I multipli di Borsa restano elevati
L’inchiesta di CorrierEconomia di oggi, che ho citato nel mio post Perché la Borsa italiana è maglia nera in Europa?, comprende anche un’intervista, in gran parte condivisibile, con Gianluigi Costanzo, responsabile di Generali Investments. C’è però un punto su cui vorrei sollevare delle obiezioni, ed è purtroppo il più importante. Dice Costanzo: “Le Borse non sono molto care e in genere il loro rapporto prezzo/utili è interessante. E Piazza Affari […] non fa eccezione.” E’ un punto di vista comune a molti investitori professionali, ma che pur riflettendo il consenso di mercato manca di obiettività.
Vorrei prendere a prestito le argomentazioni che ripropone, nella sua ultima lettera settimanale, John Hussman.
Guardiamo il benchmark dei benchmark, e cioè l’S&P 500. Sulla base delle stime di consenso, il rapporto prezzo/utili prospettici è oggi di circa 15 volte, un livello che molti investitori immediatamente riconoscono come familiare: si sa che la media storica del multiplo P/E, almeno per il mercato americano, gravita attorno a 14-15. Il fair value sembrerebbe non dover essere lontano da qui.
Il cattivo uso del P/E
Le precisazioni da fare sono però molte. Le stime di oggi calcolano gli utili operativi (accuratamente depurati di molte disavventure in cui incappano le società quotate) e non quelli netti. Le serie storiche del P/E, fino agli anni ’80, sono state compilate sulla base degli utili correnti e non di quelli prospettici (sistematicamente più elevati). Infine l’uso del P/E senza considerare l’andamento del ciclo è largamente svuotato di validità, come ho già argomentato nel post Sul cattivo uso del P/E e il P/E normalizzato.
Scrivevo in quel post:
Il grosso limite del P/E è che la base (il denominatore E) su cui si opera il confronto è molto “ballerina.” Gli utili sono una variabile economica volatile, molto più volatile del PIL, che pure, come chiunque sa, tende a oscillare tra fasi di crescita e stagnazione.
Basta guardare all’ultimo ciclo, in cui gli utili delle società americane, dopo il boom della seconda metà degli anni ’90, crollarono nel 2001 del 50% (cinquanta per cento!) quando l’economia Usa entrò in una breve e poco profonda recessione.
L’uso naive del P/E porta al paradosso che un titolo o un indice tenderà ad apparire sopravvalutato quando gli utili sono depressi (in una recessione), e sottovalutato quando gli utili sono insostenibilmente elevati (al picco del ciclo). Ma questo è un nonsenso.
E’ vero invece il contrario: le punte di sopravvalutazione si raggiungono quando gli investitori si lasciano andare all’ottimismo eccessivo (al picco del ciclo), e quelle di sottovalutazione quando è il pessimismo a farla da padrone (nel tunnel della recessione).
Il P/E, per diventare un buon strumento di valutazione, ha bisogno di un “filtro”, che stabilizzi la base di calcolo identificando un livello normale degli utili, “depurato” dai pronunciati alti e bassi del ciclo.
Il P/E normalizzato
Come osserva Hussman, è irrealistico pensare che il livello “normale” degli utili possa essere quello di oggi: ci troviamo infatti ben al di sopra del trend di lungo periodo (crescita media annua degli utili del 6% circa), probabilmente in prossimità del picco ciclico, in una situazione in cui una serie di fattori one-off (che in sintesi vanno fatti risalire al processo di globalizzazione) hanno consentito al settore corporate di far lievitare i margini di profitto addirittura del 50% al di sopra della norma.
Se si fa la tara per tutti questi elementi di eccezionalità, da quelli macroeconomici a quelli contabili, a quale conclusione si arriva?
Ce lo dice uno degli analisti più seri e stimati al mondo, Andrew Smithers (nella foto in alto), che ha da poco aggiornato, sul suo sito, un grafico con le serie storiche, relative all’S&P 500, del P/E “corretto in base al ciclo” (CAPE) e della q di Tobin (un parametro di valutazione proposto dal premio Nobel James Tobin e basato sul valore netto degli asset delle società quotate). Eccolo:
Se si dà credito ai calcoli di Smithers (e sarebbe bene farlo, dato che le sue misure di valore, tanto il CAPE che q, sarebbero state in passato un’ottima guida per gli investitori), l’S&P 500 risulta oggi sopravvalutato dell’83% rispetto alla media di lungo periodo. Un discorso analogo potrebbe essere applicato ai mercati europei.
Mercati sopravvalutati e ritorni deludenti
L’unico modo in cui è possibile riconciliare questa analisi con quella di chi, come Costanzo, ritiene i mercati di oggi “interessanti” sotto il profilo valutativo è di pensare che gli “ottimisti” il confronto lo facciano su un periodo storico che non si spinge più indietro degli anni ‘90. Ma così finiscono per confrontare delle Borse sopravvalutate con Borse ancor più sopravvalutate.
Chi percorre questo genere di scorciatoie farebbe bene a non ignorare anche un’altra annotazione. Osserva Hussman che dal 1998 a oggi il ritorno totale di un investitore nell’S&P 500 è stato uguale a quello di chi avesse “parcheggiato” i suoi risparmi in titoli del Tesoro a breve termine, ovviamente con una differenza fondamentale, e cioè che il rischio e la volatilità dell’investimento azionario sono stati enormemente superiori.
Si conferma così l’esperienza storica di generazioni di investitori: mercati sopravvalutati hanno sempre finito per offrire, nel medio-lungo periodo, rendimenti deludenti.
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