciclo sono stati toccati a Wall Street nella prima metà di ottobre, appena quattro mesi fa.

Se si prende la media come riferimento, e si assume, in linea col consenso e con l’evidenza dei dati, che una recessione americana è molto probabile, bisogna dunque mettere in conto – se non si vuole proprio essere degli sprovveduti – che il bear market azionario possa durare un altro anno.

Ci saranno dei rally, ma, in questo scenario, saranno dei bear market rally, cioè ritracciamenti in un trend ribassista o, in altre parole, trappole da evitare.

Naturalmente, le cose potrebbero andare diversamente. Magari anche per i motivi sbagliati, Riolfi potrebbe avere ragione. E se sarà così, sarò ben contento di riconoscerlo.

Come diceva Lord Keynes, “when the facts change, I change my mind. What do you do, sir?” (“quando i fatti cambiano, io cambio parere. E Lei, Signore, cosa fa?”)

La settimana scorsa, però, a dispetto degli “spiragli di ottimismo” annunciati dal Sole 24 Ore, i fatti non sono cambiati. Resto dunque del parere che ho già più volte espresso su questo blog, e ai miei lettori rinnovo l’invito a un’estrema prudenza.

P.S.: un’appendice a questo articolo – con altri grafici interessanti – può essere trovata qui.

Il value investing secondo Pabrai II

Nella prima parte di questo articolo ho esposto tre dei nove principi in cui Mohnish Pabrai (nella foto a fianco) sintetizza, nel suo recente libro The Dhandho Investor, la filosofia del value investing. Si trattava, come abbiamo visto, delle seguenti regole:

  1. 1. Concentrati nell’acquisto di quote di aziende già esistenti e ben avviate.
  2. 2. Investi in aziende semplici operanti in settori poco soggetti al cambiamento.
  3. 3. Compra aziende in difficoltà in settori in difficoltà.

Vorrei ora affrontare questi altri tre principi:

4. Compra aziende con un durevole vantaggio competitivo: il “fossato”.
5. Scommetti con forza quando le probabilità sono nettamente a tuo favore.
6. Concentrati sui giochi di arbitraggio. Continua a leggere…

Elettori attenti, i piccoli partiti sono una tassa

Segnalo e invito caldamente a leggere l’editoriale dell’economista Tito Boeri (nella foto) pubblicato oggi su La Stampa, dal titolo Il costo dei nani. Prende le mosse dai dati di dettaglio sulla spesa delle amministrazioni pubbliche, resi noti dall’Istat in questi giorni, e che consentono di fare finalmente un bilancio accurato di cosa è accaduto durante i 5 anni del governo Berlusconi (2001-2005). La spesa pubblica è aumentata di oltre 100 miliardi di euro. Come mai? Boeri ricorda come Berlusconi abbia spesso lamentato “i vincoli imposti dal diritto di veto dei partiti minori” e aggiunge che c’è da credergli.

“I piccoli partiti presidiano interessi specifici e difficilmente appaiono come responsabili degli aumenti delle tasse agli occhi degli elettori,” scrive Boeri.

“Quindi hanno tutto l’interesse a conquistare trasferimenti ai gruppi che rappresentano, noncuranti dei livelli raggiunti dalla pressione fiscale. I dati lo confermano: i sistemi politici maggiormente frammentati sono quelli che generano livelli più elevati di spesa pubblica. Più alto il numero di partiti, più difficile anche ridurre il numero dei parlamentari e tagliare i costi della politica.”

Partiti, spesa pubblica, legge elettorale

Purtroppo – osserva Boeri – alle lamentele di Berlusconi non sono seguiti i fatti. La legge elettorale che il suo governo ci ha lasciato in eredità “concede ancora più spazio alle formazioni minori.”

I risultati si sono visti: nella legislatura appena conclusa i partiti si sono moltiplicati, raggiungendo la cifra record di 39.

Più aumentano i partiti, più tende ad aumentare la spesa pubblica e più diventa difficile cambiare la legge elettorale.

“Rischiamo così di trovarci – scrive Boeri – in un circolo vizioso fatto di frammentazione politica che genera ulteriore frammentazione politica, il tutto sulle spalle o, meglio, sulle tasche degli italiani.”

Due vie d’uscita dal circolo vizioso

C’è un modo per uscirne? In realtà, ce ne potrebbero essere due.

Gli elettori – consapevoli che “c’è una tassa, nel vero senso della parola, associata al voto ai piccoli partiti” – potrebbero decidere di penalizzare col loro voto le forze minori.

Inoltre, le forze maggiori potrebbero impedire ai piccoli partiti di entrare a far parte di coalizioni elettorali, costruite al solo scopo di ottenere premi di maggioranza che consentirebbero – anche ai piccoli – di aumentare le loro compagini parlamentari.

Ci sono segni che qualcosa si sta muovendo in questa virtuosa direzione?

Boeri descrive come “lungimirante” la scelta di Walter Veltroni di portare il Partito democratico da solo al voto.

Mentre non è ancora chiaro cosa sia il Popolo delle Libertà. E’ un bene che intenda essere un partito vero e proprio – in grado di ricomporre differenze d’opinione al suo interno – e non una semplice lista elettorale. Ma ai fini del superamento dell’attuale, costosa, frammentazione del sistema politico, è anche “fondamentale che si chiuda a federazioni con partiti minori,” nota Boeri.

“Se così fosse, queste elezioni potrebbero davvero rappresentare una svolta per il Paese.”

“Molti piccoli partiti e piccoli leader sparirebbero come d’incanto e, durante la prossima legislatura, si potrebbe finalmente pensare di dotare l’Italia di una legge elettorale che non abbia un “ellum” come suffisso (che non sia, insomma, una bizantina “porcata” come l’attuale porcellum, ndr) e ridurre il numero di parlamentari, permettendo finalmente agli elettori di scegliere (cosa che l’attuale legge, con l’eliminazione del voto di preferenza, non consente, ndr) e a chi verra scelto di poter davvero governare.”

Parole d’oro, che sottoscrivo interamente. E che mi auguro servano a ispirare scelte più virtuose da parte di molti – elettori e leader politici.

Rialzati Italia

Amo il sabato. Mi posso dedicare ai figli, allo sport, agli svaghi in genere e anche alle amenità – come lo slogan che Silvio Berlusconi avrebbe scelto per la sua campagna elettorale: Rialzati Italia. Conoscendo la passione di Berlusconi per i miracoli e il  complesso di superiorità da cui è afflitto, immagino che lo slogan sia stato ispirato dall’episodio evangelico in cui Gesù guarisce un paralitico.

“’Alzati – disse allora Gesù al paralitico – prendi il tuo letto e va’ a casa tua’. Ed egli si alzò e andò a casa sua. A quella vista, la folla fu presa da timore e rese gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini.” (Matteo 9, 6-8)

L’immagine evoca messaggi che qualche effetto forse l’avranno nell’imminente campagna elettorale: l’Italia in paralisi, interventi dall’alto che sbloccano la situazione, un potere grande finalmente dalla parte della gente.

Dove però fatico di più a capire la scelta di Berlusconi è nell’implicita presunzione che un’Italia che si rialzi sia pronta a vedere in lui il suo salvatore.

Su questo ho dei dubbi. Mi pare infatti più probabile che un’Italia di nuovo in movimento dica a lui, come ad altri che hanno presieduto al declino italiano dell’ultimo quindicennio: “prendi la tua poltrona e va’ a casa tua.”

Fare qualche conto, per un’Italia non più paralizzata, sarebbe facile.

Da quel 26 gennaio 1994, che nei proclami di Berlusconi doveva segnare – con la sua “discesa in campo” – l’avvio del miracolo” italiano, sono trascorsi 5127 giorni di progressivo declino.

Con qualche alto e basso, naturalmente. Ma la direzione è stata quella.

E chi sono stati, per così dire, gli azionisti di riferimento di un lungo periodo di stasi che minaccia di portare alla necrosi?

Ecco le quote:

Berlusconi ha passato 2054 giorni come Presidente del Consiglio, pari al 40,1% del tempo trascorso dalla “discesa in campo.”
Prodi: 1518 giorni, pari al 29,6%
D’Alema: 552 giorni, pari al 10,8%
Dini: 487 giorni, pari al 9,5%
Amato: 412 giorni, pari all’8,0%
Ciampi: 104 giorni, pari al 2,0%.

Dopo De Gasperi, Andreotti e Moro, Berlusconi è il politico che ha più a lungo occupato la carica di capo del governo nell’Italia repubblicana.

Ha 71 anni, 5 figli e 3 nipoti. Potrebbe fare il nonno, occupazione a cui il suo rivale Prodi ha già detto di volersi dedicare a tempo pieno.In alternativa, se si sente ancora troppo pieno di energie e di progetti, perchè non torna a guidare le sue aziende? Ne hanno bisogno.

Mi sono permesso di fare qualche conto in tasca a Berlusconi. E sono preoccupato. Le sue ricchezze, negli ultimi anni, si sono quasi dimezzate. Il suo impero rischia di andare in malora.

Passi per il Milan, che è quinto in classifica a 20 punti dall’Inter. Ma Mediaset, Mediolanum e Mondadori, a giudicare dalle quotazioni di Borsa, sono alla deriva.

Ecco i grafici degli ultimi tre anni (tratti dal sito di Borsa Italiana), confrontati all’andamento dell’indice S&P/Mib:



Per un azionista qualunque c’è di che strapparsi i capelli.

Berlusconi, ora che i capelli li ha, non si abbandoni però ai gesti di sconforto. E’ padrone e vuole essere salvatore? Torni dunque alle sue aziende. Dia fondo ai suoi poteri taumaturgici. Le faccia rialzare. Sono loro, e non certo l’Italia, ad avere bisogno di lui.

Critiche a Greenblatt e al value investing

Da quando, sabato scorso, il collega Marco Liera ha pubblicato una critica risposta, sul supplemento Plus 24 del Sole 24 Ore, all’e-mail di una lettrice che si dichiarava felice di avere scoperto la Formula Vincente di Joel Greenblatt (nella foto), questo mio blog ha avuto un’impennata di accessi. Sono arrivate frotte di internauti interessati al post che ho dedicato, lo scorso novembre, a Greenblatt, alla sua formula e al libro che la spiega, e cioè Il Piccolo Libro che Batte il Mercato Azionario. Alcuni hanno scritto alla mia casella di posta, chiedendomi un parere sul parere di Liera. Le dimensioni del fenomeno, alla fine, sono diventate tali da farmi pensare che forse è utile che dica la mia a beneficio di tutti i lettori de L’Investitore Accorto. Continua a leggere…

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