l'Investitore Accorto

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Asset allocation: perché conviene diversificare

La notizia che il miliardario britannico Joe Lewis (nella foto) avrebbe perso oltre un miliardo di dollari in seguito al tracollo della banca d’investimenti Bear Stearns impartisce una lezione non nuova ma sempre utile sui rischi della speculazione finanziaria e delle scommesse concentrate.

Lewis, oltre che proprietario della squadra di calcio londinese del Tottenham, era fino a qualche giorno fa, secondo la rivista Forbes, il 369esimo individuo più ricco del mondo, con un patrimonio stimato di 2,5 miliardi di dollari – accumulati in gran parte grazie ad audaci puntate sui mercati valutari.

Vincente nel prevedere l’uscita della sterlina dal sistema monetario europeo nel 1992 o la svalutazione del peso messicano nel 1994, Lewis – che aveva mosso i primi passi gestendo il pub di famiglia nel popolare East End di Londra – questa volta ha visto male, accumulando in un batter d’occhio, sulla sua quota del 9,4% della banca americana, una minusvalenza pari a oltre il 40% del suo patrimonio.

Le speculazioni azionarie delle famiglie italiane

Se riprendo questa storia è perché il suo significato non è solo aneddotico. Fatte le debite proporzioni, infatti, le speculazioni alla Lewis – con tutt’altre risorse, abilità e consapevolezza dei rischi – sembrano essere un tratto tipico anche delle famiglie italiane. Vediamo il perché.

Nella seguente tabella, ripresa dall’ultima relazione annuale della Banca d’Italia, si vede come a fine 2006 i titoli azionari (quasi esclusivamente del mercato domestico) costituivano circa il 25% delle attività finanziarie delle famiglie italiane.

E’ un dato simile a quello di una approfondita ricerca di Borsa Italiana di fine 2004, dalla quale emergevano altri dettagli interessanti, primo fra tutti la composizione dei portafogli di quei tre milioni di famiglie, o poco meno, che risultavano detenere azioni in forma diretta. Eccola qui riassunta:


Il 93,5% degli investitori in azioni italiane possedeva meno di 5 titoli, e 3 su 4 ne possedevano al massimo due. La componente azionaria – rappresentativa di circa un quarto del valore complessivo delle attività finanziarie di queste famiglie – era dunque estremamente concentrata.

Per quanto le famiglie italiane tendano a descriversi come investitori prudenti, il rischio di portafogli così costruiti è molto alto, più affine alle speculazioni di un Joe Lewis che alla prudente gestione che ci si aspetterebbe dal proverbiale “buon padre di famiglia.”

E’ evidente che da parte della stragrande maggioranza dei piccoli investitori italiani la nozione di rischio non è ben compresa e ancora meno lo sono i benefici della diversificazione. Merita allora parlarne.

Costruzione di un portafoglio: caccia al rendimento

Di come costruire correttamente un portafoglio ho già scritto, in questo blog, nel post Asset allocation: un vademecum per l’investitore.

Vorrei ora approfondire un aspetto particolare ma importante di quell’articolo, e cioè come una corretta diversificazione riesca a migliorare il rapporto tra rischio e rendimento di un portafoglio, consentendo, in altre parole, di aumentare il rendimento dato un certo livello di rischio o di ridurre il rischio dato un certo rendimento.

Tornerò a utilizzare esempi e ragionamenti che William Bernstein svolge nel suo libro The Intelligent Asset Allocator.

Ipotizziamo dunque una condizione elementare di partenza: un investitore che ha i suoi risparmi in sicuri Bot o pronti contro termine con un rendimento fisso e certo del 3% annuo.

Supponiamo ora che gli venga offerta una prima alternativa: investire i suoi risparmi in un asset che, in modo del tutto casuale, in base al lancio di una moneta all’inizio di ogni nuovo anno, garantisce un ritorno positivo del 30% quando esce testa e negativo del 10% quando esce croce.

Come valutare questa proposta? Trascuriamo per ora il fatto, importante nella realtà, che l’esito finale di un simile investimento sarebbe pesantemente condizionato dall’ordine dei risultati del lancio della moneta (ad esempio, partire con una successione casuale di tre teste seguite da tre croci sarebbe molto diverso dal partire con tre croci seguite da tre teste).

Concentriamoci invece sulla considerazione che in un arco di tempo sufficientemente lungo, teste e croci finiscono per rappresentare ciascuna il 50% dei casi. Ciò vuol dire che, nel nostro esperimento mentale, la successione dei lanci può anche essere descritta come un’alternanza di testa e croce.

In ogni biennio, avremmo dunque un rendimento positivo del 30% accompagnato da uno negativo del 10%. Per ogni euro investito, il risultato a fine biennio sarebbe dato dal seguente calcolo:

1,3 x 0,9 = 1,17

pari a un rendimento del 17% nell’arco di ogni due anni. Ciò corrisponde a un rendimento composto annuo (o rendimento annualizzato o ancora rendimento medio geometrico, sono tutte espressioni equivalenti) dell’8,17% (1,0817 x 1,0817 = 1,17).

(N.B.: vale qui la pena richiamare la differenza tra rendimento medio aritmetico e rendimento medio geometrico o composto. Nel primo caso si calcola la semplice media aritmetica, che nel nostro esempio è del 10%. Nel secondo caso si calcola la media geometrica, o, in altre parole, quel rendimento che un investitore dovrebbe realmente conseguire, anno dopo anno, per arrivare al risultato finale, nel nostro esempio l’8,17%. Il rendimento geometrico o composto o annualizzato è sempre inferiore a quello medio aritmetico. La differenza è dovuta alla volatilità, ossia alla variabilità dei rendimenti nel corso del tempo. Infine, chi non conosca la formula per il calcolo di un tasso composto – che non darò qui per non appesantire il discorso – può fare ricorso alla funzione ‘media geometrica’ in Excel o usare un calcolatore. Ce n’è uno anche tra i tool del mio blog, il CAGR Calculator).

Abbiamo dunque valutato l’investimento alternativo. Ed è evidente che, col suo 8,17% medio annuo, si tratta di un’opzione più redditizia rispetto al 3% fisso del Bot o del Pronti contro termine.

Rischio e rendimento

Al maggior ritorno corrisponde però anche una maggiore volatilità, o, in altri termini, un maggior rischio. Come lo si può misurare?

In finanza, è consuetudine fare uso del concetto di deviazione standard, una misura statistica della dispersione di una serie di dati attorno alla sua media. Quanto più è alta questa misura, tanto più i dati fluttuano attorno al valore medio, e viceversa.

In pratica, per chi non conosca la formula, calcolare la deviazione standard è facile, utilizzando ad esempio la funzione ‘dev.st’ di Excel. Nel nostro caso, la deviazione standard è del 20% (i dati sono +30% e -10%, la media è 10%).

(N.B.: apro un’altra breve parentesi per osservare che sia la definizione di rischio in termini di volatilità, che l’utilizzo della deviazione standard come misura del rischio sono oggetto di pesanti critiche da parte di investitori e pensatori che spesso cito nel mio blog. Si tratta di critiche che condivido, e che spero di poter approfondire in altre occasioni. Se qui faccio uso dei concetti di volatilità e di deviazione standard è perché le ritengo utili semplificazioni nel limitato contesto di questo mio post, teso a illustrare i benefici della diversificazione a un pubblico di investitori non professionali).

Tornando al nostro discorso, si dà il caso che l’esempio che, seguendo Bernstein, abbiamo preso in considerazione richiama da vicino il rischio e il rendimento di lungo periodo delle azioni a larga capitalizzazione, come già scrivevo nel mio precedente post sull’Asset allocation, dove riportavo anche una tabella con rischi e rendimenti medi attesi per tutte le principali classi di asset.

I benefici della diversificazione

Supponiamo a questo punto che al nostro investitore venga offerta una seconda, più complessa alternativa all’investimento in Bot o Pronti contro termine: un doppio lancio di moneta, ciascuno relativo a una metà dei suoi risparmi, sempre con un rendimento garantito del 30% in caso di testa e uno negativo del 10% in caso di croce.

Le combinazioni possibili sono ora quattro anziché due: testa/testa per un rendimento totale del 30%; testa/croce per un rendimento totale del 10%; croce/testa per un rendimento totale del 10%; e croce/croce per un rendimento totale negativo del 10%.

Nel lungo periodo, ognuno dei quattro risultati sarebbe ugualmente probabile e ciò vuol dire che in ogni quadriennio il rendimento potrebbe essere così calcolato:

1,3 x 1,1 x 1,1 x 0,9 = 1,4157

Il 41,57% nel quadriennio corrisponde a un rendimento composto annuo, per questa seconda opzione, del 9,08% (1,0908 x 1,0908 x 1,0908 x 10908 = 1,4157).

E quale sarebbe il rischio, in termini di volatilità dei ritorni attorno alla media? Una deviazione standard del 14,14%.

Confrontiamo ora la prima alternativa con la seconda. Di fatto, nel secondo caso, abbiamo costruito un portafoglio (molto virtuale, a soli fini di esempio) di due azioni con andamenti non correlati, ossia indipendenti l’un dall’altro (indipendenti come lo sono i lanci di una moneta, dove il risultato di ogni nuovo lancio non è condizionato dal risultato dei lanci precedenti).

Il portafoglio diversificato (col doppio lancio di moneta, ossia con due azioni) ha un rendimento superiore di quasi un punto percentuale rispetto a quello non diversificato (9,08% anzichè 8,17%) e un rischio inferiore (deviazione standard del 14,14% anziché del 20%).

Si è così dimostrato il principio più fondamentale della cosiddetta teoria di portafoglio, elaborata per primo dal premio Nobel Harry Markowitz negli anni ‘50: diversificare un portafoglio tra asset non correlati consente di aumentare i rendimenti e di ridurre il rischio, migliorando il rapporto rischio/rendimento, o, con termine più tecnico, il cosiddetto risk adjusted return (rendimento RAR).

Cominciando a tirare le fila di questo post, spero si sia capito che diversificare serve non solo per il motivo più evidente, che è quello di evitare di perdere buona parte del proprio patrimonio per una scommessa andata a male, à la Lewis. Consente anche di migliorare il rendimento dato un certo livello di rischio e, operando sia sul rischio che sul rendimento, a ottimizzare il loro rapporto.

Occorre, in chiusura, fare però un’ultima, importante avvertenza.

Correlazioni tra classi di asset

L’esempio che ho tratto dal libro di Bernstein dà un risultato eclatante al semplice passaggio da un portafoglio con un’azione a un portafoglio con due azioni perché l’andamento dei due titoli è indipendente.

Si tratta, ripeto, di un esperimento mentale. Nella realtà, titoli azionari che siano tra di loro così perfettamente non correlati non esistono. E la diversificazione, per funzionare, deve essere molto più ampia.

Sappiamo bene che in un bear market gran parte dei titoli tende a scendere e in un bull market gran parte dei titoli tende a salire. Ciò rivela che, in concreto, le correlazioni all’interno di una stessa asset class sono in genere positive. E lo sono anche tra asset class diverse ma non troppo, come le azioni domestiche e quelle internazionali, le large cap e le small cap, i titoli value e i titoli growth.

Per ottenere dunque quei bassi coefficienti di correlazione che permettono una significativa riduzione del rischio, un portafoglio va diversificato molto di più di quanto non abbiamo fatto nel nostro esempio (e di quanto non facciano in media i piccoli investitori italiani), introducendo svariate asset class, le più diverse tra loro.

Un’ottima esposizione di questo aspetto della costruzione di un portafoglio, così come dei principi generali dell’asset allocation, può essere trovata nel libro All About Asset Allocation di Richard Ferri.

Dal sito della società di gestione di Ferri, Portfolio Solutions, e in particolare da uno studio lì pubblicato sulle correlazioni tra classi di asset, aggiornato al 2006, vorrei trarre alcuni grafici che ci aiuteranno a comprendere meglio il discorso.

Il primo grafico, qui sotto, ci mostra la correlazione a 36 mesi tra azioni e titoli del Tesoro americani a medio termine (il coefficiente di correlazione si misura da +1, correlazione perfettamente positiva, a -1, correlazione perfettamente negativa).


Come si nota, le correlazioni variano nel tempo e, nel caso di azioni e obbligazioni, possono anche cambiare di segno.

Fino al 2000 è prevalsa una correlazione positiva, mentre da allora la correlazione è diventata negativa, com’è tuttora il caso. Con l’intensificarsi dei timori di recessione, i prezzi delle azioni negli ultimi tempi hanno preso a scendere e lo stesso hanno fatto i tassi d’interesse, che hanno così spinto al rialzo le quotazioni del reddito fisso. In portafoglio, azioni e bond si muovono in direzione inversa.

Il secondo grafico di Portfolio Solutions riguarda la correlazione, sempre a 36 mesi, tra mercato azionario americano (S&P 500), azioni europee e azioni dell’Estremo Oriente asiatico (Pacific Rim).


La correlazione, in questo caso, è sempre stata positiva ed è andata aumentando nel tempo. L’azionario americano ed europeo sono molto correlati, quello asiatico un po’ meno.

Il terzo grafico, qui sotto, ci mostra la correlazione tra real estate (i REIT – Real Estate Investment Trust – sono i fondi azionari rappresentativi di pool di immobili commerciali), azionario e obbligazionario americano.


Il coefficiente è tendenzialmente positivo ma basso, soprattutto in rapporto alle obbligazioni. Il settore immobiliare ha andamenti che, nel complesso, sono abbastanza indipendenti rispetto alle altre principali asset class e per questo rappresenta un’ottima diversificazione.

Infine, il quarto grafico, che segue, illustra la correlazione tra le materie prime (indice CRB) e i mercati azionario e obbligazionario americano.


Com’è evidente, la correlazione è molto bassa e spesso negativa. Asset reali come le materie prime offrono i rendimenti migliori quando gli investitori fuggono dagli asset finanziari in reazione a crisi finanziarie o nel timore dell’inflazione.

E’ quanto è accaduto negli ultimi tempi. Anche in questo caso, le possibilità di diversificazione rispetto alle azioni e ai bond, le due asset class “regine”, sono elevate.

Diversificazione e value investing

Vorrei concludere con una citazione di Warren Buffett, un po’ lunga ma così sapida da meritare di essere ripresa integralmente. Mi consentirà di superare una contraddizione che forse alcuni tra i più fedeli lettori del blog avranno colto.

Value investor come Buffett, Joel Greenblatt o Mohnish Pabrai, che ho additato ripetutamente a modelli, praticano una relativa concentrazione dei portafogli (anche se in modi molto diversi da Joe Lewis o dalle famiglie italiane), non la diversificazione.

Perché, dunque, dopo aver fatto del value investing la filosofia di riferimento del mio blog, me ne discosto dedicando tanto spazio alla teoria di portafoglio, all’asset allocation e ai benefici della diversificazione?

Il motivo è che non tutti gli investitori hanno le stesse capacità. E non c’è un’unica filosofia d’investimento che possa essere giusta per tutti.

In breve, il mio pensiero è questo: chi può si educhi a diventare un value investor, è la via migliore; gli altri riconoscano i loro limiti e si affidino alle gestioni passive e a una diversificazione ben fatta. In ogni caso, i risultati saranno superiori a quelli ottenuti dalla media delle gestioni professionali o, ancor di più, a quelli, catastrofici, derivanti dall’incosciente “fai da te”.

Ho detto che questo è il “mio” pensiero. Lo è, ma ne sono debitore a Warren Buffett, come si evince dal seguente estratto dalla sua lettera annuale agli azionisti di Berkshire Hathaway del 1993 (la traduzione è mia):

“Una situazione che richiede un’ampia diversificazione ha luogo quando un investitore che non capisce, nello specifico, come si valutano le aziende è tuttavia convinto che sia nel suo interesse avere dei titoli di proprietà nel mercato azionario. Quell’investitore dovrebbe sia detenere un largo numero di azioni sia distribuire nel tempo i suoi acquisti.”

“Ad esempio, comprando periodicamente quote di fondi indicizzati l’investitore ‘che non sa nulla’ può in realtà ottenere risultati migliori della gran parte degli investitori professionali. Paradossalmente, quando ‘l’investitore sciocco’ (dumb money) riconosce i suoi limiti, smette di essere sciocco.”

“D’altra parte, se uno è invece un investitore ‘che sa qualcosa’, in grado di capire come si valuta un business e di trovare cinque-dieci aziende quotate a prezzi ragionevoli e in possesso di importanti vantaggi competitivi di lungo periodo, la diversificazione, com’è di solito intesa, perde del tutto di significato. Può soltanto danneggiare i risultati di quell’investitore e aumentare i suoi rischi.”

“Io non capisco perché un investitore di quel tipo dovrebbe pensare di mettere dei soldi in un’attività che, tra le sue preferite, sta al ventesimo posto invece di aggiungere altro denaro alle sue scelte migliori – quelle società che comprende di più e che presentano i rischi più bassi oltre che il potenziale di profitto maggiore.”

“Come ha detto la profetessa Mae West: ‘Avere troppo di una cosa buona può essere magnifico.’”

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7 pensieri su “Asset allocation: perché conviene diversificare

  1. iNMRauthor in ha detto:

    Warren Buffet parla cosi’ perche’ acquisisce quote di controllo. Non basta aver fiducia di chi gestisce il tuo patrimonio, bisogna anche conservare il potere di dirigerlo.

  2. ENTJ in ha detto:

    Complimenti per l’analisi, ampia ed equilibrata come sempre.Il vizietto di costruire il proprio portafoglio con poche azioni italiane acquistate a naso, o su suggerimento del promotore di turno, di questi tempi sta facendo versare lacrime di coccodrillo a molti.Una coppia di miei conoscenti ha quasi tutti i suoi investimenti in azioni Telecom (lei) e Alitalia (lui). Alla mia domanda sul perché non avessero diversificato, mi hanno risposto confusamente dandomi stime di crescita e azzardando previsioni da trader navigati. E’ chiaro che non hanno la minima idea di ciò che fanno.Ho accennato alla mean-variance optimization, ho elencato i vantaggi dei fondi indicizzati e del rebalancing periodico, infine gli ho consigliato di orientarsi su ETF collegati ai grandi indici azionari internazionali.Sembravano convinti, tipo: “Tutto questo è talmente ovvio, perché non ci abbiamo pensato prima? Domani andiamo in banca e rivoltiamo tutti i nostri investimenti come un calzino. Grazie!”.Poi ho saputo che lei ha nuovamente acquistato quote Telecom, ovviamente a valle del recente rimbalzo. A questo punto, qualunque cosa succeda, sarà soltanto il giusto corso della selezione darwiniana.

  3. Alexander in ha detto:

    Ciao, potrei sapere dove reperire i dati relativi alla correlazione degli esempi riportati?Un saluto

  4. Alexander in ha detto:

    Opsss…era tra i link…Ciao

  5. il conte mascetti in ha detto:

    Subito nei preferiti.Quando può, e se ne ha voglia, ci potrebbe stare un post sul calcolo dei rendimenti per obbligazioni corporate in emissione e post emissione.Sarà la cosa più semplice della terra, ma non si trova una voce concorde con l’altra. Eppure è matematica! Chissà se lei invece.Grazie e continui così.il conte mascetti

  6. Giuseppe Bertoncello in ha detto:

    Ringrazio ENTJ e il conte mascetti per i complimenti, mentre a iNMRauthor vorrei dire che non sono d’accordo con la sua osservazione. Warren Buffett non ha sempre acquisito quote di controllo e non è questo un tratto essenziale del suo approccio. Si è trovato a farlo sempre più spesso nel corso degli anni anche perchè era inevitabile, data la continua crescita dei capitali a sua disposizione e la tendenza a concentrare gli investimenti. Ma quest’ultima viene prima ed è logicamente distinta dalla ricerca di quote di controllo. Si basa invece sulla capacità del value investor di identificare, all’interno della propria “sfera di competenza” e con un alto grado di probabilità, titoli che il mercato sottovaluta al punto da offrire all’investitore attento al valore opportunità di acquisto con un ampio “margine di sicurezza.” Infine, con tutti coloro che mi hanno scritto in questi giorni mi scuso per il ritardo nel dare un cenno di risposta. Ho trascorso una settimana di ferie con la famiglia e gli amici, lontano dall’Italia e dal blog. E’ una costellazione di elementi di cui ho bisogno per preservare buon umore, motivazioni, e quel po’ di lucidità di giudizio che diversi lettori, sin troppo generosamente, mi attribuiscono. Il periodico assentarsi dall’Italia, in particolare, ha proprio un valore terapeutico. Mi consente un migliore ancoraggio alla realtà – che se no, qui da noi, tende a sfumare tra i lunari dibattiti del salotto di Vespa, le infinite diatribe sull’aborto o la legge elettorale, l’ossessiva attenzione al salvataggio di Alitalia (ma che importanza ha?), e un variegato mare di spazzatura, metaforica (come la permanente campagna elettorale che impegna il circo politico-mediatico in un eterno batti e ribatti senza senso) e no (il Bel Paese coperto di rifiuti, che rappresenta, tutto sommato, un successo dell’entropia sull’intelligenza vitale – un fenomeno degenerativo in ultima istanza inevitabile ma che in Italia sembra avanzare meno incontrastato che altrove).Sono stato a Londra, ospite di amici, a respirare a pieni polmoni il mondo “aperto” in cui vivono.Ho trascorso ore a giocare con i miei figli di 7 e 5 anni, e non so se esista un modo migliore di passare i momenti di libertà. Mi sono enormemente divertito.Il tempo non è stato granchè. Ma questo ci ha indotto a trascorrere lunghe ore nei musei, che sono bellissimi e straordinariamente ben attrezzati per le frenetiche sperimentazioni dei bambini (o di chi un po’ bambino voglia restare).La sera, col mio amico Steve, ho persino guardato un po’ di calcio e di news in TV (abitudine che in Italia ho perso da tempo). Ho rivisto, dopo anni, Newsnight, il notiziario di approfondimento della tarda serata sul secondo canale della BBC – e il suo storico conduttore Jeremy Paxman.Che piacere! Un giornalismo televisivo di primissima qualità, da togliere il respiro tanto è bello, vitale, intelligente. Mi sono un po’ consolato pensando che se l’Italia prenderà strane, autodistruttive derive, gli inglesi saranno ancora lì a salvarci col loro senso della libertà e della democrazia. Nella puntata di Newsnight che ho seguito, il servizio di approfondimento era dedicato a una devastante indagine sui motivi che hanno indotto l’amministrazione Bush a dichiarare al mondo che Saddam Hussein nascondeva armi di distruzioni di massa. E ai motivi che hanno spinto molti governi occidentali a credervi.L’indagine era lucida, penetrante, scorreva rapida e convincente: un quarto d’ora di giornalismo d’inchiesta su temi scottanti, che vanno al cuore delle modalità di funzionamento delle nostre democrazie. Eccellente servizio pubblico! Seguivano alcune interviste dal vivo condotte da Jeremy Paxman in studio. Paxman è fenomenale. Ricorderò sempre un’intervista che fece al neo-Primo Ministro John Major, quando io mi trovavo a Londra come studente del Master di giornalismo. Lo fece a pezzi. Il principio di Paxman è che nessuno (ripeto, nessuno: tanto meno un Primo Ministro) può permettersi di presentarsi nel suo programma, di fronte al pubblico – che è sacro – cercando di propalare menzogne. Chi ci prova (e le figure di potere ci provano spesso perchè hanno quasi sempre verità da nascondere e menzogne da affermare) viene indotto in contraddizione, esposto nella sua vacuità, ridimensionato nei suoi appetiti e nelle sue ambizioni e – se insiste (come nel caso di Major che ricordo così vividamente) – umiliato. Paxman lavora sodo, si prepara molto, sa sempre tutto quello che deve sapere per tenere testa ai potenti che intervista. E, in più, ha una formidabile padronanza del mezzo televisivo, una stupefacente prontezza di riflessi e rapidità di reazione. I potenti vanno da lui perchè non possono farne a meno. Ma ne escono quasi sempre ridimensionati. E questo è un eccellente servizio pubblico! I media come “watchdog”, cani da guardia a tutela del pubblico interesse. Di questa pasta è fatta una democrazia.Paxman e Vespa, Vespa e Paxman: mentre guardavo Paxman, mi contorcevo per il piacere e la pena. Che bello che esista Paxman! Che pena che in Italia non abbiamo un Paxman!Su consiglio dei miei ospiti, sabato siamo tutti andati a vedere la casa di Charles Darwin, poco fuori Londra, nel villaggio di Downe. Non c’ero mai stato, nonostante i diversi anni trascorsi in Gran Bretagna. Mi hanno detto che la casa-museo è stata rinnovata e arricchita negli ultimi tempi. E’ una visita che raccomando: c’è un’ottima guida audio, curata da David Attenborough (di cui, durante il soggiorno londinese abbiamo anche comprato il DVD, in 5 dischi, del programma “Planet Earth”: fantastico!), e poi ci sono una moltitudine di oggetti, legati sia alla vita familiare che agli studi di Darwin, e un piano intero della casa dedicato a un approfondimento delle sue teorie. Alla fine, se ne esce con un gran senso di familiarità e vicinanza a questa straordinaria figura di scienziato e di uomo (che amava molto, ricambiato, i suoi simili, a partire dalla moglie e i figli – a cui era consentito entrare nello studio per lunghe pause di gioco mentre papà era impegnato nella stesura de “L’origine delle specie”).Il pomeriggio a casa Darwin, dopo il pranzo al pub e una passeggiata nel countryside, è stato un vero piacere, appena velato dal ricordo – che mi ha riportato alla memoria – degli oscurantistici tentativi del governo Berlusconi di eliminare, nel 2004, le teorie darwiniane dai programmi della nostra scuola media.E’ un piacere che sto ora prolungando con la lettura di un libro acquistato a casa Darwin: “Darwin’s dangerous idea, Evolution and the Meanings of Life”, di Daniel Dennett. E’ un ottimo testo, che analizza a fondo il significato scientifico e filosofico delle scoperte di Darwin, tra le più importanti e rivoluzionarie della storia del pensiero umano.Da Londra sono tornato anche con altri due libri, acquistati al Natural History Museum. Sono di uno dei miei autori preferiti, Jared Diamond: “The rise and fall of the third chimpanzee, how our animal heritage affects the way we live,” e “Collapse, how societies choose to fail or survive.”Insieme al DVD di Attenborough, che i miei figli adorano (e io con loro), i libri di Diamond e Dennett terranno desti per un po’ i ricordi di una splendida vacanza, in un mondo che mantiene vivo, più e meglio di noi qui in Italia, il senso della libertà e il piacere della ricerca intellettuale al servizio del progresso civile.

  7. ENTJ in ha detto:

    Fa piacere leggere di tanto in tanto una divagazione personale anche su un sito “serio”. (Noi italiani, più che seri, spesso tendiamo a essere seriosi, che è cosa diversa). Tra l’altro, mi ha fatto venir voglia di tornare a visitare Londra e i suoi dintorni, da cui manco da molto tempo.Il riferimento a Dennett e Diamond mi ha colpito particolarmente perché sono tra i miei autori preferiti.Lessi “Darwin’s dangerous idea” anni fa in inglese (a quel tempo vivevo in Olanda e divoravo i Penguin Books – le sue note personali su quanto faccia bene guardare l’Italia dall’estero hanno risvegliato antichi ricordi). E’ davvero un monumento alla teoria della selezione naturale, che Dennett riesce a penetrare con profondità notevole per un outsider. Credo sia il testo che smonta nel modo più efficace la teoria degli equilibri punteggiati di Gould e Lewontin. Dennett lo trovo forse un po’ verboso sulla pagina scritta, mentre dal vivo è un tipo istrionico e brillante (magia del podcast).Sto finendo di leggere proprio in questo periodo “Collapse” di Diamond. Una buona lettura senz’altro, anche se a mio parere non ai livelli del precedente “Armi, acciaio e malattie”, del quale dovrebbe essere l’ideale seguito. Del resto, non sempre si può vincere un premio Pulitzer. 🙂

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