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Economia Usa, i rischi di recessione restano alti

Sarà per il rally delle Borse, risalite del 15% dai minimi di marzo facendo segnare ad aprile il miglior risultato mensile dal 2003, sarà per un po’ di dati macroeconomici dalle apparenze rassicuranti, ma in queste due ultime settimane si è diffuso un ottimismo sulle prospettive dell’economia americana che mi pare ingiustificato.

Un segno della ritrovata fiducia ce lo dà il contratto US.recession.08, scambiato sull’information market di Intrade. Si tratta di uno strumento che consente di scommettere sulle probabilità di recessione negli Usa nel corso del 2008.

Come mostra il grafico che segue, negli ultimi 15 giorni – per l’esattezza a partire dal 24 aprile – il contratto è sceso bruscamente sotto la soglia del 55%, che aveva segnato il limite inferiore di una forchetta compresa tra il 55% e il 75% entro cui le aspettative degli scommettitori erano andate stabilizzandosi dall’inizio dell’anno.


La discesa è poi andata accelerando dalla fine di aprile, col risultato di portare il contratto a quotare oggi un rischio di recessione del 26% appena – un livello inferiore a quello prevalente a metà ottobre, quando il mercato azionario americano toccò i massimi di questo ciclo (vedi grafico sotto, a cura di StockCharts).


A dar credito a questi segnali, sembrerebbe che il peggio per gli Usa e per i mercati azionari (di cui l’S&P 500 resta l’indice guida) sia ormai da considerare passato. Ma è una conclusione che non condivido e che sconsiglio di coltivare. Le evidenze contrarie, infatti, sono troppe – come cercherò ora di mostrare.

A osservare più nel dettaglio l’andamento del contratto di Intrade, si vede come i movimenti al ribasso si siano concentrati nelle date del 24 e 30 aprile e del 2 maggio. Si tratta dei giorni in cui sono state diffuse una serie di statistiche macroeconomiche tutte, in apparenza, superiori alle aspettative: sussidi alla disoccupazione (24 aprile), Pil (30 aprile), rapporto sull’occupazione (2 maggio).

In più, il 30 aprile, c’è stato anche l’annuncio dell’ulteriore taglio dei tassi da parte della Federal Reserve, con un comunicato che conteneva una valutazione meno negativa – rispetto all’annuncio di politica monetaria di sei settimane prima – sulle prospettive di crescita dell’economia americana.

Sembrerebbe dunque esserci un legame diretto tra i dati macro e le mutate aspettative degli investitori. Se è così, mi sento di aggiungere che sono in tanti, in questo momento, a rischiare di prendere lucciole per lanterne. Grattando sotto la superficie, infatti, pare a me chiaro come l’economia Usa non stia affatto migliorando, al contrario.

Consumi in crisi

Vorrei partire dal dato più complessivo tra quelli pubblicati di recente, la stima preliminare del Pil del primo trimestre. I mercati hanno tirato un sospiro di sollievo per una crescita annua dello 0,6%, migliore delle attese.

Se questo risultato sintetico viene però scomposto e analizzato, è facile rendersi conto di come sia stata soltanto l’accumulazione di scorte (beni prodotti rimasti invenduti a causa di una domanda che è stata più debole di quanto le imprese avessero previsto) a tenere il Pil sopra la linea dello zero.

Al netto delle scorte, le vendite finali, in termini reali, sono calate dello 0,2% su base annua, segno che la domanda ha iniziato a contrarsi. Se l’export resta vivace (+5,5%), grazie al dollaro debole e a un’economia internazionale ancora in espansione – soprattutto in Asia – il segnale più preoccupante viene dai consumi – il 70% dell’economia Usa.

Vorrei qui riprendere l’analisi di Asha Bangalore di Northern Trust. L’unica componente positiva, a livello di spesa delle famiglie, è stata quella relativa ai consumi di servizi, spinta al rialzo dal +14,2% annuo registrato dalla spesa per elettricità e gas. Il motivo, al netto dell’inflazione? Un inverno più freddo del normale.

Per il resto, i consumi hanno testimoniato lo stato di crisi sempre più pronunciata dei bilanci delle famiglie americane. La spesa di beni durevoli è scesa del 6,1% annuo, quella di beni non durevoli dell’1,3%.

Nel complesso, il -3,0% fatto segnare dai consumi di beni è il dato più debole dal quarto trimestre del 1991, quando l’economia Usa stava emergendo dalla recessione, come evidenzia il grafico che segue, a cura di Northern Trust.

Passiamo ora all’occupazione. Dei dati sui sussidi di disoccupazione del 24 aprile, insolitamente positivi, non vale neppure la pena parlare. Una settimana dopo (il primo maggio) sono stati subito contraddetti da nuovi risultati che confermano, nel complesso, un trend in netto peggioramento. Concentriamoci allora sul più importante rapporto mensile sul mercato del lavoro, reso pubblico venerdì scorso.

Occupazione in calo

Il tasso di disoccupazione è sceso dal 5,1% al 5,0% mentre il calo dei posti di lavoro è stato di appena 20 mila unità, meno del previsto e inferiore al calo di 81 mila unità del mese precedente. Le Borse hanno tirato un sospiro di sollievo, che, però, a ben vedere, è frutto di una certa cecità.

E’ stato più volte osservato che, nelle fasi di svolta del mercato del lavoro Usa, i dati ufficiali risentono di un metodo di calcolo mensile del saldo tra aziende neonate e aziende defunte (il cosiddetto birth/death adjustment) che lascia a desiderare perché non tiene conto del ciclo. Il risultato è che in momenti di raffreddamento della congiuntura, come l’attuale, la tendenza è a contabilizzare posti di lavoro inesistenti.

Osserva Bangalore che escludendo il birth/death adjustment, gli occupati negli ultimi dodici mesi sono calati di 630 mila unità. Includendolo, come fanno le statistiche ufficiali, si arriva invece a un aumento di 157 mila occupati. C’è insomma, un’enorme differenza di 787 mila unità, interamente imputabili a un artificioso e inaffidabile metodo di aggiustamento statistico.

Una verifica si può fare sommando, al dato sugli occupati, quello sui lavoratori costretti al part-time per motivi economici (perché costretti dall’azienda e non per propria scelta) e sui lavoratori cosiddetti “marginali.” Il tasso di disoccupazione allargato che ne ricava Bangalore è il seguente:


Questa seconda, più ampia, misura del tasso di disoccupazione nell’economia Usa (linea blu) è passata dall’8,2% di un anno fa al 9,2% di aprile, evidenziando un peggioramento marcato e che non dà segni di rallentamento. Per Bangalore, si tratta di un dato molto più affidabile sul reale stato del mercato del lavoro americano.

Nel rapporto di venerdì scorso, c’è poi stato anche un altro importante elemento di debolezza, quello che riguarda la stima sulle ore lavorate, scese ad aprile dello 0,4% su base annua – un’ulteriore indicazione, a giudizio di Bangalore, che il Pil del secondo trimestre sarà di segno negativo.

Vorrei concludere con altre due osservazioni.

La voragine del mercato della casa

Il mercato della casa, da cui si sono originati il rallentamento dell’economia Usa e la crisi dei mercati internazionali, continua a peggiorare. Il grafico che segue, tratto sempre da Northern Trust, illustra l’andamento delle vendite di nuove case.


A marzo, l’ultimo dato disponibile, sono scese dell’8,5%. Non ci sono segni di rallentamento né, tanto meno, di imminente stabilizzazione.

Dal picco del luglio 2005, il crollo delle vendite è stato finora del 63,1% – superiore a quello di ogni altra recessione del dopoguerra. Altri indicatori offrono tutti le stesse evidenze: il mercato della casa è una voragine il cui fondo non è ancora stato toccato.

Mercato del credito, il “cavallo non beve”

C’è poi l’amaro riscontro dell’inefficacia – sinora – della politica monetaria.

Nonostante i tagli di 325 punti base dei Fed funds (dal 5,25% al 2%), decisi dalla Federal Reserve, la disponibilità di credito nell’economia Usa si fa sempre più scarsa, in tutti i settori (credito alle aziende, sia piccole che grandi, credito immobiliare, credito al consumo).

Come racconta l’ultima Loan Officer Survey, curata dalla banca centrale e pubblicata ieri, i prestatori di denaro sono inibiti dal deterioramento degli attivi, dalla inadeguata liquidità nei mercati secondari, dalla peggiorata affidabilità della clientela, e, nel complesso, da una “ridotta tolleranza per il rischio.”

Il 50% degli intermediari sondati dalla Fed dichiara di avere reso più stringenti gli standard creditizi nel mercato immobiliare rispetto a tre mesi fa, in larga misura in risposta al continuo deprezzamento del collaterale dato in garanzia.

Il 22,7%, rispetto al 15% di gennaio, si dichiara non disponibile a offrire credito al consumo. Si tratta, come evidenzia il grafico che segue di Northern Trust, della percentuale più alta dal secondo trimestre del 1980.


Come si dice in gergo, “il cavallo (e cioè l’economia Usa) non beve” (il riferimento è alle iniezioni di liquidità impartite dalla Federal Reserve).

Senza credito, l’attività ristagna e i consumatori – troppo indebitati e sempre più a rischio di perdere il posto di lavoro – tirano i remi in barca e badano a risparmiare. In presenza di consumi in calo, le imprese non investono.

L’economia Usa, nonostante il sostegno che viene dal dollaro debole e da una domanda estera ancora tonica, resta un malato in via di peggioramento.

Stimare – come fanno gli scommettitori di Intrade – che le possibilità di recessione siano solo una su quattro mi sembra wishful thinking. Penso siano molte di più.

E resto dell’avviso che anche i mercati azionari, nelle prossime settimane, esaurito lo spiritato bear market rally dell’ultimo mese e mezzo, torneranno a rammentarcelo.

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