Il value investing secondo Pabrai
Tra i giovani eredi della tradizione del value investing uno degli investitori che più si è messo in luce negli ultimi anni, come documenta il sito GuruFocus.com, è Mohnish Pabrai. Il suo veicolo d’investimento, Pabrai Funds, è stato costituito nel 1999 e non ha, dunque, una lunghissima storia. Ma la brillantezza con cui ha superato il bear market del 2000-2002 e il rendimento annualizzato, al netto dei costi, del 29% che ha saputo ottenere dall’avvio a oggi consentono di dire che il personaggio ha della stoffa.
La primavera scorsa Pabrai ha pubblicato negli Usa il suo secondo libro: The Dhandho Investor, the low risk value method to high returns. Sono 180 pagine scritte con semplicità, che forniscono una delle più complete e meglio articolate presentazioni del value investing in cui io mi sia finora imbattuto. Merita insomma parlarne.
Con la caratteristica umiltà dell’uomo di valore, Pabrai dichiara in apertura di libro di “avere ben poche idee originali.” Quasi tutto “è stato preso da qualche altra parte.”
Da dove, in particolare? “Se non ci fosse un Warren Buffett, non ci sarebbe un Pabrai Funds e certamente non ci sarebbe questo libro. E’ difficile per me esagerare l’influenza che Warren Buffett e Charlie Munger (l’amico e socio di Buffett, ndr) hanno avuto sul mio pensiero.”
The Dhandho Investor è dunque, prima di tutto, un’autorevole sintesi del pensiero di Buffett, che viene infatti citato, senza alcun riserbo, a ogni passo di un percorso che si snoda attraverso l’enucleazione di nove principi, i seguenti:
1. Concentrati nell’acquisto di quote di aziende già esistenti e ben avviate;
2. Investi in aziende semplici operanti in settori poco soggetti al cambiamento;
3. Compra aziende in difficoltà in settori in difficoltà;
4. Compra aziende con un durevole vantaggio competitivo: il “fossato”;
5. Scommetti con forza quando le probabilità sono nettamente a tuo favore;
6. Concentrati sui giochi di arbitraggio;
7. Compra aziende offerte a uno sconto notevole rispetto al loro valore intrinseco;
8. Compra aziende caratterizzate da basso rischio e grande incertezza;
9. E’ meglio essere un imitatore che un innovatore.
Ora che li ho enunciati, vediamo di approfondire a uno a uno i nove principi, seguendo – da bravi imitatori – la trattazione di Pabrai.
Investi in aziende già esistenti
Start-up, spesso in settori innovativi o con modelli di business rivoluzionari, e IPO (offerte pubbliche iniziali) sono da sempre al centro dell’attenzione degli investitori. Hanno il fascino della novità. Seducono col loro carico di speranze e di promesse, non ancora logorate dai segni dell’età o dalle cicatrici di troppe battaglie. Sono accompagnate dall’istintivo interesse dei media e dal battage di abili venditori.
Il value investor le ignora. Riconosce nel loro appeal una trappola.
Le IPO sono tipicamente offerte al mercato nei momenti di maggiore convenienza per il venditore, quando l’euforia impazza e le valutazioni sono gonfiate. Le start-up sono un concentrato di rischi e di incognite, troppo difficili da valutare.
L’investitore attento al valore, nota Pabrai, agisce con prudenza e si concentra su attività con una lunga storia alle spalle e operanti in settori dove i modelli di business sono ben definiti. A queste condizioni, operare una stima del vero valore di una società diventa meno aleatorio. Il rischio di gravi errori risulta minimizzato.
Acquistare sul mercato quote di società già da tempo in attività è preferibile, come strada verso l’arricchimento, anche all’avviare una propria impresa, una propria start-up – purché lo spirito e la cura con cui si investe sia lo stesso di colui che si dedica al proprio business.
I vantaggi offerti dal mercato sono molti.
Non c’è bisogno della stessa energia e dedizione richiesti dall’avvio di un’attività in proprio. Si possono possedere quote di diverse società, molto più liquide e dunque facili da comperare o da vendere, in tempi pienamente di propria scelta.
Mentre l’acquisto o la vendita di un’intera società avviene di solito secondo modalità che portano le due controparti a definire un prezzo razionale, il sistema d’asta che conduce alla formazione di un prezzo sui mercati azionari si presta a eccessi in momenti di volatilità e spiccata emotività.
Divergenze anche ampie tra il vero valore di una società quotata e il suo prezzo di mercato, che possono essere sfruttate dal value investor, sono dunque molto più comuni.
Acquistare o mettere in piedi un’intera società richiede inoltre capitali cospicui. Sui mercati azionari, un investitore può muovere i primi passi con un capitale minimo.
La scelta, sia per tipo di attività che per collocazione geografica dell’attività stessa, è poi necessariamente limitata per chi decida di fare l’imprenditore. Ma un investitore ha a disposizione, a distanza di un solo click, per lo meno 100 mila azioni diverse di società quotate ai quattro angoli del pianeta.
Infine, i costi di transazione, per chi compri o venda un’intera società, sono molto elevati – di solito nell’ordine del 5%-10% del prezzo d’acquisto. Ma per l’investitore in quote di società scambiate sui mercati organizzati, il costo non supera una qualche frazione di punto percentuale.
Investi in aziende semplici in settori poco esposti al mutamento
Per avere successo come value investor bisogna essere in grado di stimare il valore intrinseco di una società. Ma come si fa?
Proprio perché è difficile, il primo passo è quello di minimizzare i rischi di errore, puntando su business semplici in settori poco esposti al cambiamento.
Pabrai cita Buffett: “Vediamo il cambiamento come il nemico dell’attività d’investimento […] e dunque cerchiamo l’assenza di cambiamento. Non ci piace perdere soldi. Il capitalismo è alquanto brutale. Noi per questo prendiamo in considerazione prodotti comuni, di cui tutti hanno bisogno.”
Una volta attenutisi a questa condizione di partenza, il procedimento per calcolare il valore intrinseco è concettualmente semplice e noto da 70 anni.
Seguendo la formula ideata da John Burr Williams nella sua opera The Theory of Investment Value, pubblicata nel 1938, si tratta in sostanza di compiere i seguenti passi:
a) Stimare i flussi di cassa (free cash flow) di un business per il prossimo decennio.
Il concetto di free cash flow è semplice: è la liquidità residuale che un’attività genera dopo aver tenuto conto dei suoi fabbisogni di capitale.
E’ insomma il cash che i proprietari di un’attività potrebbero sottrarre all’attività stessa senza comprometterne le possibilità di crescita.
In pratica, si calcola a partire dall’utile netto, sommando svalutazioni e ammortamenti (i quali sono costi non monetari di cui si tiene conto nel calcolo degli utili ma che non influenzano i flussi di cassa), sottraendo le spese nette in conto capitale e l’incremento del capitale operativo netto.
Ecco la formula:
Equity free cash flow (EFCF) = Utile netto + Svalutazioni e ammortamenti – Spese nette in conto capitale – Incremento del capitale operativo netto
b) Calcolare il valore attuale (present value) dei flussi di cassa futuri utilizzando un appropriato tasso di sconto.
Concettualmente, il calcolo del valore attuale di un flusso di denaro atteso nel futuro è una questione per niente complessa. Per capirlo, è utile partire dalla domanda: “Quanto denaro si dovrebbe ricevere oggi perché sia indifferente ricevere la somma x oggi o, per esempio, la somma 100 tra n anni?”
E’ evidente che avere il denaro oggi ha un valore maggiore rispetto ad averlo domani o tra n anni. I flussi futuri vanno dunque scontati, utilizzando un adeguato tasso di sconto.
La formula, che è disponibile su Excel e su molti calcolatori – anche online, vedi qui – è la seguente (CF sta per cash flow, PV, present value, sta per valore attuale e DR, discount rate, per tasso di sconto):
PV = CF1/(1+DR) + CF2/(1+DR)(1+DR)+…reiterato tante volte quanti sono i flussi annuali da scontare.
c) Sommare al valore attuale dei flussi di cassa una stima del valore di vendita dell’attività tra 10 anni, attualizzato a oggi. Pabrai usa, per questo calcolo, un multiplo del free cash flow alla data di vendita.
d) Aggiungere infine la liquidità oggi in cassa e confrontare la stima del valore intrinseco così ricavata con il valore di mercato, dato dalla capitalizzazione di Borsa.
Vediamo, per esemplificare, come procede Pabrai a fare una di queste stime, calcolate in quattro e quattr’otto “su un foglietto di carta”.
Il caso preso in esame è quello di Bed Bath and Beyond (BBBY), un retailer specializzato in articoli per la casa, con una catena di oltre 800 grandi magazzini, quotato al Nasdaq.
Al momento in cui scrive, Pabrai riferisce che BBBY ha un prezzo di $36 per azione, pari a una capitalizzazione di 10,7 miliardi di dollari. Per il mercato, questo è il suo valore. Ma quale potrà essere, per il value investor, il suo “vero” valore, e cioè il valore intrinseco?
Sul sito di Yahoo Finance Pabrai va a vedere un po’ di statistiche recenti di BBBY: utile netto 505 milioni, spese in conto capitale 191 milioni, svalutazioni e ammortamenti 99 milioni…Insomma, il free cash flow è di circa 408 milioni.
Ma quali sono i tassi di crescita? Qualche rapido calcolo permette di osservare che i ricavi stanno aumentando del 15-20% l’anno e l’utile netto del 25-30%. Il capex è pure in aumento.
Pabrai stima allora che il free cash flow cresca del 30% l’anno per i prossimi tre anni, rallenti al 15% nei tre anni successivi, e scenda ancora al 10% per il resto del prossimo decennio. Alla fine del decennio, Pabrai stima che BBBY venga venduto per un multiplo tra 10 e 15 volte il free cash flow. Infine, va tenuto conto che al momento BBBY ha in cassa liquidità per 850 milioni di dollari.
Conclusione? Siccome Pabrai ha utilizzato un tasso di sconto del 10%, che è l’interesse che gli verrebbe garantito da un investimento alternativo a basso rischio, il valore intrinseco di BBBY risulta essere di circa 19 miliardi di dollari.
Wow! Il prezzo di mercato è di 10,7 miliardi, ma il valore “vero” è di 19 miliardi. Un affare!
Tuttavia, Pabrai vuole essere cauto. Va a rivedere le sue stime e si rende conto che sono un po’ aggressive. Non mettono in conto il benché minimo incidente di percorso. Inoltre, una lettura un po’ più attenta della più recente trimestrale di BBBY evidenzia che i tassi di crescita stanno rallentando: l’utile netto, anziché del 25-30%, sta ora crescendo attorno al 15%.
Mmmm…Pabrai rifà i suoi conti, stimando una crescita in graduale calo dal 15% al 5% nei prossimi 10 anni e una cessione finale per un multiplo di 10 volte il free cash flow. Risultato? Il valore intrinseco è ora sceso a poco più di 9 miliardi di dollari.
Investire oggi nel titolo significherebbe ottenere, nel prossimo decennio, rendimenti inferiori al 10% – che è il ritorno assicurato dall’alternativa “a basso rischio” che Pabrai ha a disposizione. A queste condizioni, il gioco non vale la candela.
Che fare, dunque? Il valore intrinseco di BBBY si può collocare in una forchetta tra una prudenziale stima di 9 miliardi di euro e una stima più aggressiva di 18 miliardi, rispetto a una capitalizzazione attuale di quasi 11 miliardi. La forchetta è molto ampia? Ma questi sono i margini di errore di stime così piene di incognite, anche quando si tratti di business relativamente stabili e prevedibili!
In ogni caso, non c’è un margine di sicurezza abbastanza ampio per considerare BBBY un investimento allettante. Per Pabrai, è meglio lasciar perdere.
Confrontiamo ora questa rapida valutazione con un caso assai diverso, come quello di Google. Quanto può valere Google? “Qui le cose si fanno molto complicate,” nota Pabrai. Se si estrapolano nel futuro i fenomenali tassi di crescita del recente passato, il titolo appare molto sottovalutato.
Ma chi può dire quando e di quanto la crescita rallenterà? Chi può sapere quando il monopolio di Google nella ricerca online sarà aggredito con successo da un qualche concorrente: Microsoft, Yahoo, o una nuova upstart? Queste sono domande a cui nessuno può rispondere e che rendono impossibile calcolare, anche in modo approssimativo, il valore intrinseco di Google.
Il value investor è consapevole dei suoi limiti e sceglie la semplicità: business di facile comprensione e dove la tesi d’investimento possa essere delineata con chiarezza.
“Io metto sempre giù per iscritto il motivo che mi spinge a fare un investimento,” dice Pabrai. “Se ciò richiede più di un breve paragrafo, allora mi rendo conto che c’è un fondamentale problema. E se devo addirittura ricorrere a Excel, si tratta di un enorme segnale d’allarme che mi suggerisce con forza di lasciar perdere.”
Investi in aziende in difficoltà in settori in difficoltà
I teorici dell’efficienza del mercato sostengono che cercare di stimare il valore intrinseco di un’azienda sarebbe una perdita di tempo.
Si tratta, nota Pabrai, di un punto di vista che è stato spesso ridicolizzato da Warren Buffett. Ecco alcune sue citazioni:
– “Osservando correttamente che il mercato era spesso efficiente, gli accademici e i professionisti di Wall Street hanno finito per trarre la conclusione che era sempre efficiente. Ma la differenza tra queste due proposizioni è come quella che c’è tra il giorno e la notte.”
– “Mi ha giovato ritrovarmi tra decine di migliaia d’investitori usciti dai corsi di finanza delle università, dove era stato loro insegnato che pensare non è di alcun aiuto.”
– “Investire in un mercato dove la gente crede nell’efficienza è come giocare a bridge con qualcuno a cui stato detto che guardare le carte non serve a nulla.”
– “Se i mercati fossero sempre efficienti, io sarei un accattone, seduto con il suo bicchierino di latta a un angolo di strada.”
I mercati sono dunque spesso efficienti. E per gran parte del tempo o in gran parte dei casi, cercare significative divergenze tra valore intrinseco e prezzo di mercato è una perdita di tempo.
Ci sono però momenti in cui gli investitori, in massa, diventano preda di emozioni estreme: quando si tratta di paura, i prezzi degli asset sottostanti finiscono per cadere al di sotto del valore intrinseco; quando si tratta di avidità e febbre speculativa, i prezzi si spingono verso esuberanti eccessi.
Se si tiene presente che, mentre la compravendita di un’intera azienda richiede tempo, quella di azioni può essere decisa e realizzata in istanti, si capisce perché i prezzi di mercato finiscano per oscillare molto di più dei valori intrinseci sottostanti.
Qui nascono le opportunità per il value investor, determinato ad approfittare del panico generale per acquistare a prezzi da saldo, in situazioni di stress, dei business facilmente comprensibili.
Ci sono dei modi per fare, di routine, un rapido screening di società in difficoltà?
Per il mercato americano, Pabrai ne raccomanda almeno sei, alcuni dei quali replicabili anche qui da noi. Ecco i suoi consigli:
a) Leggere con cura i titoli dei giornali. Sono pieni di storie negative su società o settori industriali in crisi.
b) Seguire i titoli vittima dei peggiori cali di Borsa, o con i multipli P/E più bassi o i dividend yield più alti. Per il mercato americano, Value Line pubblica ogni settimana una lista dei titoli che hanno perso più valore nei precedenti tre mesi. Si tratta, nota Pabrai, di un “eccellente indicatore di stress.”
c) Consultare la rivista Portfolio Reports, che pubblica ogni mese le 10 più recenti acquisizioni di 80 tra i migliori value manager al mondo.
d) In alternativa, visto che Portfolio Reports comporta dei costi di abbonamento, molte delle stesse informazioni possono essere ottenute, per il mercato americano, consultando il database EDGAR o il sito del Nasdaq.
e) Consultare il sito del Value Investors Club, fondato e gestito da Joel Greenblatt. Diventare soci non è certo alla portata di chiunque, visto che i requisiti sono estremamente selettivi e i membri, a oggi, non sono più di 250. Però, in qualità di ospiti, è possibile avere accesso con un paio di mesi di ritardo alle eccellenti idee d’investimento che i membri sottopongono al Club.
f) Leggere Il Piccolo Libro che Batte il Mercato Azionario di Joel Greenblatt e consultare il suo sito FormulaVincente.com (e il corrispettivo europeo Finanze.net, ndr), con le selezioni di titoli che vi sono presentate.
Queste sei fonti di informazioni, nota Pabrai, offrono abbondante materiale per ulteriori analisi, alla ricerca di quelle società semplici, facili da comprendere, e in difficoltà, tra le quali individuare i titoli pesantemente sottovalutati dal mercato.
Affronterò i restanti principi del value investing, nell’interpretazione che ne dà Mohnish Pabrai, nella seconda parte di questo articolo.
Wow, interessante!!! Grazie
Cortesemente avrei bisogno di un chiarimento, le riporto testualmente la sua frase di mio interesse:””””Investire oggi nel titolo significherebbe ottenere, nel prossimo decennio, rendimenti inferiori al 10% – che è il ritorno assicurato dall’alternativa “a basso rischio” che Pabrai ha a disposizione. A queste condizioni, il gioco non vale la candela.””””Mi potrebbe spiegare secondo lei quali sono gli investimenti alternativi a basso rischio che rendono il 10%Io non vedo niente che superi il4/5 per cento e se capissi dove non vedo le sarei grato.SERGIO MINUP.S. coplimenti per il suo servizio
Sergio,la ringrazio del quesito che mi permette di spiegare qualcosa che, in effetti, non era forse del tutto chiaro. Il 10% è solo un tasso assunto arbitrariamente come riferimento. Nel suo esempio, Pabrai mostra come procederebbe a valutare un titolo azionario, e la sua eventuale convenienza, ipotizzando di avere a disposizione un’alternativa sotto forma di un investimento a basso rischio (non meglio precisato) con un rendimento del 10%. Se poi si passa dalle ipotesi a mero titolo di esempio alla nostra realtà di oggi, è chiaro, come lei dice, che un investimento a basso rischio che renda il 10% non esiste.Spero che ora sia tutto chiaro.Cordiali saluti,Giuseppe Bertoncello
Nel mercato italiano il titolo “l’espresso” è da un paio d’anni che ha tutti i requisiti descritti nel libro.. Ma da un paio d’anni non fa altro che scendere..Non riesco a capire cosa non torni!
Edoardo,non so cosa la porti a dire che il titolo L’Espresso ha tutti i requisiti descritti da Pabrai. Dei nove principi di Pabrai, io per ora ne ho illustrati solo tre (degli altri sei scriverò nei prossimi giorni). Ma già soltanto limitandosi a quei tre, due mi sembrano poco rispondenti alla situazione de L’Espresso nell’ultimo paio d’anni.Non mi risulta che L’Espresso sia stata un’azienda in crisi. Nè si può dire che operi in un settore poco esposto al cambiamento.Anzi, ci sono pochi comparti del mercato globale così investiti come i media da epocali trasformazioni. In Italia ce ne rendiamo forse ancora poco conto, perchè il paese ristagna. Ma gli investitori guardano avanti, anche qui da noi.Se vuole qualche riferimento in più, soprattutto a testi che analizzano a fondo la rivoluzione in corso nel mondo dei media, può leggere una serie di tre post che ho scritto a luglio su questo blog, dal titolo “Internet, i media e l’imprevedibile futuro.”Sperò le darà un’idea di quanto radicali sono i cambiamenti che ci aspettano.
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