Tra bear market e Bear Stearns: dove va la Borsa?
“Quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo”. Tra gli investitori questo aforisma del filosofo George Santayana è tanto noto quanto, in pratica, disatteso. Soprattutto quando i mercati danno soddisfazione, perché salgono – come sta di nuovo accadendo dal 15 marzo, quando la Federal Reserve ha orchestrato il salvataggio della banca d’affari Bear Stearns – la capacità di prendere le distanze dall’attualità e “ricordare il passato” diventa una virtù rara.
Che le cose stiano così è tornato a farmelo presente, in modo un po’ scanzonato, l’ultimo commento settimanale di John Hussman, uno dei migliori gestori e analisti americani.
Deja vu
In un articolo titolato Deja vu, pubblicato lunedì, Hussman esordisce con quella che pare essere una sua sintetica descrizione dello stato corrente dei mercati.
– l’indice S&P 500 che dopo essere sceso dai massimi del 20% ha recuperato metà delle sue perdite;
– i rischi di recessione sempre presenti ma in un’economia Usa in cui il tasso di disoccupazione è peggiorato appena di mezzo punto rispetto all’apice del ciclo;
– la volatilità e i credit spread in forte calo;
– il ritrovato ottimismo degli analisti.
Riassumendo la situazione in una frase, “tutto suggerisce che per gli investitori il peggio è passato grazie in larga misura all’azione della Federal Reserve.”
Ma parla davvero di oggi? Che beffardo, questo Hussman! No, quello che cita è un suo commento del gennaio 2001, che si concludeva così:
“Tutti sembrano pensare che grazie alla Fed il mercato ha già toccato il fondo e che il rallentamento dell’economia è ormai una notizia vecchia. Noi siamo scettici.”
“[…] Pensiamo che l’economia sia all’inizio di un ciclo di riduzione della leva finanziaria (ndr, espansione finanziata con capitale di prestito). Gli investitori che credono all’onnipotenza della Fed hanno evidentemente dimenticato espressioni come “trappola della liquidità” o “spingere con una corda”, che gli economisti usano per descrivere l’incapacità di stimolare l’attività economica con il credito facile quando la spesa è stagnante. Questo è quello che accadrà.”
Hussman, come poi si è visto, aveva ragione.
Il bear market, una brutta bestia
Al vigoroso recupero delle Borse nel gennaio 2001 seguì – usando il metro dell’S&P500 – un rapido calo del 19,7% fino ad aprile, poi un altro bear market rally del 19,0% tra aprile e maggio e da qui un crollo del 26,4% fino ai minimi di settembre, dopo gli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono.
La Fed rispose allo sgomento generato dalla follia dei terroristi con un’ulteriore, abbondante iniezione di liquidità e gli investitori ripresero fiducia, spingendo l’S&P500 al rialzo del 21,4% fino a gennaio 2002. Il mercato calò poi del 7,9% tra gennaio e febbraio ma si riprese con un avanzamento dell’8,3% fino a marzo.
Accadde qui un altro collasso, con perdite del 31,8% fino a luglio, seguite da un furibondo rally del 20,7% tra luglio e agosto. Ma la storia non era finita. L’ultimo atto fu un crollo del 19,3% fino ai minimi dell’ottobre 2002. Il bear market si chiudeva, dopo questa successione mozzafiato di cadute e risalite, durata oltre due anni e mezzo, con una perdita complessiva del 49,1%.
Leggere e rileggere i valori percentuali dei movimenti del trend primario ribassista e delle correzioni al rialzo è un utile esercizio. Dà spessore alla nostra comprensione di che razza di infida creatura sia un bear market, più di quanto non faccia la consueta visione di sintesi, condensata ad esempio nel grafico decennale che segue, a cura di Barchart:
Qual è, dunque, la lezione che ci viene dallo studio del passato? La riassume bene Hussman:
“Gli investitori davvero non hanno capito nulla delle dinamiche del mercato se credono che un bear market associato a condizioni recessive dell’economia comprenda un unico ribasso del 20%, o anche meno, seguito da un rimbalzo a forma di V che porta a un nuovo bull market.”
Non è così che funziona la psicologia collettiva, non è così che evolvono i cicli economici, non è così che si muovono le Borse. L’ho già scritto nel mio post Mercati azionari e rischi di recessione. Ma vale la pena ripeterlo.
Se si sta all’S&P 500, dal 1950 ci sono stati 16 bear market con flessioni superiori al 15% (escludendo l’attuale, di cui conosciamo l’inizio ma non ancora la fine). Nove di questi hanno coinciso con una recessione dell’economia americana (tradizionalmente, anche se alquanto semplicisticamente, definita come una fase di contrazione del Pil che abbraccia almeno due trimestri consecutivi).
I bear market senza recessione sono durati in media 215 giorni (poco più di sette mesi) con cali contenuti tra il 15% e il 25%; quelli con recessione si sono prolungati per 491 giorni (oltre 16 mesi) con esiti molto più variegati e imprevedibili.
In alcuni casi, le perdite sono state non dissimili da quelle dei bear market senza recessione, ma in altri casi, come nel 1968, 1973 e 2000 – quando le Borse erano caratterizzate da una forte sopravvalutazione – hanno superato, anche di molto, il 35%.
Qualcuno obietterà: dov’è oggi la recessione? Dov’è la sopravvalutazione?
Prima di rispondere vale la pena notare che, in ogni caso, ritenere che il bear market iniziato a Wall Street a metà ottobre si sia esaurito con il doppio minimo (vedi grafico qui sotto, a cura di StockCharts) registrato a metà marzo – solo cinque mesi dopo – è poco rispondente al profilo tipico dei “mercati orso” del passato – anche di quelli più benigni.
Ad ascoltare gli ottimisti di oggi, avremmo insomma a che fare con un orso geneticamente modificato, una bestia nuova, il cui supposto avvistamento dovrebbe suscitare – in ogni investitore accorto – un sano scetticismo.
L’evento, beninteso, non è impossibile ma fino a prova contraria va considerato improbabile. Per essere espliciti, scommettere ora dei soldi sulla tesi che il bear market sia finito a marzo è un azzardo, un’avventatezza.
Bear market e recessione
Se passiamo poi a considerare la congiuntura, come ho scritto nel post Economia Usa, i rischi di recessione restano alti, l’interpretazione che i più hanno dato delle recenti statistiche macroeconomiche americane stupisce tanto è superficiale, fuorviante, sbagliata.
Pecca di un eccesso di ottimismo che già di per sé mi ha indotto in questi giorni a inserire di nuovo tra le mie priorità – come investitore – la valutazione di modi e tempi per il possibile acquisto di opzioni put sugli indici azionari (strategia che, come ho già scritto in questo blog, tendo a utilizzare a copertura del mio portafoglio nei momenti in cui ritengo vi sia un rischio elevato di sensibili ribassi).
A quanto scrivevo in quel post vorrei solo aggiungere che anche nel gennaio 2001 pochi ritenevano che l’economia Usa fosse avviata verso la recessione.
L’economia iniziò a contrarsi due mesi dopo, ma questo fu chiaro alla gran massa degli osservatori solo molto più tardi e dopo innumerevoli revisioni delle statistiche ufficiali.
Tanto per fare un esempio, Ben Bernanke, ora capo della Federal Reserve e allora responsabile del dipartimento di studi economici dell’Università di Princeton, fu in grado di reiterare il convincimento che una recessione sarebbe stata evitata addirittura nell’agosto. A quel punto, la recessione – iniziata, come poi si capì, a marzo e conclusasi a novembre – era prossima più alla sua fine che al suo inizio.
Tra quanti riuscirono a capire, a inizio 2001 – nell’ottimismo che ancora pervadeva i mercati – che gli Usa erano già in “territorio recessivo” vi fu naturalmente John Hussman. Ma vi fu anche l’Economic Cycle Research Institute (ECRI) di Lakshman Achuthan e Anirvan Banerji, il più prestigioso tra i centri di ricerca che cercano di identificare i punti di svolta del ciclo economico.
Cosa pensi oggi Hussman è presto detto. Il commento di lunedì scorso si conclude in termini espliciti:
“A parte il convincimento che, al momento, i rischi sono di ribassi potenziali non altrettanto corposi quanto nel 2000-2002, per il resto le mie valutazioni sul ciclo attuale sono del tutto in linea con quelle che esprimevo alla fine del bear market rally del gennaio 2001”.
“Per la prima volta nella storia, l’indebitamento delle famiglie eccede il Pil (ndr, vedi grafico qui sotto a cura di Ned Davis Research, con la progressione dal 25% del 1952 al 102% attuale, e, in particolare, l’esplosione dell’ultimo decennio dovuta al gonfiarsi della bolla immobiliare), mentre il debito totale nell’economia americana è pari al 350% del Pil.”
Continua Hussman: “Se si tiene conto che le insolvenze sulla parte immobiliare di quel debito stanno aumentando, e che la compressione degli utili metterà a rischio anche il servizio degli oneri da parte delle aziende ‘marginali’, è difficile condividere l’ottimismo di tanti analisti circa la possibilità che le difficoltà attuali finiscano per lasciare indenni gli investitori.”
“[…] Non è che la quantità del debito sia, di per sé, particolarmente sensibile alle recessioni. Piuttosto, a mano a mano che l’economia rallenta, è il gravame del debito che tende ad amplificare i suoi effetti imponendo tagli alle spese, all’occupazione, agli investimenti.”
Insomma, semplificando, il punto è che con l’economia Usa ormai ferma non c’è manovra sui tassi che possa ridare in fretta slancio alla domanda in presenza di un carico di debiti così oppressivo.
Né può essere risolutivo uno stimolo fiscale come quello messo a punto dall’amministrazione Bush e approvato in fretta dal Congresso, per un ammontare che, coi suoi 117 miliardi di dollari, si presenta come una goccia nel mare delle passività.
La dinamica prevalente, ora che la crescita è stata a poco a poco strangolata, è quella dell’enorme peso del debito – che spinge verso la contrazione dell’attività economica.
Quanto all’ECRI, è da svariate settimane che prevede una recessione, come risulta anche dall’ultimo aggiornamento settimanale del suo Leading Index (indicatore anticipatore del ciclo), reso pubblico venerdì.
Per quanto sia risalito dai minimi di 14 settimane fa, l’indicatore, come riferisce un dispaccio della Reuters, “resta pesantemente in territorio negativo, lasciando intendere che le prospettive (ndr, dell’economia Usa) sono ancora recessive.”
Cos’è una recessione e perchè negli Usa già c’è
Un articolo di Achuthan e Banerji, apparso la scorsa settimana su CNNMoney, aggiunge un po’ di utile contesto.
I due co-fondatori dell’ECRI ricordano, al di là della semplicistica definizione basata solo sul Pil, cos’è in sostanza una recessione:
“[…] Una contrazione dell’attività economica che tende ad auto-rinforzarsi, quando un calo delle spese porta a tagli nella produzione e, di conseguenza, nei posti di lavoro, e ciò produce una perdita di reddito che si diffonde nel paese, da un’industria all’altra, pesando negativamente sulle vendite e, di riflesso, di nuovo sulla produzione, in ciò che si rivela essere, in effetti, un circolo vizioso.”
Ne segue che l’accurata definizione statistica di una recessione non può essere affidata solo ai dati sul Pil o sulla produzione industriale, ma deve includere il mercato del lavoro, i redditi, i consumi, tutti orientati – in una spirale – al ribasso.
Quando questi fattori tendono, in concerto, a contrarsi in modo “pronunciato, pervasivo e persistente”, si ha una recessione.
Qual è oggi la situazione?
“Il Pil ancora non sta calando – scrivono Achuthan e Banerji – ma già si sono registrati quattro mesi consecutivi di flessione degli occupati. E ciò suggerisce che l’economia sta transitando verso la recessione. Implica che almeno una delle due ultime stime trimestrali sul Pil, che sono state lievemente positive, e forse tutte e due, saranno riviste e corrette in dati di segno negativo entro l’anno prossimo. Oppure, vedremo uno o due trimestri di crescita negativa del Pil nel corso del resto dell’anno.”
“Mentre l’accertamento definitivo della recessione potrebbe dover attendere almeno un altro anno, resta il fatto che i nostri indicatori anticipatori non sono mai stati così deboli se non nel corso di una recessione.”
Bear market e sopravvalutazione
Vorrei concludere con un accenno alla fondamentale questione delle valutazioni di mercato.
Si è visto come, in contesti di sopravvalutazione e in concomitanza con recessioni economiche, i bear market azionari assumano proporzioni devastanti: lunga durata e crolli degli indici compresi – come nel 1968, 1973 e 2000 – tra il 35% e il 50%.
Non so, ovviamente, se sia proprio questo l’esito che ora ci attende. Ma è chiaro che le Borse restano, in una prospettiva di lungo periodo, fortemente sopravvalutate.
Ho già più volte citato gli studi di Andrew Smithers, e spiegato il significato che va dato ai parametri di valutazione che lui utilizza, il q e il CAPE (Cyclically Adjusted P/E).
Non mi ripeterò, limitandomi a fare riferimento ai post I multipli di Borsa restano elevati e Sul cattivo uso del P/E e il P/E normalizzato.
Vorrei qui aggiungere solo l’ultimo aggiornamento del grafico che Smithers pubblica sul suo sito e che raffigura la serie storica delle sue stime su q e CAPE.
Sopra la linea dello zero, il mercato (indice S&P 500) è sopravvalutato rispetto al suo valore medio di lungo periodo, e viceversa. Come indicato, l’ultima stima si riferisce a dati aggiornati al 31 dicembre 2007, quando l’S&P 500 quotava 1468 punti – un 6% circa sopra i livelli attuali.
A quella data il mercato azionario Usa risultava sopravvalutato del 71% in base al multiplo P/E corretto per il ciclo (CAPE), mentre il settore non finanziario, in base a q (che non può essere calcolato per i titoli finanziari), era sopravvalutato “solo” del 17%.
Come il grafico di Smithers rende evidente, tali livelli di sopravvalutazione hanno pochi (nel caso di q) o nessun precedente (nel caso della stima in base a CAPE) al di fuori del periodo di follia speculativa a cavallo del 2000.
Il bear market non finisce con Bear Stearns
Com’è altrettanto chiaro, la storia ci insegna che a cicli di euforia e di esorbitanti sopravvalutazioni hanno sistematicamente fatto seguito fasi protratte di pronunciata depressione e sottovalutazione.
Insomma, per tirare le somme, gli indizi a me paiono convergenti e mi inducono a pensare che, come nel gennaio 2001, il bear market azionario sia oggi lungi dall’essersi esaurito.
Meglio dunque diffidare di quanti – e sono molti – vanno sostenendo che con il salvataggio di Bear Stearns, a metà marzo, la Federal Reserve ha scritto la parola fine della crisi creditizia e, di riflesso, dell’inverno dei mercati.
La Fed non è onnipotente. E una Bear Stearns non fa primavera.
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