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Ma cos’è questa crisi?

Si parla troppo e troppo a sproposito del ’29. Appena qualcuno accenna alla parola “crisi”, subito il pensiero corre lì. Molti investitori vivono oggi in questa paralizzante condizione, una sorta di riflesso pavloviano, un cortocircuito che infiamma la mente ma le impedisce di riflettere. Possibile che non ci siano altri modi per cercare di capire cos’è questa crisi, germinata in America dal collasso dei mutui subprime? Ne suggerirò uno, la lettura di un classico di storia dell’economia: Manias, Panics and Crashes di Charles Kindleberger.

Pubblicato la prima volta nel 1978, il libro (mai tradotto in italiano, com’è purtroppo il caso di molti testi fondamentali per la formazione di un investitore) è giunto nel 2005 a una quinta edizione, rivista in modo da includere la crisi messicana del 1994-95 e quella asiatica del 1997-98 al rosario di crash finanziari presi in esame dall’autore.

Kindleberger di gravi episodi di bolle speculative (Manias) seguite da crisi di panico (Panics) e crash di mercato (Crashes) ne elenca ben 39, dal 1622 alla fine del Novecento. In media, uno almeno ogni decennio. E si potrebbe risalire più indietro, fino alla famosa bancarotta dei Bardi e Peruzzi nella Firenze della metà del XIV secolo.

Sin dal primo emergere di un’organizzazione capitalistica dell’economia, le crisi finanziarie sono dunque state una costante. Scrive Kindleberger: “Si può dimostrare che, nel corso della storia, gli eccessi speculativi, definiti concisamente come ‘manie’, e il senso di ripulsa generato da tali eccessi sotto forma di crolli e attacchi di panico, sono stati, se non inevitabili, per lo meno comuni.”

Di comune hanno anche avuto la facile inclinazione all’uso dei superlativi da parte degli osservatori e interpreti contemporanei che le hanno raccontate. “La storia – scrive Kindleberger, in tono vagamente divertito – è piena di affermazioni iperboliche a riguardo delle varie crisi.” Insomma, non ce n’è stata una, o quasi,che non sia stata descritta come la più tremenda, paurosa e devastante a memoria d’uomo.

Il loro dispiegarsi ha seguito una trama alquanto ripetitiva, scandita in cinque fasi: a) uno shock iniziale positivo, che genera aspettative di più elevati profitti; b) un boom creditizio che incoraggia operatori, investitori, intermediari ad assumere una maggiore leva finanziaria (leveraging); c) un picco di euforia e speculazione, caratterizzato dall’accumulazione di rapidi guadagni; d) un punto di rottura, dovuto a fattori diversi come un aumento dei tassi d’interesse o un crack inatteso; e) il panico, la repentina riduzione della leva finanziaria (deleveraging), la corsa verso  la liquidità.

La descrizione suona familiare? Dovrebbe esserlo, perché si applica a pennello, così come alle molte crisi del passato, anche a quella attuale dei mutui subprime.

Fin qui, non c’è nulla di nuovo. Già prima di Kindleberger, altri famosi economisti come Irving Fisher nel 1933 e Hyman Minsky nel 1977 avevano identificato questo ciclo di rapida espansione (boom) seguito da un drammatico collasso (bust) come tipico delle crisi finanziarie.

Dove il lavoro di Kindleberger si fa, per noi, più interessante, è in un paio di conclusioni a cui arrivano la sua dettagliata ricostruzione storica e l’analitico confronto degli episodi del passato. In primo luogo, ciò che ha fatto la differenza nel determinare la lunghezza e la gravità delle depressioni economiche che sono inevitabilmente seguite ai boom e bust finanziari è il ruolo giocato dalle banche centrali.

Della intrinseca fragilità degli istituti di credito – impegnati ad assolvere un ruolo vitale nello sviluppo economico convertendo passività a breve termine in asset a lungo termine – ci si era accorti già diversi secoli fa. Le banche centrali nacquero proprio nel tentativo di ovviare all’evidente instabilità del mercato creditizio.

Si trattò di un’invenzione di straordinario successo. Già attorno al 1825, scrive Kindleberger, in Inghilterra ci si era di fatto accordati su una divisione del lavoro così congegnata: “I banchieri privati di Londra e delle province finanziavano i boom, la Banca d’Inghilterra finanziava le crisi.”

Naturalmente, restava il problema di come evitare che l’intervento pubblico – di bust in bust – incoraggiasse comportamenti irresponsabili. Per il filosofo Herbert Spencer, una volta imboccata la soluzione pietosa del soccorso ai meno avveduti e meritevoli, non c’era rimedio: “Il risultato ultimo dell’atto di proteggere gli uomini dagli effetti della loro follia non può che essere quello di popolare il mondo di folli” (The ultimate result of shielding man from the effects of folly is to people the world with fools).

Per fortuna a prevalere fu l’opinione – meno radicale – del pensatore, saggista e giornalista inglese Walter Bagehot (vedi immagine qui sotto), che nel libro Lombard Street del 1873 diede rispettabilità teorica, oltre che pratica, al ruolo della banca centrale come prestatrice di ultima istanza (lender of last resort).

Era evidente infatti che al rischio di consentire agli istituti di credito di indulgere nell’azzardo morale (moral hazard) si contrapponeva l’altro rischio del completo collasso dell’attività economica: nella corsa ad accaparrare liquidità, che caratterizza le crisi di panico, ogni partecipante al mercato – nel tentativo di salvare se stesso – finisce per contribuire alla rovina di tutti.

La soluzione di compromesso ideata da Bagehot fu di sostenere che le banche centrali, in una crisi, dovevano rendere disponibile tutta la liquidità che serviva, ma a un tasso penalizzante. Quanto alla tempistica degli interventi, ci si poteva solo affidare alla discrezionalità, ma in modo – come riassume Kindleberger – “da indugiare a sufficienza, dopo un crash, così da consentire alle imprese insolventi di fallire, ma non tanto a lungo da permettere alla crisi di estendersi anche alle imprese sane, bisognose di liquidità.” Il central banking, come si può desumere, è un’arte – non solo una scienza.

Il fallimento delle banche centrali

Ora, la questione è: se teoria e pratica del ruolo delle banche centrali erano già andate chiarendosi ai tempi di Bagehot, e se – come sostiene Kindleberger – è l’azione delle banche centrali a decidere in primo luogo della durata e gravità di una crisi finanziaria, perché accadde un disastro come la Depressione degli anni ’30?

La risposta, sempre di Kindleberger, è che durante la crisi del ’29 e la Grande Depressione che ne seguì, non ci fu nessuno che si fece carico, a livello internazionale, del compito di prestatore di ultima istanza. Se la depressione fu così “ampia, profonda e prolungata” fu perché la Gran Bretagna, “esaurita dalla guerra e vacillante dopo l’abortita ripresa degli anni ’20, fu incapace di assumere quel ruolo” (che le era storicamente toccato in quanto prima potenza economica da oltre un secolo), mentre gli Stati Uniti (paese guida emergente, con una banca centrale costituitasi da appena un quindicennio) furono “indisponibili” a ereditarlo.

Il fallimento del central banking fu totale. Non solo non ci fu un prestatore di ultima istanza a livello internazionale, ma, scosse dalle crisi valutarie che nel 1931 colpirono prima la Germania e poi la Gran Bretagna, molte banche centrali corsero a convertire le loro riserve valutarie in oro, così contribuendo a far ulteriormente contrarre la liquidità e a rendere ancora più terribili le pressioni deflative.

Il ’29 non fu l’unico caso di fiasco delle banche centrali, anche se ne è certo il più famoso. Lo stesso accadde nel 1873, e anche in quel caso la crisi economica che ne seguì fu così profonda e protratta da essere chiamata “Grande Depressione.”

La storia, d’altra parte, presenta episodi di segno opposto, come la crisi finanziaria del 1844, quando la Banca d’Inghilterra sospese la legislazione bancaria vigente al fine di rendere disponibile tutta la liquidità necessaria agli istituti che ne facevano richiesta e che erano in grado di offrire buone garanzie collaterali.

Il ’29, dunque, non è il paradigma di tutte le crisi – come oggi si viene continuamente sollecitati a credere. E’, piuttosto, il paradigma di quelle che finirono nel peggiore dei modi possibili per il mancato assolvimento da parte delle banche centrali del più esclusivo e delicato dei compiti loro assegnati.

La storia infatti dimostra – scrive Kindleberger – che “quando non c’è un prestatore di ultima istanza, come nel 1873, 1890 e 1931, la depressione che segue una crisi finanziaria è lunga e protratta, a differenza di altri episodi in cui il prestatore invece c’è, e la crisi passa come un temporale estivo.”

A quale di questi due generi appartenga la crisi in cui siamo oggi immersi mi pare facile sostenerlo: il copione che le banche centrali stanno seguendo – a partire dalla Federal Reserve – non è certo quello del ’29. E’ l’esatto contrario.

Nuove frontiere per gli investimenti

Dicevo che, a mio avviso, c’è anche una seconda conclusione interessante in Manias, Panics and Crashes. Si trova condensata nella seguente citazione: “Le conseguenze di una depressione dipendono non solo da come la crisi viene gestita ma da una miriade di altre variabili, in particolare da quei fattori che condizionano gli investimenti di lungo periodo: crescita della popolazione, esistenza di una nuova frontiera, impulsi derivanti da una guerra, esportazioni, la presenza o l’assenza di innovazioni che non sono già del tutto sfruttate, e cose simili.”

Se si pensa agli anni ’30, si coglie appieno il senso delle osservazioni di Kindleberger. Quel periodo fu segnato dall’adozione di misure protezionistiche e dal crollo del commercio internazionale, dalla chiusura degli stati all’interno delle proprie anguste frontiere e dalla deriva verso la guerra. Fu solo l’escalation dei preparativi bellici che, a partire dalla fine di quel decennio, agì da stimolo agli investimenti e mobilitò anche la ricerca e l’innovazione – producendo come suo massimo e tragico frutto la bomba atomica. La Grande Depressione fu superata, ma al costo orrendo di una carneficina e una barbarie senza precedenti.

E oggi? Ci sono nuove frontiere e innovazioni non pienamente sfruttate che possono motivare l’economia globale a lasciarsi alle spalle gli effetti depressivi del ciclo di boom e bust che abbiamo appena sperimentato? Penso di sì.

In estrema sintesi, mi limito a citare tre processi, a diversi stadi evolutivi, in grado di tornare rapidamente a catalizzare l’innato spirito di iniziativa e la disponibilità ad assumere rischi, che caratterizza la nostra specie: l’emersione dalla povertà e la modernizzazione, in particolare del continente asiatico; Internet, lo sviluppo delle comunicazioni e la progressiva digitalizzazione del sapere, con ricadute formidabili sul ritmo del progresso scientifico e tecnologico; la transizione verso lo sfruttamento di fonti energetiche rinnovabili e una civiltà ecosostenibile.

Non sono certo in grado di sapere come finirà la crisi in cui ci troviamo. Né posso sostenere che l’interpretazione delle crisi passate offerta da Kindleberger sia l’unica possibile, anche se a me pare convincente. In definitiva, ho solo cercato di mostrare che se assumiamo come criteri discriminanti tra una crisi che diventa una Grande Depressione e una crisi che viene superata “come un temporale estivo” i due fattori enunciati in Manias, Panics and Crashes, non c’è dubbio. Sia per quel che riguarda la gestione da parte delle banche centrali del loro ruolo di prestatrici di ultima istanza, sia per quel che concerne la presenza di stimoli agli investimenti di lungo periodo, oggi non siamo ridotti “come nel ‘29”. Ne siamo, piuttosto, agli antipodi.

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