Numeri, notizie e disoccupazione negli Usa
La notizia “bomba” che l’economia americana ha sofferto nel 2008 la peggiore perdita di posti di lavoro addirittura dal 1945 è risultata irresistibile, nel suo affascinante catastrofismo, a quasi tutti i mezzi di informazione. Tra quelli che mi è capitato di vedere, solo Reuters ha scelto di confinare questo aspetto delle statistiche sull’occupazione Usa, diffuse venerdì, nel secondo paragrafo, anziché nel primo, del suo dispaccio.
Per il resto, non ho trovato nessuno che non abbia scelto di enfatizzare nei titoli e in apertura d’articolo il deprimente richiamo alla Seconda Guerra Mondiale, ritenendolo il tratto più interessante e significativo rivelato dai molti numeri inclusi nel rapporto. Così ha fatto Bloomberg, e così hanno fatto, tra le testate di casa nostra, tanto Il Sole 24 Ore come il Corriere della Sera e la Repubblica, il cui corrispondente da New York, Arturo Zampaglione, ha anzi ritenuto opportuno ricreare in avvio, in poche ma precise parole, il contesto di quei tempi drammatici:
“Era dal 1945, cioè da quando i soldati cominciarono a tornare dalla guerra e vennero rallentate le commesse belliche, che l’ economia americana non eliminava tanti posti di lavoro in un anno. Nel 2008, a causa della tempesta finanziaria e della recessione, ne sono stati persi 2,6 milioni.”
Immagino che la quasi totalità dei lettori abbia avvertito un brivido lungo la schiena, fatto forse un segno della croce e si sia dimessamente preparata al peggio.
Ma che razza di notizia è questa? Alla lettura dei dispacci d’agenzia e delle corrispondenze delle nostre più prestigiose testate non ho potuto fare a meno di ricordare una famosa arguzia dello scrittore Mark Twain. In risposta a un articolo di giornale che lo dava per defunto, Twain inviò il seguente telegramma: “Notizia mia morte fortemente esagerata”.
Per spiegare il perché di questa mia reazione, partirò da un’analogia – un po’ vaga, ma che forse rende l’idea. Immaginiamo che io cominci a confessare a mia moglie e agli amici di essere preoccupato perché mio figlio Valerio, nonostante tutte le sue ottime qualità, dimostra anche di conoscere un po’ di parolacce in più dell’altro mio figlio Tiziano, e negli inevitabili litigi sa anche picchiare con più forza. Bene, se io mi comportassi così c’è da star sicuri che mia moglie e gli amici mi scruterebbero stupefatti e risponderebbero: “Beppe, ma ti sei bevuto il cervello? Tiziano ha 6 anni, Valerio ne ha 8. Valerio è più grande!”
Ecco, questo è il punto. Anche l’economia americana, dal 1945 a oggi, non ha fatto che diventare più grande, e così la sua forza lavoro. Gli ultimi 60 anni sono stati un periodo di grande espansione demografica. Dopo la guerra c’è stato il baby boom e dalla seconda metà degli anni ’60 i baby boomer hanno invaso il mercato del lavoro. Uno sguardo ai dati storici del Bureau of Labor Statistics (l’organismo americano che raccoglie le statistiche sul mercato del lavoro) consente di verificare in un attimo che la forza lavoro americana era di 82 milioni e 771 mila unità nel 1970 (forse si può risalire più indietro, fino al fatidico 1945, ma non ho voluto dedicare a questa ricerca più di qualche istante) ed è cresciuta fino a 154 milioni 287 mila unità nel 2008. In 38 anni è aumentata dell’86%. Insomma, è quasi raddoppiata!
Siccome la forza lavoro è data dalla somma di occupati e disoccupati, è normale aspettarsi che, se la forza lavoro aumenta, siano sempre di più – in termini assoluti – i posti di lavoro che vengono creati in ogni nuovo ciclo espansivo e quelli che vengono distrutti a ogni nuova recessione.
Se la base di riferimento (la forza lavoro) si modifica, e anche di molto, l’unico modo per fare raffronti sensati nel tempo è quello di esprimerli in termini percentuali e non assoluti. Il dato – enfaticamente comunicato dai media – che la perdita di posti di lavoro nel 2008 è stata, in assoluto, la più elevata dal 1945 non ci dice praticamente nulla della gravità della recessione in corso. Spacciato per sommamente significativo, il numero – privato del contesto da cui è tratto, e cioè le dimensioni della forza lavoro – è invece ingannevole.
Per fortuna, c’è anche chi ha messo riparo a questo abbaglio collettivo dell’informazione finanziaria. E’ il caso, ad esempio, del team di economisti di Northern Trust, che, in risposta all’assordante cancan dei media, ha pubblicato il seguente grafico:
Il grafico mostra l’andamento dell’occupazione negli ultimi quattro cicli dell’economia americana, in modo da renderli confrontabili. Il picco di ogni ciclo è stato fatto pari al numero indice di 100, e da lì si è proceduto a computare il livello dell’occupazione nei due anni precedenti e due anni seguenti. Per il ciclo attuale, il tracciato si ferma a 4 trimestri dopo il punto di massima espansione, dato che la recessione in corso ha preso avvio nel dicembre 2007 e gli ultimi dati (quelli diffusi venerdì) si riferiscono al dicembre 2008.
Posta la questione in termini corretti, cosa appare evidente? Per quanto riguarda il mercato del lavoro, il bistrattato 2008 (quello che i media hanno fatto passare come l’anno peggiore dal 1945) si rivela come un anno di recessione – con un calo degli occupati dell’1,45% – un po’ peggiore del primo anno del ciclo recessivo del 1991 (-1,20%), un po’ migliore di quello del 2001 (-1,53%) e molto migliore del primo anno della pesante recessione del 1981 (-2,40%).
A chi si senta disorientato, aggiungerò che il sospetto sull’assennatezza di quanto più di qualche collega ha scritto tra venerdì e sabato doveva venire confrontando l’incipit degli articoli (il catastrofico confronto col 1945) con le informazioni che seguivano. Dovunque, qualche riga più giù, si finiva per comunicare il dato davvero significativo, e cioè che il tasso di disoccupazione americano era salito a dicembre dal 6,8% al 7,2%, il livello più alto da 15 anni. Non si tratta certo di una buona notizia. Ma gli ultimi 15 anni sono stati per l’economia americana un periodo di quasi ininterrotta espansione (la mini-recessione del 2001 fu una delle più brevi del dopoguerra), e una disoccupazione del 7,2% non è una tragedia (l’Italia, negli ultimi decenni, ha spesso avuto tassi superiori, anche quando l’economia era in piena crescita).
La conferma viene da quest’altro grafico, tratto sempre da Northern Trust, dove si mostra l’andamento del tasso di disoccupazione negli Usa (linea rossa) dal 1980 a oggi. Le bande grigie indicano i periodi di recessione.
Non c’è di che rallegrarsi. Ma le cose, fermandosi agli ultimi tre decenni senza scomodare il 1945, sono spesso andate peggio.
Intendo con questo spingermi a dire che l’ultimo rapporto sull’occupazione americana non ha offerto motivi di preoccupazione? Non è così. Il catastrofismo dei media è stato fuorviante. E il raffronto con il 1945, ripeto, è privo di senso. Ma esistono, eccome, le note dolenti.
Un rapido sguardo al primo dei grafici da me riportati mostra come la pendenza della curva relativa al 2008 si sia accentuata nell’ultimo trimestre. Negli ultimi mesi, da settembre in poi, il deterioramento del mercato del lavoro americano è molto accelerato, assumendo un’intensità che non si vedeva dagli anni ‘70. Ci sarebbe stato da stupirsi del contrario, vista l’entità dello shock patito dal sistema finanziario e creditizio, che si sta ora inevitabilmente trasferendo all’economia reale. Ma non c’è dubbio che la situazione è delicata ed esige risposte urgenti di politica fiscale, cosa peraltro di cui la nuova amministrazione Obama è pienamente consapevole.
Mark Twain, che ho citato in avvio, non era un grande ammiratore degli standard della professione giornalistica. Gli capitò di affermare che “i giornalisti sono quelli che sanno distinguere i fatti dalle balle, ma poi pubblicano le balle.” Sono incline a pensare, però, che nel nostro caso il suo sarcastico detto – in altre circostanze giustificato – non colga del tutto nel segno.
Certo, tentato dalla possibilità di mettere in piedi un drammatico confronto col 1945 ogni giornalista intuirebbe subito l’allettante prospettiva di un titolo a tutta pagina che fa vendere di più. Ma sospetto che, nel nostro caso, trovandosi a che fare con una marea di numeri, alcuni miei colleghi – più avvezzi a districarsi tra le parole – abbiano finito per comportarsi in modo un po’ disarmato, come delle persone qualunque. E il risultato è stato che, abbandonandosi all’onda delle sensazioni (“le cose vanno male, anzi malissimo”), si sono trovati a raccontare balle senza averle sapute distinguere dai fatti. Quali fossero i fatti, non sono stati in grado – almeno in parte, almeno questa volta – di capirlo.
Un rimedio per il futuro potrebbe essere la lettura di un bel libro di Gerd Gigerenzer, un noto scienziato cognitivo, dal titolo Quando i numeri ingannano. Lì, tra l’altro, Gigerenzer porta svariate prove a supporto di una sconsolante affermazione: “La sempre maggiore pubblicizzazione dei dati statistici […] è legata all’ascesa delle democrazie nel mondo occidentale. […] Oggi i numeri sono pubblici, ma il pubblico in generale non li sa leggere.” Purtroppo, è così. E la diffusa, acritica evocazione dei tempi della Seconda Guerra Mondiale seguita alla pubblicazione degli ultimi dati sull’occupazione americana ne è una riprova.
è importante per le autorità anche non barare sui numeri:
Lies, Damned Lies, and Government Unemployment Numbers
There are some who see a ray of hope in the recent jobless claims reports, which have dropped back to “only” 467,000 in initial unemployment claims, down from 491,000for the last week, after being over 500,000 for several weeks. Those numbers are seasonally adjusted. That hope disappears if you look at the actual numbers. For the current reporting week ending January 3, 2009, the advance number of initial claims came in at 726,420. Last week’s advance number was 717,000. We have been above 600,000 new initial claims every week since the third week of November. Continuing claims jumped massively, by 744,000 to 5,316,124.
No conspiracy here. This is what happens when you try to smooth a volatile trend by using seasonal adjustments. If you use past performance as the tool by which you smooth the trend, when the trend changes, the seasonally adjusted numbers will be either too large or too small. Thus, the data understated the growth of jobs in 2003 because recent past performance had been bad, and it is now understating the number of unemployment claims and actual unemployment.
In December, the number of unemployed persons increased by a seasonally adjusted 632,000 to 11.1 million and the unemployment rate rose to 7.2%. Since the start of the recession in December 2007, the number of unemployed persons has grown by 3.6 million, and the unemployment rate has risen by 2.3% and is now at 7.2%.
I happened to be watching CNBC at the time of the release of the data, and several commentators remarked how much better the number was than they thought it would be. I wish they were right, but again, the actual numbers showed a loss of 954,000 jobs, over 50% more than the headline number reported in the press
release. And that assumes that new businesses created 72,000 jobs from the birth/death model that I so frequently write about. It is possible that almost 1 million jobs were lost in December. I doubt the market would have liked that number.
I should note that the Bureau of Labor Statistics does not hide that number. You can find it if you dig for it. But most analysts seem to prefer just to take the press release and go with it. And most of the time that is fine. But in times like this, when trends are changing, you miss the bigger picture and get misleading data.
Unemployment could rise to 9-10% or more this year and on into 2010. That means we could easily see another 3 million lost jobs over the next year. That is going to put a lot of negative pressure on consumer spending. It also means that wages are not likely to rise, and we have already hard evidence of wages falling in many industries as companies try to find ways to remain solvent.
And that 9% will be the headline number. If you add people who have part-time jobs but would like a full-time job, and what are called marginally attached workers, the current rate is already 13.5%.
Average hours worked dropped to the lowest level since they began collecting data in 1964, as did hourly income. Given the increasing difficulty for consumers to borrow money and with income dropping, plus increased savings on the part of consumers, it is difficult to see how pricing power is going to come back any time soon.
This problem is multiplied throughout the developed world. The developing world, which sells products and goods to the US and European consumers, is starting to feel the pinch. Chinese and other Asian exports are dropping (more on that in future letters, but the data is ugly).
Overcapacity, rising unemployment, imploding leverage, lack of borrowing and/or lending, a serious retreat by consumers, and increased savings are all the conditions needed to bring about deflation. Left unchecked, we could soon see something like what Japan has experienced, and even potentially worse, as they started with a savings rate of 13%. But deflation is not going to be left unchecked. It will be fought by central banks everywhere with low rates and the printing press, as well as government spending. And so, let’s turn our attention to that process. […]
NOTA BENE DI GIUSEPPE BERTONCELLO, aggiunto il 14/01/2009
Visto che Piero non ha saputo rimediare al suo errore (vedi il mio commento al n. 3), lo farò io. Il brano da lui riprodotto è tratto dall’ultima lettera settimanale di John Mauldin, un consulente finanziario americano di cui ho molta stima, autore anche di alcuni libri, tra cui Bull’s Eye Investing, che raccomando. Questo è il link alla lettera:
http://www.frontlinethoughts.com/article.asp?id=mwo011009
Voglio sottolineare quanto ho già scritto nel commento n. 3: del lavoro intellettuale altrui bisogna avere rispetto. Le citazioni, nei commenti, sono gradite. Ma va sempre indicata la fonte e, se possibile, il link al testo originale.
Giuseppe B.
Ho sempre pensato che le “notizie numeriche” vadano interpretate meglio del modo cui vengono poste.
Un esempio abbastanza comune è il prezzo del petrolio che essendo pagato in dollari dipende (in europa) dal cambio euro/dollaro.
Spesso viene data solo la notizia cruda di una diminuzione/aumento dei dollari a barile.
Una notizia del genere che è chiara in america ci dice poco altrove se non viene convertita nella valuta locale.
Gentile Piero,
lei nel suo commento ha scelto di parlare d’altro, un atteggiamento che può essere costruttivo quando si fa “brain storming” ma che in genere, per l’abuso che se ne fa, costruttivo non è dato che contribuisce immediatamente a confondere ogni discorso.
L’argomento da lei introdotto riguarda l’affidabilità dei metodi con cui sono prodotte le statistiche economiche, e in specie la dubbia attendibilità del “birth/death adjustment” che finisce per avere un ruolo così importante nei dati americani sull’occupazione. Critiche al “birth/death adjustment” ne ho riportate anch’io, nel mio blog, in altri post. Ma non è questo – con ogni evidenza – il tema che qui ho voluto affrontare.
Comunque, il motivo per cui le rispondo con una certa sollecitudine è un altro. Nel mio blog è senz’altro consentito, anzi apprezzato, arricchire la discussione con citazioni da altre fonti. Purchè di citazioni si tratti, con la fonte ben indicata e, se possibile, il link annesso. Quel che non è consentito è fare “cut and paste” di prodotti intellettuali altrui, rubacchiati a piacimento. La prego quindi di indicare la fonte del brano che ha riportato, altrimenti sarò costretto a eliminare il suo commento.
Distinti saluti,
Giuseppe B.
L’ennesimo plauso al Dott. Bertoncello per la sua capacità di approfondire i fatti e di renderli accessibili e chiari a tutti portando dati e analisi a supporto.
Michele
Invero, il Sole24Ore di Sabato riporta nell’articolo dedicato ala disoccupazione la frase “Spingendo le perdite dell’intero anno a sfiorare quelle del 1945, pari a 2,8 milioni, ANCHE SE DA ALLORA A OGGI LA FORZA LAVORO E’ TRIPLICATA” a firma Marco Valsania, pagina 2.
MarcoDC,
ho l’impressione che lei sia troppo generoso nei confronti dell’articolo del Sole 24 Ore. E’ vero che verso la fine l’autore, ritornando su alcuni dei dati illustrati in avvio, ha l’accortezza di aggiungere l’inciso “anche se da allora a oggi la forza lavoro è triplicata.” E’ vero anche che è stato tra i pochi a farne cenno.
Resta però il fatto che titolo e sottotitolo, a tutta pagina, di quell’articolo del Sole 24 Ore recitano così:
“L’America brucia 2,6 milioni di posti”
“Il dato del 2008 è il peggiore dal 1945 – In dicembre 520mila occupati in meno”
E l’articolo si apre così: “Quasi 2,6 milioni di posti di lavoro persi nell’ultimo anno, il più drastico crollo dal 1945, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.”
Questa è l’enfasi che tutti i lettori, anche i più distratti, avranno colto. Mentre non so quanti siano quelli che sono arrivati fino alla fine del pezzo, hanno letto l’inciso, e ne hanno capito la portata. Pochi, penso.
Completamente d’accordo. Diciamo che a me è rimasto in mente proprio perchè purtroppo ormai avvezzo alle esagerazioni… esagerazioni poi…
Qui diciamocela tutta, si tratta di vendere il giornale, di avere contatti sul sito, di avere audience… perchè ad ogni rialzo di un dollaro i telegiornali aprivano con “Nuovo record del petrolio” e non hanno fatto lo stesso quando il prezzo è sceso registrando solo ogni tanto i nuovi prezzi ? Perchè man mano che il petrolio saliva e l’euro pure non hanno passato il prezzo in Euro, che significa quanto lo paghiamo noi… in un certo senso hanno giustificato e supportato i rincari del prezzo della benzina ben aldisopra del REALE rincaro del greggio ? E perchè quando l’oro tocca i 1000$ i giornali fanno lo speciale sull’oro, quando le borse fanno tre anni di rally si sprecano speciali sulle borse e quando perdono il 50% del loro valore gli speciali sui BOT ?
Perchè se su un giornale con le borse in picchiata ci fosse scritto “Quali azioni dobbiamo comperare?” non venderebbe una copia, se ci si scrive sopra “Come proteggere i nostri risparmi” le copie si esauriscono.
E’ una questione di copie da vendere = stipendi da pagare.
Ma anche leggendo bene gli articoli dei giornali e pensando indipendentemente (una delle caratteristiche che Buffett cita come indispensabile al suo successore) che si impara a distinguere la forma dalla sostanza… e anche leggendo il suo blog, Bertoncello.
… ma Valsania lo sapeva e non è riuscito (è comunque un “merito”) a non dirlo, tra le righe.
sono in ritardo.
e sono anche in parte daccordo con lei.
in parte perchè nel conto dell’occupazione bisogna anche tener conto dei milioni di occupati “part-time” che nel dopo guerra non esistevano (tutti a tempo pieno).
vorrei poi fare uncopia incolla diun articolo sulla situazione in giappone.
Disoccupazione: tendopoli a Tokio.
Pubblicato da Debora Billi alle 10:08 in Apocalypse now
Non sempre e solo USA: arrivano notizie anche dal Giappone. Fioriscono gli accampamenti nei parchi cittadini di Tokio, dove sorgono tendopoli di fronte agli hotel di lusso.
I principali abitanti di questi improvvisati campeggi sono, ahinoi, i lavoratori temporanei, i cococo come si chiamano qui da noi. Ne stanno licenziando a migliaia nelle aziende giapponesi in crisi, si trovano in mezzo alla strada perché molti di essi avevano anche l’alloggio fornito dall’azienda.
Il governo cerca di tamponare ospitandoli persino nelle palestre scolastiche. Una roba da tempo di guerra.
Ma il carattere giapponese è diverso da quello americano, dove ci si rimboccano le maniche e con le unghie e con i denti si cerca di essere ottimisti, e anche da quello italiano, dove la famiglia offre un paracadute sociale. Per un giapponese una sorte simile è la morte civile, uno di essi afferma “Non esiste tornare a casa. Per l’onore della famiglia, è meglio sparire.” E le hotline che offrono assistenza ai potenziali suicidi lavorano 24 ore su 24…