Sul cattivo uso del P/E e il P/E normalizzato
Un articolo apparso su Bloomberg News qualche giorno fa ha attirato la mia attenzione. Si trattava, d’altra parte, di un’esclusiva pubblicata con grande risalto e dal titolo sensazionale: “S&P 500 Stocks Are 45% Cheaper Than When Index Last Hit Record” (I titoli dell’S&P 500 sono il 45% meno cari di quando l’indice toccò i massimi del 2000”). Ne riporto, in una mia traduzione, alcuni passi salienti.
“I titoli dell’indice S&P 500 potrebbero essere ancora un “affare” dopo che il benchmark azionario americano ha sorpassato i massimi del 2000. In rapporto agli utili storici, i titoli sono infatti meno cari del 45% rispetto a quando l’indice raggiunse l’ultimo picco, e del 30% meno cari di quando crollò ai minimi decennali dell’ottobre 2002.”
“Il rapporto prezzo/utili (P/E) è sceso dopo che le società dell’S&P 500 hanno fatto segnare tassi di crescita degli utili superiori al 10% per 14 trimestri di fila, la serie più lunga dal 1950.” […] “’Il mercato presenta valutazioni molto più ragionevoli che nel 2000,’ osserva Michael Mullaney, asset manager di Fiduciary Trust Co. […]. ‘Dal punto di vista fondamentale, il mercato poggia su basi molto più solide […].’”
“Nel 2000, i forti afflussi di denaro sul mercato azionario americano gonfiarono il multiplo P/E dei titoli dell’S&P 500 fino al livello di 32,8 toccato a marzo. Da lì il multiplo scese a 25,7 quando il mercato raggiunse i minimi dell’ottobre 2002, per poi calare ancora fino al 18 di oggi.”
Che dire? L’investitore accorto dovrebbe avere riconosciuto il carattere tossico di queste informazioni.
Non ce l’ho con l’autore dell’articolo, che non conosco, né con Bloomberg News. Se cito il notiziario è perché lo leggo, e se lo leggo è perché è tra le fonti di notizie finanziarie più autorevoli al mondo. Vi lavorano diversi ex-colleghi e amici per la cui professionalità nutro rispetto.
Ma l’uso, peraltro molto comune, che questo articolo fa del multiplo P/E è fuorviante.
Facile da riconoscere è l’entusiasmo dell’autore, che lo porta a omettere due dettagli non trascurabili, e cioè che nel 1999/2000 il multiplo P/E toccò punte aberranti, mai viste prima, e che il valore di 18 di oggi resta pur sempre sensibilmente superiore alla media storica di 14,5 (senza considerare che in tempi recenti si è diffusa la pratica di utilizzare gli utili operativi al posto di quelli netti, cosa che ha permesso di “gonfiare” gli utili e, di converso, “sgonfiare” i multipli P/E).
Ma queste restano critiche di contorno rispetto al vero problema. Il fatto è che il multiplo P/E, usato in un modo così naive, nella totale noncuranza per il ciclo economico, perde quasi del tutto di significato.
Capire il perché è facile e alla portata di ogni investitore.
Il P/E è uno strumento di valutazione relativa che, mettendo in relazione il prezzo con gli utili, consente di confrontare un titolo o un indice azionario con un altro comparabile, oppure un titolo o un indice con il loro passato.
Il grosso limite del P/E è che la base (il denominatore E) su cui si opera il confronto è molto “ballerina.” Gli utili sono una variabile economica volatile, molto più volatile del Pil, che pure, come chiunque sa, tende a oscillare tra fasi di crescita e stagnazione.
Basta guardare all’ultimo ciclo, in cui gli utili delle società americane, dopo il boom della seconda metà degli anni ’90, crollarono nel 2001 quasi del 50% quando l’economia Usa entrò in una breve e poco profonda recessione.
L’uso naive del P/E porta al paradosso che un titolo o un indice tenderà ad apparire sopravvalutato quando gli utili sono depressi (in una recessione), e sottovalutato quando gli utili sono insostenibilmente elevati (al picco del ciclo).
Ma questo è un nonsenso. Semmai, è vero il contrario: le punte di sopravvalutazione si raggiungono quando gli investitori si lasciano andare all’ottimismo eccessivo (al picco del ciclo), e quelle di sottovalutazione quando è il pessimismo a farla da padrone (nel tunnel della recessione).
Normalized P/E
Il P/E, per diventare un buon strumento di valutazione, ha bisogno di un “filtro”, che stabilizzi la base di calcolo identificando un livello “normale” degli utili, “depurato” dai pronunciati alti e bassi del ciclo.
E’ un’operazione che può essere fatta in diversi modi, ma che, a livello di mercato nel suo complesso, è facilitata o, quanto meno, resa meno aleatoria dall’osservazione che, nel lungo periodo, gli utili hanno mostrato la tendenza a crescere a un tasso molto stabile attorno al 6% annuo.
Gli esempi di P/E normalizzato (o normalized P/E), calcolato da analisti degni del massimo rispetto, non mancano. Ne riporto due, elaborati rispettivamente da John Hussman e da Andrew Smithers :
Nonostante le diverse metodologie adottate, i risultati sono simili. Il metodo del P/E, correttamente impiegato, ci dice che il mercato americano, e i mercati azionari in genere, restano molto sopravvalutati, e che lo “sgonfiamento” della enorme bolla creatasi sul finire dello scorso decennio è lontano dall’essersi compiuto.Vorrei chiudere con una citazione da Warren Buffett, grande investitore e maestro di saggezza finanziaria:
“Quel che conta per la gran parte degli investitori non è quanto sanno, ma piuttosto quanto realisticamente definiscono quello che non sanno. Un investitore ha bisogno di fare poche cose bene, a condizione che eviti i grossi errori.”
Prima di tutto, dunque, viene la difesa dagli errori. Affidarsi all’uso naive del P/E che molti oggi vanno diffondendo, o per ignoranza o per convenienza, sarebbe una grave ingenuità.
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Egregio Dottor Bertoncello,
ho trovato l’articolo, come al solito, molto interessante: è la seconda volta che lo rileggo da quando lo pubblicò la prima volta.
Adesso, a distanza di più di un anno e mezzo, avrei 2 domande (in alternativa) da porLe al riguardo:
1) conosce il “metodo” per calcolare tale P/E normalizzato?
2) conosce il valore attuale del P/E normalizzato?
La ringrazio per la Sua gentile attenzione.
Cordialmente,
Raffaele D.G.
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