l'Investitore Accorto

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Critiche a Greenblatt e al value investing

Da quando, sabato scorso, il collega Marco Liera ha pubblicato una critica risposta, sul supplemento Plus 24 del Sole 24 Ore, all’e-mail di una lettrice che si dichiarava felice di avere scoperto la Formula Vincente di Joel Greenblatt (nella foto), questo mio blog ha avuto un’impennata di accessi. Sono arrivate frotte di internauti interessati al post che ho dedicato, lo scorso novembre, a Greenblatt, alla sua formula e al libro che la spiega, e cioè Il Piccolo Libro che Batte il Mercato Azionario. Alcuni hanno scritto alla mia casella di posta, chiedendomi un parere sul parere di Liera. Le dimensioni del fenomeno, alla fine, sono diventate tali da farmi pensare che forse è utile che dica la mia a beneficio di tutti i lettori de L’Investitore Accorto.

Per cominciare, vorrei dare un consiglio. Chi sa poco o nulla di Greenblatt, vada prima a leggersi il mio articolo di novembre, che penso presenti una sintesi fedele del Piccolo Libro e della sua formula (meglio ancora, ovviamente, è leggersi il libro, ma come momentaneo succedaneo il mio post può andare).

Dopodiché, eccoci pronti a puntare al “sodo”, con un sunto degli argomenti critici esposti da Liera nel suo commento e qualche mia personale considerazione.

Quattro critiche alla Formula di Greenblatt

Dalla risposta pubblicata su Plus 24 si evince che a Liera Il Piccolo Libro – con la sua semplice formula per la selezione dei titoli basata sui due criteri della redditività del capitale investito e del rapporto utili/prezzo – non piace più di tanto.

Come mai? Se ho capito bene, per i seguenti quattro motivi, in ordine crescente di gravità:

1) Un primo problema riguarda, in modo generico, l’approccio all’investimento azionario.

Greenblatt lo raccomanda (anche se scoraggia l’acquisto di singole azioni da parte di chi non sa analizzare i bilanci e “non ha idea di cosa sta cercando”), ritenendo che la sua Formula Vincente lo metta alla portata praticamente di chiunque.

Per Liera, invece, l’investimento azionario richiede requisiti tali (“preparazione, tolleranza alle perdite, orizzonte temporale pluriennale, situazione patrimoniale e reddituale congruenti”) da essere accessibile, probabilmente, solo a una “minoranza” di risparmiatori.

2) Un secondo problema riguarda l’uso della Formula Vincente.

Greenblatt mette in guardia dalle difficoltà nella sua applicazione, nei seguenti termini:

“Tre sono i veri ostacoli da superare: capire perché la Formula Vincente ha una sua logica ferrea, continuare a credere nella sua validità anche quando amici, esperti, i media e Mr. Market saranno di avviso contrario e, infine, prendere la decisione di seguirla”.

Ma esorta a superare tali ostacoli, convinto che ciò sia possibile.

Liera, invece, richiama la lettrice al dubbio, col solo intento – pare – di enfatizzare i rischi e dissuaderla. La invita infatti a chiedersi: “Riuscirò anch’io a far parte del ristretto gruppo di chi non abbandonerà mai (neanche nelle inevitabili fasi deludenti, ndr) il modello?”

3) Un terzo problema riguarda la validità dei risultati della Formula Vincente.

Greenblatt ritiene che i 17 anni (dall’inizio del 1988 alla fine del 2004) in cui è stata testata con successo (e quale successo!) siano sufficienti a dire che funziona, e non per caso.

Liera ritiene che 17 anni di “backtesting” di una formula che non è niente più che “uno dei tanti modelli possibili” di selezione dei titoli siano un periodo “non particolarmente lungo”, e comunque insufficiente per pervenire alla “certezza” che “il metodo continui a generare extraperformance nel lungo periodo”.

4) Un quarto problema ha a che fare con la natura e le ragioni del successo della Formula.

Greenblatt ritiene che se funziona è perché è un condensato – semplice, flessibile ed efficace – dei principi del value investing. Ha successo non per fortuna ma perché è “sensata.” Ed è sensata perché consente di selezionare “in modo sistematico” delle “società al di sopra della media” che possono essere acquistate “a prezzi inferiori alla media.”

Che ci siano poi investitori value che riescono a battere il mercato, anche con l’uso di semplici formule, non è una novità: gli esempi abbondano da quando il value investing è nato, grazie a Ben Graham, negli anni ’30 del secolo scorso.

Per Liera, invece, la Formula è solo un “metodo quantitativo” come tanti altri. Ed è noto che molti metodi quantitativi possono avere successo per un certo periodo di tempo, ma poi all’improvviso smettono di funzionare.

Il suo consiglio alla lettrice è così di “completare la sua preparazione di investitrice leggendosi qualche libro sul ruolo del caso nel fallimento dei modelli quantitativi, come quelli scritti da Nassim Taleb.”

Chi ha ragione?

Ora che abbiamo messo le carte in tavola, siamo finalmente pronti a chiederci: chi ha ragione?

Qualcuno potrebbe essere tentato di procedere in modo spiccio e liquidare così la faccenda: ma tra uno dei più grandi investitori al mondo – uno che da quando costituì Gotham Capital nel 1985 ha ottenuto rendimenti del 40% l’anno – e un caporedattore del Sole 24 Ore a chi si dovrebbe credere?

Si tratterebbe, però, di un argomento d’autorità che, per quanto legittimo, farebbe torto a Greenblatt, alla tradizione del value investing e anche, nel suo piccolo, a l’Investitore Accorto.

Esercitare il dubbio e la critica al fine di sviluppare autonome capacità di giudizio è una virtù su cui si fondano tanto l’intelligenza in sé quanto una filosofia d’investimento intelligente come il value investing. Per dirla con Karl Popper, “Il segreto dell’eccellenza intellettuale è lo spirito di critica, è l’indipendenza intellettuale”.

E infatti Greenblatt, a dispetto dei suoi successi, la Formula Vincente non cerca d’imporla come un atto di fede, ma la propone con un Piccolo Libro, scritto in modo semplice, esplicito ed esaustivo perché tutti possano farsene un’idea e valutare da sé.

La strada da seguire è allora quella del confronto. Gli argomenti di Greenblatt e quelli di Liera vanno soppesati, mettendoli, in partenza, sullo stesso piano. Vinca, insomma, il migliore, nel giudizio che ognuno riuscirà liberamente a formarsi dopo aver ascoltato le ragioni degli altri.

Poste tutte queste premesse, ecco cosa ne penso io.

Yes, we can

I punti 1) e 2) possono essere svolti assieme perché riflettono analoghe diversità nell’approccio “educativo” di Greenblatt e Liera nei confronti dei loro lettori.

Il primo chiarisce e mette in guardia al fine di incoraggiare: da educatore liberale, il suo motto, alla Barack Obama, sembra essere “Yes, we can”. Il secondo chiarisce (ma a volte, come vedremo, piuttosto confonde) e mette in guardia al fine, pare, di scoraggiare: il suo motto sembra essere “No, you can’t”.

Le azioni sono per tutti? Probabilmente, proprio per tutti no. Ma in Italia c’è ampio spazio perché la cultura dell’investimento azionario si diffonda presso un pubblico più vasto, che ne avrebbe i mezzi finanziari ma continua a restare privo di adeguate risorse informative e formative.

Enfatizzare, come fa Liera, i requisiti mancanti a “milioni di famiglie italiane”, tra cui la “preparazione” o “la tolleranza alle perdite”, non è di grande utilità. Contribuisce anzi a giustificare e consolidare un penoso status quo, in cui la gran parte dei risparmiatori del nostro paese finisce per ottenere rendimenti disastrosi dai propri investimenti.

In molti casi, quel che manca può essere acquisito con l’esperienza accompagnata da un’adeguata formazione – attività, quest’ultima, che non è o non dovrebbe essere estranea agli scopi di un’istituzione culturale dell’importanza del Sole 24 Ore.

Allo stesso modo, ingigantire le difficoltà psicologiche cui andrebbe incontro chi applica la Formula Vincente mi pare controproducente e inutilmente repressivo. Dopo tutto, come vedremo più sotto, nei 17 anni di test la formula ha dato un rendimento triennale che, nel peggiore dei casi, è stato di un guadagno dell’11% – rispetto a una perdita del 46% per il mercato. A conferma, in continuità con 70 anni di storia del value investing, che c’è più rischio nel mercato che nei portafogli selezionati secondo criteri di valore, come nel caso della formula di Greenblatt.

Insomma, leggendo in parallelo Liera e Greenblatt, vien da pensare che, se caporedattore del Sole 24 Ore fosse Greenblatt e non Liera, forse avremmo meno accigliati richiami alle insidie dell’investimento azionario e più concrete risorse a sostegno dell’“emancipazione” dei piccoli investitori.

Una formula un po’ speciale

Il punto 3) è interessante perché rivela, a mio avviso, qualche sorprendente incomprensione da parte di Liera, oltreché uno zelo davvero eccessivo nel sopire gli entusiasmi della lettrice.

Dire, come lui fa, che la Formula Vincente di Greenblatt è “uno dei tanti modelli possibili” di selezione dei titoli suona, francamente, come uno snobismo lontano dalla realtà. Stiamo infatti parlando di uno degli investitori di maggiore successo degli ultimi 25 anni e di una formula per molti versi straordinaria, che unisce alla geniale semplicità una qualità di risultati difficile da eguagliare.

Vediamo di riassumerli, questi risultati.

Nei 17 anni presi in esame, il portafoglio dei 30 migliori titoli, selezionati tra le 3.500 principali società quotate americane, avrebbe reso il 30,8% annuo rispetto al 12,3% del mercato. Il portafoglio dei 30 migliori titoli selezionati tra le 2.500 società principali avrebbe reso il 23,7% annuo rispetto al 12,4% del mercato. E il portafoglio dei 30 titoli selezionati tra le 1.000 società principali, tutte con capitalizzazione superiore al miliardo di dollari (escludendo dunque le small cap), avrebbe reso il 22,9% rispetto all’11,7% del mercato.

Considerando solo il portafoglio selezionato tra le 1.000 società principali (dunque, quello meno performante), nel 25% dei casi la Formula Vincente avrebbe reso meno del mercato per un anno di fila, e nel 17% dei casi per due anni di fila. La Formula sarebbe arrivata a fare peggio del mercato fino a un massimo di tre anni consecutivi, ma solo nel 5% dei casi.

Ma, ed è un ma che la dice lunga sulla bassa rischiosità della strategia, nell’arco di un trennio la Formula non avrebbe mai dato rendimenti negativi. Anzi, il risultato peggiore sarebbe stato un guadagno dell’11% rispetto a una perdita del 46% per il mercato (il periodo in esame, ricordiamolo, comprende il terribile bear market del 2000-2002).

Se si torna a includere le small cap, e ci si concentra sui risultati triennali del portafoglio selezionato tra le 3.500 società quotate principali, la Formula Vincente avrebbe sempre battuto il mercato, e il risultato peggiore sarebbe stato un guadagno del 35%.

Per Liera, questo è semplicemente “uno dei tanti (modelli) possibili” (sic). Per Greenblatt è invece una “formula un po’ speciale” con una sua “logica inoppugnabile.” L’eccezionale qualità dei risultati mi fa decisamente propendere per la seconda interpretazione.

C’è però un altro, più grave, elemento che rivela, a mio parere, o pregiudizio o incomprensione nel commento del Sole 24 Ore. Dice Liera che 17 anni sono un periodo “non particolarmente lungo”. Ma come Greenblatt mette bene in chiaro nel suo libro, non si tratta di 17 anni nel senso di 17 test di un anno ciascuno. Per come sono stati strutturati i portafogli (30 titoli ciascuno), e per come sono stati condotti i test (ogni mese, per una durata di 12 mesi, per tre tipi di selezioni diverse – universi di 1.000, 2.500 e 3.500 azioni), i risultati si riferiscono a un insieme di 4.500 selezioni diverse. Ripeto: 4.500 test, e non 17!

Commenta Greenblatt: “Sarebbe piuttosto azzardato sostenere che i risultati ottenuti sono dovuti soprattutto alla fortuna.” E, di nuovo, è con lui e non con Liera che mi pare ragionevole essere d’accordo.

C’è pure un terzo rilievo. Liera, compiendo una forzatura, si chiede se, anche allungando il “backtest”, si potrebbe comunque arrivare “alla certezza che un metodo così oculatamente verificato possa continuare a battere il mercato con la stessa continuità”.

Certezza? Costanza dei risultati? Ma Greenblatt non promette né l’una né l’altra.

Già in partenza, i due semplici criteri della formula (redditività del capitale investito e rapporto utili/prezzo, basati sugli utili dell’ultimo anno) fanno leva proprio su un principio tipico del value investing, e cioè la consapevolezza dei limiti della nostra conoscenza e della vacuità dei nostri tentativi di predire il futuro.

Come scrive Greenblatt: “Tutti i nostri problemi sembrano ridursi a uno solo: è difficile prevedere il futuro. […] Piuttosto che concentrare la nostra attenzione su tutte le cose che non conosciamo, proviamo ora a esaminare bene quelle poche che ci sono note.”

E in sintonia con questa premessa, ecco come si conclude il Piccolo Libro:

“Quello che invece non posso affermare, purtroppo, è che la Formula Vincente replicherà le medesime performance da capogiro conseguite in passato. Non sono un indovino. Però posso ribadire quanto segue: Sono convinto che la Formula Vincente e i principi che ne sono alla base, se utilizzati come guida ai vostri futuri investimenti, continueranno a rappresentare una delle migliori opzioni d’investimento a vostra disposizione.”

“Se riuscirete a rimanere fedeli alla formula sia nei periodi in cui la performance è eccellente, sia in quelli in cui lascia a desiderare, finirete col battere ampiamente il mercato. In breve, ritengo che anche se tutto il mondo dovesse venire a conoscenza della formula vincente, i vostri risultati continueranno non solo a essere piuttosto soddisfacenti ma, con un pizzico di fortuna, addirittura straordinari.”

Chi si esprime così non è un guru innamorato delle sue certezze. Ma un saggio investitore aperto al dubbio e allo stesso tempo ragionevolmente consapevole della fondatezza, e della non casualità dei risultati del suo approccio ai mercati.

Modelli quantitativi e value investing: il diavolo e l’acqua santa

Di questo ci resta ora da discutere, e siamo così arrivati al punto 4), il più importante. E’ il problema del caso, della ragionevole probabilità, e delle presunte certezze; di una qualche intelligibilità nel confuso fluire dei mercati finanziari, della fortuna e del determinismo di certi modelli della storia.

Liera descrive la formula di Greenblatt come un modello quantitativo, invitando la sua lettrice a “rendere un po’ più completa la sua preparazione […] leggendosi qualche libro sul ruolo del caso nel fallimento dei modelli quantitativi, come quelli scritti da Nassim Taleb.”

Direi che qui casca l’asino. Tanto che ci sarebbe da esortare Liera a rileggersi, anche lui, sia i libri di Nassim Taleb che quello di Greenblatt.

Lo faccio comunque io per primo, e volentieri. Perché, come il Piccolo Libro, anche Fooled by Randomness (Giocati dal caso) e The Black Swan (Il Cigno Nero) – le due opere di Taleb cui Liera fa riferimento – sono libri affascinanti, che non dovrebbero mancare nella biblioteca di ogni investitore.

Partiamo dunque dalla definizione e descrizione che lo stesso Taleb dà della finanza quantitativa, proprio all’inizio del suo The Black Swan.

“Diventai un ‘quant’ (un analista quantitativo, ndr) e un trader allo stesso tempo – un quant è una versione industriale di scienziato che applica modelli matematici di incertezza a dati finanziari (o socioeconomici) e a complessi strumenti finanziari. Solo che ero un quant esattamente al contrario: studiavo i difetti e i limiti di questi modelli.” […]

“Ero convinto di essere del tutto incompetente nel predire i prezzi di mercato – ma che gli altri erano in genere altrettanto incompetenti ma non lo sapevano, oppure non sapevano che andavano assumendo rischi enormi. La gran parte dei trader non facevano altro che ‘raccogliere spiccioli davanti a un rullo compressore’, esponendosi a eventi rari ma di forte impatto, eppure dormendo come dei pargoli, inconsapevoli del rischio. […]

“Il bagaglio tecnico che uno sviluppa lavorando da quant (un misto di matematica applicata, ingegneria e statistica), in aggiunta all’immersione nella pratica, si rivelarono utili per uno, come me, che in definitiva voleva fare il filosofo.” (la traduzione dal testo originale in inglese è mia, dato che non ho a disposizione la versione italiana del libro, ndr).

Modelli matematici di incertezza? Complessi strumenti finanziari? Previsioni dei prezzi di mercato? Trading? Misto di matematica, ingegneria e statistica? C’è qualcuno che riconosce in tutto questo qualcosa di vagamente simile alla Formula Vincente di Greenblatt? Liera ha preso fischi per fiaschi.

L’elementare formula di Greenblatt non è un “modello quantitativo” e la brillante esposizione di Taleb dei fallimenti dei modelli quantitativi – giocati dal caso – non è certo una critica del value investing o dell’interpretazione semplificata, accessibile a molti se non a tutti, che ne offre Greenblatt con la sua formula.

L’aspetto paradossale della risposta di Liera alla sua lettrice è che Taleb e un value investor come Greenblatt sono vicini e solidali nella critica all’arroganza epistemica, alle false certezze e alle ingannevoli promesse di certa scienza e certi modelli così diffusi presso l’establishment economico-finanziario.

Taleb sbugiarda la presunzione di quanti pensano di poter “prevedere” le vicende umane, normalizzandole all’interno di modelli dove il passato viene estrapolato nel futuro, e la probabilità è calcolata con matematica precisione perché si fa affidamento su una regolare distribuzione e ripetizione degli eventi.

A costoro replica che il nostro mondo non è “Mediocristan”, ma “Extremistan”: un mondo dominato da accadimenti infrequenti, imprevisti ed estremi.

Taleb ha ragione. Ma la sua è tutto tranne che una confutazione del value investing, la cui forza – da oltre 70 anni – sta nella semplice, assennata modestia che traspare da ogni pagina del libro di Greenblatt. “Non sono un indovino,” dice Greenblatt. E richiama alla mente altre citazioni famose nella storia del value investing. “La funzione del margine di sicurezza è, in sostanza, quella di rendere non necessaria una stima accurata del futuro,” diceva ad esempio Ben Graham quando invitava a investire solo laddove fosse possibile identificare un ampio gap (il margine di sicurezza) tra valore e prezzo di mercato di una società. Sapeva bene che “del futuro non v’è certezza” e che una intelligente strategia d’investimento doveva tenere conto dell’impossibilità di fare stime accurate.

La formula di Greenblatt, in perfetta continuità con la lezione di Graham e, dopo di lui, di Warren Buffett, si basa non su previsioni del futuro, ma su dati noti, relativi al recente passato. “Piuttosto che concentrare la nostra attenzione su tutte le cose che non conosciamo, proviamo a esaminare bene quelle poche che ci sono note,” scrive Greenblatt.

Astenersi dal predire il futuro, valutare accuratamente i dati noti del recente passato, cercare di comprare società di qualità superiore alla media (alta redditività del capitale investito) a prezzi inferiori alla media (alto rapporto utili/prezzo), fare ragionevole affidamento sulla tendenza del mercato a tornare, prima o poi, a valutare in modo congruo i titoli sottovalutati, costituire un portafoglio ben diversificato dove conti la tendenza media dei titoli sottovalutati a battere il mercato: la Formula Vincente è fatta di questi ingredienti.

Si tratta di una ricetta umile ed eminentemente sensata; una geniale semplificazione del value investing, che già riuscì a Graham col suo libro The Intelligent Investor.

E’ un approccio che sta agli antipodi di quei modelli quantitativi messi alla berlina da Taleb: impregnati, loro sì, di un mix di “matematica applicata, ingegneria e statistica” e utilizzati dai quant per predire il futuro e guidare, con millimetrica precisione, dei potenti e complessi strumenti finanziari a centrare i loro bersagli. A volte, con esiti imprevedibilmente fallimentari.

In conclusione, alla lettrice del Sole 24 Ore, se potessi, consiglierei anch’io di leggere Taleb, se già non l’ha fatto. Ma le direi anche di avere fiducia in Greenblatt – pur senza abdicare al continuo e vigile esercizio delle sue facoltà critiche – e di accantonare una risposta di Liera, che, più che essere d’aiuto a chiarire e distinguere, ha finito purtroppo per fare di ogni erba un fascio.

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12 pensieri su “Critiche a Greenblatt e al value investing

  1. Giacomo in ha detto:

    Devo assolutamente ringraziarLa per avermi fatto scoprire Graham.Sto avidamente leggendo “The intelligent investor” edito da Collins con commento di Jason Zweig. E’ semplice, didattico, appassionante (mi ha fatto sospendere la lettura del pur piacevolissimo “The age of turbulence”di Greenspan).A proposito, mi può passare titolo e casa editrice dell’originale di Greenblatt, visto che ho difficilmente accesso a libri in italiano?Cordiali saluti!

  2. Giuseppe Bertoncello in ha detto:

    Giacomo,mi fa piacere che Graham abbia catturato il suo interesse.”The Intelligent Investor” è un libro di raro acume ed è un vero peccato che non sia mai stato tradotto in italiano. L’edizione che lei cita è corredata da un commento di Jason Zweig che è pure di notevole qualità. Di Jason Zweig, per chi non ha problemi con l’inglese, raccomando la lettura del sito – una vera miniera di utili informazioni. Il link è tra i miei favoriti, nella sezione “Formazione dell’investitore”.Quanto al libro di Greenblatt, l’originale si intitola “The Little Book That Beats the Market” ed è stato pubblicato da Wiley nel novembre del 2005.Cordiali saluti,Giuseppe Bertoncello

  3. Andrea in ha detto:

    Grazie,Sig. Bertoncello!La leggo con piacere, apprezzando la sua correttezza ed il suo acume.In questi tempi di “profeti”, per sone modeste e competenti come lei si meritamo la mia stima.Continui così.Cordiali saluti

  4. Giuseppe Bertoncello in ha detto:

    Andrea,la ringrazio. Continuerò! Scrivere il blog mi diverte e gli incoraggiamenti, come il suo, mi sono naturalmente di ulteriore stimolo.Cordiali saluti,Giuseppe Bertoncello

  5. socrates in ha detto:

    Signor Bertoncello,complimenti per l’eccellente intervento con cui Lei corettamente ri-colloca Greenblatt, Taleb (e Liera..).Mi concedo una “debolezza” in materia statistica: è tautologica l’affermazione “..la probabilità è calcolata con matematica precisione..” (in Taleb). D’altro canto, la frase ha un peso assolutamente marginale nel contesto del suo articolo. Cordialmente.

  6. socrates in ha detto:

    Il sistema non permette di modificare un commento già pubblicato, per cui ricorro a questa macchinosissima procedura per cambiare, nel mio commento scritto sopra, la parola “corettamente” in “correttamente”. Cordialità.

  7. Giuseppe Bertoncello in ha detto:

    Socrates,la ringrazio per i complimenti.Quanto alla tautologia, mi permetta di osservare che è tale solo per la definizione che lei (in numerosa compagnia) evidentemente dà del concetto di “probabilità”.Ma per Taleb le cose non stanno così. Per lui, i nostri modelli matematici sono solo versioni “sterilizzate” della realtà, “mappe” che per il nostro istintivo desiderio di certezza finiamo facilmente per confondere con il “territorio.”Di probabilità, ad avviso di Taleb, ne capivano più di noi i pensatori classici, come Cicerone nel suo “De divinatione”: “Colui che conosce le cause capirà il futuro, eccetto che, dato che nessuno possiede tale facoltà tranne Dio…”, etc etc.Per Taleb noi riusciamo in genere a pensare solo a ciò che è accaduto. E in base a questo riteniamo di essere in grado di calcolare le probabilità di quanto potrà accadere. Ma non consideriamo ciò che sarebbe potuto accadere (le infinite varianti possibili della storia). Le stime che ricaviamo possono andar bene per il gioco dei dadi. Ma non nella realtà vera. E infatti le nostre capacità di prevedere gli eventi sono minime.Per fare un esempio, il crollo di Wall Street dell’ottobre 1987, in base ai modelli comunemente applicati alla finanza, ebbe una volatilità di 22 sigma: era improbabile che accadesse in tutta la storia dell’universo (!). E lo scorso agosto il CFO di Goldman Sachs se ne uscì pubblicamente lamentando il fatto che si ripetevano quotidianamente sui mercati degli eventi con una deviazione standard di 25 sigma (veda qui: http://worldbeta.blogspot.com/2007/08/really-with-seth-and-amy-part-ii.html)Frasi del genere e stime del genere, evidentemente, sono prive di senso. Però vengono abitualmente usate da figure ai vertici dell’establishment finanziario come un CFO di Goldman Sachs!Non so se abbia letto “Il cigno nero” di Taleb. Sospetto di no. Se però ha il libro, o intende acquistarlo, la pregherei di guardarsi con attenzione il capitolo nono. Dopo un lungo ragionamento (che non sto qui a riprendere) Taleb riassume, citando appunto Cicerone, la sua visione del concetto di probabilità (che non è lontana da quella che implicitamente ricorre nel value investing – dove Graham insegnò a pensare in termini di “margine di sicurezza” e Buffett insiste sull’inutilità dei tentativi di prevedere l’andamento dei mercati).Dice, dunque, Taleb: nei pensatori classici, come Cicerone, troverete, sul tema del caso, qualcosa di diverso. “Una nozione di probabilità che resta costantemente sfocata (“fuzzy”), come dev’essere, dal momento che tale mancanza di precisione appartiene alla natura dell’incertezza. La probabilità è un’arte liberale; è figlia dello scetticismo, e non un arnese per gente armata di calcolatori, vogliosa di soddisfare il desiderio di produrre calcoli elaborati e certezze.”La probabilità, per Taleb, è dunque una forma del pensiero filosofico, “un’arte liberale…figlia dello scetticismo.” Ha ben poco a che fare con la matematica.Cordialmente,Giuseppe Bertoncello

  8. socrates in ha detto:

    Egregio Signor Bertoncello, grazie per l’attenzione.Sono un canuto, indegno allievo di Giuseppe Pompilj e Giorgio Dall’Aglio. Con il mio mentore “so di non sapere” e ammetto senza pudore scarse frequenze con Taleb.Continuerò a leggerLa di gusto.Cordialità.

  9. Francesco Baietto in ha detto:

    Anch’io mi associo ai complimenti che le sono stati espressi.E spero le siano di incoraggiamento per continuare nell’attività che oggi giorno è davvero importante: la conoscenza economica.Quanti casi di famiglie sull’orlo della povertà per investimenti, mutui, sbagliati!Ma volevo anche condividere 2 righe:se ho ben capito volendo seguire questa metodologia porta ad avere un portafoglio titoli che costantemente è composto da una 30-ina di titoli.Due cose non mi sono molto chiare:- ogni quanto fare una revisione ed un eventuale cambio di titoli in portafoglio? perchè se fosse troppo sovente, il rendimento della formula dovrebbe essere simulato inserendo anche il costo delle commissioni che su non pochi titoli diviene non trascurabile, soprattutto se questi nel frattempo non hanno reso (o peggio hanno perso).- Per curiosità sono andato su : http://www.gurufocus.com/ per conoscere il nostro Joel ed andando sul suo portafoglio su: http://www.gurufocus.com/holdings.php?GuruName=Joel+Greenblattsi vede che ha solo due titoli in portfolio!Comsa ne pensa? Forse questa crisi è così forte da far desistere pure Joel da comprare i 30 titoli suggeriti dalla sua formula?CordialmenteFB

  10. Giuseppe Bertoncello in ha detto:

    Francesco, mi deve scusare. Il suo commento mi era sfuggito. Le rispondo così a distanza di un mese, ma spero resti valido il vecchio detto “meglio tardi che mai.”Nei commenti al mio post del novembre scorso sul libro di Greenblatt troverà risposte al quesito “quando rivedere il portafoglio”. Greenblatt, molto meccanicamente, suggerisce la modalità più semplice: una volta all’anno. Un’alternativa, per ridurre la rotazione di portafoglio e i costi associati, potrebbe essere quella di detenere oltre la scadenza dell’anno quei titoli che si trovassero ancora in posizione preminente nella lista dei top 100.Quanto a Greenblatt, è nota la sua tendenza a detenere portafogli estremamente concentrati. Nel suo caso, la formula è solo una prima griglia di selezione. A questo Greenblatt poi aggiunge una meticolosa ricerca sui singoli titoli, che lo porta a restringere le sue scelte d’investimento. Si tratta, ovviamente, di un approccio che Greenblatt stesso sconsiglia vivamente a un investitore qualunque. Chi non sia un maestro – come Greenblatt ha dimostrato di essere – nella valutazione dei titoli, dovrebbe sempre attenersi alla regola prudenziale della diversificazione.

  11. raffaele in ha detto:

    ciao Giuseppe Bertoncello, una domanda posso porla? veramente non è mai stato tradotto il libro di graham, io potrei/vorrei, dici che poi una casa editrice la trovo? sai son parecchie pagine, sforzo invano? io lavoro con messuri, gestore in skandia vita.

  12. valuephilosopher in ha detto:

    A chi e’ interessato alla magic formula del prof. Greenblatt, vorrei consigliare la lettura di un testo che amplia e riprende il tema: investire sui fondamentali. Il titolo e’ emblematico e devo dire che il successo chevha riscosso nella comunità finanziaria pure. What work on wall street, scritto da un practicioner, non un professore, James o’shaughnessy. Seppure poco discorsivo, dimostra chiamente che il formula investing ha senso, quando si concentra sui fondamentali corretti. Devo comunque dire che i financials possono aiutare a giudicare la performance passata ma non sono per forza un predatore della perfornace futura. Per questo accanto all’analisi quantitativa un intelligent investor secondo l’accezione Grahamiana non può esimersi da un approccio anche qualitativo, tipicamente basato sulle teorie del prof Porter e sugli studi di Greenwald al fin di assicurarsi che la qualità’ dell’azienda comprata (e quindi delle sue azioni) sia tali da permettere un eccelletente ritorno atteso sull’investimento, in presenza di un catalizzatore in grado di fare emergere il valore inespresso attualmente nei prezzi di borsa ed evitare i cosiddetti value traps. Il merito del’amico Montier sta senza dubbio nell’aver esplicitato quanto la scuolanclassica del value investing ha sempre sostenuto: i mercati sono inefficienti per varie ragioni, ma la principale e’ che sono fatti da uomini, che non sempre evidentemente agiscono razionalmente (razionalità’ che invece sta alla base di ogni modello finanziario utilizzato da wall strett per prezzare assets, a partire dal capm). come dice james, the ehm is as dead as the monty paiton parrot…

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