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Il mercato delle idee: Soluzioni alla crisi

Nonostante i molti e costosi interventi già messi in campo da banche centrali e governi, le cronache delle ultime settimane ci dicono che in molti paesi il sistema creditizio resta nell’occhio del ciclone mentre la congiuntura economica non fa che deteriorarsi. Stiamo entrando nel pieno di quella che già ora si profila come la peggiore crisi del dopoguerra. Ci sono soluzioni o dobbiamo rassegnarci a un’altra Grande Depressione, destinata a durare svariati anni? Nella rubrica Il mercato delle idee offro qualche link per orientarsi e, dato che i testi sono in lingua inglese, aggiungo una mia presentazione delle riflessioni che vi sono contenute.

La politica monetaria non basta più

In un normale ciclo economico sono le banche centrali, in sostanza, a determinare una recessione e poi a dare avvio a una nuova fase espansiva, agendo – secondo necessità, e tra inevitabili errori – sulla potente leva dei tassi d’interesse. L’attuale ciclo, però, non è per niente normale. Al cuore del sistema, in America, ma anche in altri paesi, c’è stata eccessiva accumulazione di debito da parte delle famiglie ed eccessiva creazione di credito – di pessima qualità – da parte del sistema bancario. Il risultato è che sia le famiglie che le banche devono rimettere ordine nei loro bilanci.

Tutti si ritrovano costretti a farlo allo stesso tempo, e questo è il guaio. Le famiglie tagliano le spese, aumentano i risparmi e non ne vogliono più sapere di indebitarsi. Le banche tagliano il credito e tengono per sé la liquidità che generosamente viene loro offerta dalle banche centrali. L’attività economica collassa, le aziende falliscono, i lavoratori si ritrovano disoccupati. Lo sforzo di risanamento in cui sono impegnate banche e famiglie diventa via via più difficile. E’ il terribile circolo vizioso che sempre viene innescato da un boom del credito che si trasforma in crollo, in panico e in grave crisi finanziaria. La corsa ad accaparrare liquidità fa sì che, nello sforzo di salvarsi, ognuno finisca per contribuire alla rovina di tutti. E’ capitato già diverse volte in passato.

In queste situazioni, la politica monetaria convenzionale – quella cioè affidata alla leva dei tassi – non basta più. Il costo del denaro può scendere anche a zero, com’è accaduto in America, ma la domanda di credito non si riprende. Come si dice in gergo, “il cavallo non beve.” Uno dei motivi è che quando crollano i prezzi degli asset e l’attività economica, e anche i prezzi dei beni tendono a flettere in un unico gigantesco gorgo ribassista, anche un tasso zero è insufficiente.

Una prova convincente la offre un grafico (vedi sotto) prodotto dal chief economist di Goldman Sachs, Jan Hatzius, e commentato dal neo-premio Nobel Paul Krugman sul suo blog, The Conscience of a Liberal. Si tratta di una rappresentazione della cosiddetta regola di Taylor, o Taylor rule, una semplice equazione, ideata nel 1993 dall’economista americano John Taylor, che tiene conto degli scostamenti dell’inflazione e dell’attività economica dai loro target o livelli d’equilibrio al fine di prescrivere le corrette risposte di politica monetaria. L’idea di fondo è che quando inflazione e crescita sono eccessive, i tassi dovrebbero salire in modo da agire da freno; e quando inflazione e crescita si raffreddano troppo, i tassi dovrebbero scendere in modo da agire da stimolo.

Il grafico di Hatzius mette a confronto, per il periodo dal 1987 a oggi, il tasso a breve americano (Fed funds) con il tasso che sarebbe stato prescritto come corretto dalla Taylor rule. L’andamento è molto simile, a conferma che, nella sua semplicità, la Taylor rule è un utile strumento descrittivo di come una banca centrale – in questo caso la Federal Reserve – conduce la sua politica monetaria.

Per lo stesso motivo, la Taylor rule può essere usata per cercare di anticipare il corso futuro del costo del denaro, sulla base di stime dell’inflazione e del PIL. E’ quello che Hatzius, nel suo grafico, ha fatto, spingendosi fino al 2011. Ciò che emerge è che la risposta corretta all’evoluzione prevista da Goldman Sachs per l’inflazione e il PIL americani sarebbe un taglio dei Fed funds fino a un livello negativo del 6%!

I tassi, però, non possono scendere sotto lo zero. Se accadesse, gli istituti di credito ringrazierebbero sentitamente la banca centrale e accumulerebbero la liquidità nei loro forzieri. La conclusione è che la leva dei tassi – la politica monetaria convenzionale – ha smesso di funzionare. Nella situazione in cui ci troviamo è largamente inadeguata.

E allora? Nelle parole di Krugman, “Questo è il motivo per cui abbiamo bisogno di un poderoso stimolo fiscale, di politica monetaria non convenzionale (ndr, sostegni da parte della banca centrale che vadano oltre le manovre sui tassi a breve), e di qualsiasi altra cosa riusciamo a immaginare per combattere l’attuale tracollo. In senso letterale, le regole abituali non valgono più.”

Soluzioni non convenzionali

Per capire più in dettaglio quali possano essere le soluzioni migliori per superare la crisi un’ottima lettura è di nuovo offerta da Paul Krugman: si tratta della sua lettera aperta al Presidente Obama, pubblicata su Rolling Stone lo scorso 14 gennaio. LaStampa.it ne ha tradotto un ampio stralcio. E’ un po’ lunga, ma merita lo sforzo. Ne sintetizzerò, comunque, alcuni punti: quelli relativi alle misure urgenti da adottare nel primo anno della nuova amministrazione.

– L’economia è “in caduta libera” e le prospettive sono peggiori di quanto quasi chiunque aveva anticipato.

– L’aspetto più grave è l’incessante perdita di posti di lavoro: 2 milioni nell’ultimo anno e, di recente, mezzo milione al mese. Entro la fine del 2009 ci potrebbero essere 10 milioni di disoccupati in più del normale (pari a un tasso di disoccupazione del 9%), e altri 10 milioni di sottoccupati (pari a un tasso di disoccupazione allargata del 15%): una “catastrofe”.

– La Federal Reserve non ha più spazi di manovra con i tassi. Le misure non convenzionali tese a rianimare i mercati del credito sono indispensabili “per limitare i danni”, ma non sono in grado di far ripartire l’economia. La responsabilità, ora, è tutta nelle mani del governo.

– L’ultimo presidente americano ad aver affrontato una sfida analoga fu Franklin Delano Roosevelt (FDR, nella foto sotto), negli anni ’30. In quell’esperienza ci furono successi e insuccessi: i primi vanno imitati, dai secondi bisogna imparare perché non siano ripetuti.

FDR utilizzò la finanza pubblica per salvare le banche. E questo fu un bene. Nel 1935 un terzo del sistema bancario americano era stato nazionalizzato. A differenza di quanto ha sinora fatto l’amministrazione Bush, FDR non fu per niente “timido” nell’esigere che le risorse pubbliche, messe a disposizione delle banche, fossero utilizzate al servizio del bene pubblico. Insomma, esercitò i suoi poteri perché quel denaro fosse impiegato nell’attività di credito. Altre risorse furono messe direttamente a disposizione di imprese e famiglie. E questo occorre fare anche oggi, in modo da evitare che imprese sane falliscano e da consentire alle famiglie in necessità di rinegoziare i mutui e restare nelle loro case.

– L’economia ha bisogno di sostegno diretto ai salari e alla creazione di posti di lavoro. In questo FDR sbagliò. L’azione di stimolo ci fu ma non fu sufficiente. Nel 1937, illuso forse dalla ripresa degli anni precedenti e preoccupato per il buco che si era aperto nelle finanze pubbliche, FDR si lasciò convincere a tagliare le spese e ad alzare le tasse. La conseguenza fu un’altra terribile recessione che distrusse quasi tutti i progressi fatti sino ad allora. Alla fine fu quel “gigantesco programma di lavori pubblici noto come Seconda Guerra Mondiale” che consentì all’America di lasciarsi alle spalle oltre un decennio di Grande Depressione.

– Qual è la lezione? Il governo, nei suoi piani di spesa, deve essere “coraggioso”. Si tratta di sostituire la domanda privata, che è venuta meno, con domanda pubblica. Si tratta di riportare un tasso di disoccupazione, che tende al 9%, verso un più normale 5%. E siccome, a grandi linee, ci vogliono 200 miliardi di dollari (pari a circa l’1,4% del PIL) per abbassare la disoccupazione di un punto percentuale, per ottenere una “piena ripresa” il governo dovrà essere disposto a spendere circa 800 miliardi di dollari l’anno. Sotto i 500 miliardi di dollari, l’impegno sarà senza dubbio insufficiente.

– Aumenti di spesa pubblica di questa entità, in un periodo in cui la recessione riduce le entrate fiscali, produrranno di sicuro dei buchi di bilancio “paurosi”. Ma l’alternativa dell’eccesso di cautela sarebbe peggiore.

– Come spendere? In cose che abbiano valore nel tempo: infrastrutture, efficienza energetica e miglioramenti alla rete elettrica, Internet, informatizzazione del sistema sanitario, sostegno agli stati e ai governi locali in modo che non siano costretti a ridurre le spese nel momento peggiore. E poi aiuti alle famiglie colpite più duramente dalla crisi. “Far del bene farà bene” anche all’economia, dato che i più poveri saranno anche i primi a spendere i sussidi ricevuti.

– I tagli di tasse possono essere utili, soprattutto se rivolti alle famiglie a basso e medio reddito, ma non debbono essere lo strumento principale. Sono infatti meno efficaci nel sostenere la domanda di quanto non siano, ad esempio, gli investimenti in infrastrutture.

– A queste condizioni, il 2009 resterà un anno da dimenticare, ma si potrebbe avere una ripresa dal 2010.

Un rimedio per le banche

Dovremmo avere paura della completa nazionalizzazione delle banche in difficoltà? Se lo chiede Willem Buiter, docente alla London School of Economics ed ex-chief economist della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, nel suo blog Maverecon. La risposta è no. Anzi, è proprio questa la soluzione che presenta meno controindicazioni.

Finora, argomenta Buiter, in questa crisi i governi hanno seguito due approcci. In America, l’amministrazione Bush ha scelto di intervenire con capitali pubblici a condizioni di favore. E’ successo con AIG, con Goldman Sachs, con Citigroup. Così facendo, magari si consente alle banche di tornare a fare credito, ma si premiano i corresponsabili dell’attuale sfascio e si alimenta un atteggiamento di azzardo morale (moral hazard) che finirà in futuro per incoraggiare di nuovo un’eccessiva assunzione di rischi.

In Europa, tanto in Gran Bretagna come nella zona euro, i governi hanno preferito intervenire esigendo un prezzo più salato per il loro sostegno, sia in termini di costo del capitale che di altre condizioni “punitive”, quali ad esempio la fissazione di limiti ai compensi del top management.

Il risultato è che le banche stanno cercando in tutti i modi di evitare l’intervento dei governi. E quando questo è inevitabile, adottano strategie idonee a liberarsene al più presto. La più facile – a cui sono indotte anche da altri fattori, quali l’effettiva maggiore rischiosità dell’attività di credito in una situazione di crisi – è di evitare ogni rischio e, data la generale indisponibilità di capitali privati, restare sottocapitalizzate. Molte grandi banche europee, osserva Buiter, sono degli “zombie” e non stanno facendo il loro lavoro.

A questi due approcci ne è largamente preferibile un terzo: nazionalizzare del tutto. Tra l’altro, diventerebbe molto più facile risolvere un problema spinoso, e cioè come creare delle “bad bank” a cui conferire gli asset tossici – poco liquidi e dai prezzi incerti – che gravano come zavorre sui bilanci di molti istituti. Le proposte che oggi vengono avanzate, con le banche ancora in mani private, s’incentrano sulla possibilità di stabilire un qualche “valore equo” di questi asset da trasferire a veicoli pubblici. Ma sotto la copertura di un fair value che è oggi impossibile determinare, rischiano di nascondersi sussidi per niente trasparenti.

Molto meglio, sostiene Buiter, nazionalizzare per il tempo strettamente necessario. Le banche tornerebbero da subito a fare il loro lavoro, offrendo un migliore sostegno a imprese e famiglie. Una riprivatizzazione dovrebbe solo aspettare la stabilizzazione dei mercati finanziari e una ripresa dell’economia.

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Curva dei rendimenti e politica del tasso zero

Dell’utilità della curva dei rendimenti (yield curve) come strumento di previsione delle recessioni economiche ho più volte parlato nel mio blog, da ultimo nel post I Fed funds sono al 2% ma le Borse calano. Perché? In quell’articolo mostravo come una curva piatta o invertita – dove cioè i tassi sui titoli di stato a 10 anni si trovano, in modo anomalo, allo stesso livello o addirittura più bassi di quelli a tre mesi – abbia sistematicamente precorso, con un anno circa di anticipo, tutte le recessioni americane dell’ultimo mezzo secolo.

Utilizzavo, a tal fine, un grafico della Federal Reserve di Cleveland, che vado qui a riprodurre aggiornato alla metà di dicembre.

Il grafico mette a confronto la curva dei rendimenti americana (linea rossa) – rappresentata nella sua forma più essenziale, e cioè come spread, o differenziale, tra il tasso a 10 anni e quello a tre mesi – con il tasso di crescita del Pil (linea blu). Le fasce in grigio indicano le recessioni. Quando la linea rossa scende sotto lo zero vuol dire che la differenza tra i rendimenti decennali e quelli a tre mesi è diventata negativa e che la curva dei rendimenti si è pertanto invertita.

Quello che si può osservare, come scrivevo già nel mio post di luglio, è che:
a) La yield curve ha una grande variabilità. In generale, curve molto ripide, con differenziali superiori ai due punti percentuali hanno preceduto fasi di rapida espansione economica ma anche crisi inflative (negli anni ’70 e primi anni ‘80), mentre curve piatte o invertite hanno preceduto fasi di stagnazione;
b) Tutte le recessioni americane dell’ultimo mezzo secolo sono state precedute, con un anno circa di anticipo, da una curva dei rendimenti piatta o invertita;
c) Ci sono stati un paio di falsi segnali. Nel 1968, l’inversione della curva accompagnò un brusco raffreddamento della congiuntura, con tassi di crescita che passarono dall’8% al 2%, ma non vi fu recessione (anche se gli effetti di un rallentamento così drastico furono per molti versi quelli di una vera crisi economica). Nel 1998, in concomitanza con il default russo e il collasso del fondo LTCM, che fecero temere una crisi sistemica dei mercati, la curva si appiattì ma la crescita economica seguitò robusta per un altro biennio – sull’onda dell’euforico gonfiarsi della bolla dei titoli tecnologici.

Nel luglio scorso, quando scrissi I Fed funds sono al 2% ma le Borse calano, circolavano ancora molti dubbi sull’eventualità che l’economia americana fosse o stesse per cadere in recessione. Ma nel mio articolo mi spingevo ad assegnarvi un’alta probabilità, confidando anche sul provato valore predittivo della curva dei rendimenti, che aveva trascorso diversi mesi in una configurazione piatta a cavallo tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007. Come si è poi visto, quella scommessa ha pagato. E gli investitori che già dal 2007 avessero prestato attenzione ai minacciosi segnali che la yield curve diffondeva – com’è stato il caso dell’Investitore Accorto – avrebbero potuto evitare la falcidia che si è poi abbattuta su molti portafogli.

Come mai uno strumento all’apparenza così semplice come la curva dei rendimenti sia tanto efficace nel predire le recessioni è ben riassunto in uno studio di Arturo Estrella e Frederic Mishkin, pubblicato dalla Federal Reserve di New York nel 1996. I due ricercatori osservano come la parte breve della curva sia molto influenzata dalle decisioni di politica monetaria della Banca centrale, che a loro volta condizionano l’andamento dell’attività economica con un ritardo temporale di alcuni trimestri. La parte lunga della curva, d’altra parte, riflette le aspettative del mercato riguardo all’evoluzione dei tassi reali e dell’inflazione. I tassi reali attesi incorporano la percezione del mercato sul corso futuro della politica monetaria. Mentre l’inflazione attesa contiene anche un elemento di anticipazione della crescita economica, dato che crescita e inflazione tendono a essere positivamente correlate.

Una curva piatta o invertita, dunque, prende di solito forma quando la Banca Centrale alza i tassi a breve al punto da generare aspettative di più bassi tassi e più bassa inflazione in futuro. Si tratta di condizioni tipicamente associate all’instaurarsi di una recessione. E come l’esperienza insegna, il mercato – in questo – dimostra di saper leggere nel futuro con notevole acume.

Cosa ci rivela invece una curva positivamente inclinata, in cui i tassi a lunga sono più alti di quelli a breve?

Entro una certa soglia – più o meno attorno ai due punti percentuali – non ci dice nulla di particolare. Si tratta infatti di una condizione normale. Più si allontanano le scadenze, più i tassi d’interesse tendono a innalzarsi per compensare gli investitori dei maggiori rischi. E in ogni obbligazione ce ne sono diversi, come quello di insolvenza, di mercato, di liquidità, di inflazione, di reinvestimento. In un titolo particolarmente sicuro come un T-bond americano si può assumere che i rischi di insolvenza e di liquidità siano prossimi allo zero, ma restano gli altri, primo fra tutti il rischio di inflazione.

Oltre quel limite approssimativamente posto attorno ai due punti percentuali, però, è ragionevole pensare che una curva positivamente inclinata ci indichi che crescita e inflazione sono destinate a prendere forza, per gli stessi motivi per cui una curva piatta o negativamente inclinata ci ammonisce dell’approssimarsi di una recessione. Uno sguardo al grafico della Federal Reserve di Cleveland, che ho riprodotto all’inizio di questo post, pare confermarlo.

Veniamo ora al dunque. Che forma ha, di questi tempi, la curva dei rendimenti americana? Ce lo mostra il seguente grafico, che traggo da Stockcharts.

La yield curve è piuttosto ripida. I tassi a tre mesi sono praticamente a zero, mentre quelli a 10 anni si aggirano attorno al 2,35%. Lo spread è superiore al 2%. La curva, dunque, sembra dirci che il mercato sconta condizioni di crescita economica e inflazione più sostenute nei trimestri a venire.

Questa è anche l’interpretazione degli economisti della Federal Reserve di Cleveland, che sulla base di un modello che mette in relazione l’andamento della curva dei rendimenti alla crescita del PIL, hanno elaborato, a metà dicembre (quando la yield curve era un po’ più ripida di quanto non sia oggi), la previsione illustrata nel seguente grafico:

Nel corso del prossimo anno – scrivono – il PIL americano dovrebbe crescere a un tasso del 3% circa. Si tratta di una delle previsioni più ottimistiche tra quelle formulate dagli economisti americani, la cui stima di consenso – stando all’ultimo sondaggio mensile del Wall Street Journal – si ferma a un deludente tasso di crescita dello 0,0% (zero) nel quarto trimestre del 2009 rispetto al quarto trimestre del 2008.

Chi, come l’Investitore Accorto, ha dato credito – con successo – alle capacità predittive della curva dei rendimenti quando si è trattato di anticipare una recessione dovrebbe ora riporre altrettanta fiducia in questa stima di una robusta ripresa ciclica nei trimestri a venire?

Ho i miei seri dubbi. E la pulce nell’orecchio me l’ha messa Paul Krugman (nella foto in alto), il fresco premio Nobel per l’economia. Nel suo blog, The Conscience of a Liberal, Krugman osserva come la discesa dei tassi a breve americani verso la soglia minima di zero – sanzionata dalla Federal Reserve a metà dicembre – modifica alla radice il senso dei segnali inviati dalla curva dei rendimenti.

In condizioni normali, scrive Krugman, i tassi a breve possono sia scendere che salire. Il mercato, nella parte lunga della curva, è dunque libero di dare corpo alle sue aspettative, sia in un senso che nell’altro: tassi più alti se si prevede più crescita e inflazione, tassi più bassi se si sconta il contrario.

Ma ora, con i tassi a breve che hanno toccato il fondo, questa libera scommessa non può avere luogo. In ogni caso, è escluso che i tassi a breve, in futuro, scendano ancora mentre resta possibile, al contrario, che salgano. In queste condizioni, i tassi a lunga – nota Krugman – finiscono per comportarsi come il prezzo di un’opzione.

Una conferma di questa interpretazione verrebbe da quanto accadde in Giappone verso la fine degli anni ’90, quando la Banca centrale giapponese adottò una politica del tasso zero, proprio come ha fatto ora la Federal Reserve. I rendimenti decennali dei titoli di stato giapponesi oscillarono allora mediamente attorno all’1,75% – non troppo al di sotto di dove si trovano al momento negli Usa. Quello spread non fu né un segnale di ripresa né di normale crescita. Il paese, infatti, rimase a lungo in stagnazione.

“Triste a dirsi – conclude Krugman – la curva dei rendimenti non ci offre alcun conforto. Ci dice soltanto quello che già sappiamo, e cioè che la politica monetaria convenzionale (affidata alle manovre sui tassi, ndr) ha letteralmente toccato il fondo.”

Anche uno strumento prezioso come la curva dei rendimenti sembra dunque avere i suoi limiti.

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