Mafia, economia e politica giudiziaria in Italia
Negli Stati Uniti è Wal-Mart, in Giappone Toyota, in Gran Bretagna British Petroleum, in Germania DaimlerChrysler, in Francia Total, in Spagna Banco Santander Central Hispano, e nella piccola Finlandia è Nokia. E da noi? Beh, da noi, stando almeno all’ultima edizione del Global 500, la classifica delle 500 maggiori aziende mondiali, curata da Fortune, la prima impresa per fatturato (ventiseiesima al mondo) è ufficialmente Eni, con i suoi 109 milioni di dollari. Ma in un paese in cui l’economia sommersa rappresenta almeno un quarto di quella “emersa”, le classifiche ufficiali valgono poco.
La conferma (l’ennesima) viene ora da un rapporto di Confesercenti, che ci dice come la prima azienda italiana sia in verità la mafia, con ricavi annui (illeciti) stimati attorno ai 90 milioni di euro – pari cioè, per uniformarsi alle classifiche internazionali, a oltre 125 milioni di dollari (sufficienti a entrare nella top 20 della classifica globale di Fortune).
Non so quanto questo dato sia affidabile. Di certo non è nuovo. Già un paio d’anni fa, l’allora procuratore nazionale Piero Vigna parlava di un giro d’affari di circa 100 milioni di euro.
In Germania sono preoccupati
La potenza economica delle cosche sta diventando tale da preoccupare i governi di altri paesi. E’ di qualche mese fa un rapporto dei servizi segreti tedeschi, che stima in 80-90 milioni di euro il valore degli investimenti della sola ‘ndrangheta in Germania. Per dare un’idea, è una somma tre volte superiore all’ammontare totale degli investimenti diretti italiani in Germania nell’ultimo triennio, che pure sono stati gonfiati dalla mega-acquisizione della banca HVB da parte di Unicredit.
In Italia, dunque, c’è chi vive sempre più di economia illegale, e la esporta. Risorse enormi vengono drenate dall’economia sana, con l’uso della minaccia e della violenza, e riciclate altrove. Come meravigliarsi se il paese non cresce e non crea lavoro? C’è molto da preoccuparsi. Una collettività civile, abitata da cittadini che abbiano un briciolo di rispetto per se stessi, non può vivere a lungo in questo stato.
Il caso Calabria
Spinto dall’urgenza di capire qualcosa del nostro strampalato paese, ho letto in questi giorni I padroni delle città, un’illuminante collezione di ritratti di 15 città italiane, scritta da Curzio Maltese.
Di Reggio Calabria, “la dimenticata”, Maltese racconta come uno dei primi atti della nuova amministrazione, guidata da Peppe Scopelliti, sia stata l’inaugurazione, sul lungomare, di un monumento alla massoneria. Di come il sindaco abbia “un fratello assai intraprendente, Tino, detto Tino-ten per via della percentuale fissa del 10% che prenderebbe su ogni appalto.” Oppure ancora di come il pool antimafia di Salvatore Boemi, che “aveva indagato su sessantaquattro cosche e portato a quattrocento ergastoli,” sia stato sei anni fa “smantellato pezzo per pezzo, con i magistrati distaccati sul ‘fronte della guerra al terrorismo islamico’”.
Nella colossale sede della Regione, intanto, il governatore Agazio Loiero attende con ansia l’arrivo di dodici miliardi di euro stanziati dalla Unione Europea, con i quali, dice, “nei prossimi cinque anni possiamo cambiare faccia alla Calabria.”
Ma osserva Maltese: “Qualcuno potrebbe obiettare che prima bisognerebbe cambiare qualche faccia in Regione, con trenta consiglieri inquisiti su cinquanta.” Come dargli torto?
Mastella contro De Magistris
In questa stessa Calabria, accade ora che un magistrato, Luigi De Magistris, dando prova di un coraggio e di un senso del dovere non comuni, si metta a indagare su un giro di truffe e finanziamenti illeciti realizzati con i fondi europei, che coinvolge cosche, logge massoniche, politici locali e arriva a lambire il Ministro della Giustizia Clemente Mastella.
Il magistrato viene accusato di protagonismo, di mancato rispetto delle forme e delle procedure: non avrebbe informato di una serie di atti il suo capo – di cui lui aveva peraltro fondati motivi di sospettare, in forza di un’intercettazione che attribuiva proprio al capo della Procura le soffiate sulle iniziative di De Magistris nei confronti degli indagati.
Alla fine di tutto questo, Mastella che fa? Chiede “rispetto”, minaccia di far saltare la legge finanziaria, e con essa il governo, e, in qualità di Ministro della Giustizia – titolare della politica giudiziaria del governo di centro-sinistra – chiede al CSM di avviare un procedimento disciplinare nei confronti di De Magistris. La procura generale di Catanzaro, intanto, sottrae l’inchiesta al magistrato.
Why not?
L’inchiesta si chiama Why not. Ed è anche la domanda che a questo punto è giusto porsi: “Why not? Perché no?”
Una buona risposta del perché questa condotta del ministro della Giustizia sia inaccettabile l’ho trovata sul blog di Antonio Di Pietro. Vorrei riprendere qualche stralcio del suo ultimo post, Prima che sia troppo tardi, che mi pare ineccepibile.
“Non credo ci sia niente di più doveroso, quando un magistrato fa indagini su politici di rilievo, che gli si lasci fare il proprio mestiere. Invece è stata attivata, per lui, una procedura di trasferimento proprio dal ministro della Giustizia.”
“L’immagine che ne viene fuori è di una Casta che non vuole farsi giudicare, di un potere che respinge lo Stato di Diritto e la legalità uguale per tutti, di una magistratura delegittimata ogni volta che cerca di fare il proprio dovere.”
“Questa non era la politica di Berlusconi? Non era questa la ragione per cui abbiamo chiesto agli italiani di votarci, per fare una politica giudiziaria totalmente opposta? Abbiamo iniziato con l’indulto e finiamo con la delegittimazione dei magistrati.”
“Diranno che è tutto corretto, a norma di legge. Sì, è tutto corretto. Diceva Morvillo, cognato di Falcone, che la colpa dell’attentato al giudice era dei “professionisti delle carte a posto”. Professionisti che pongono in essere degli atti che sicuramente potevano essere posti in essere, ma che messi insieme uccidono lo Stato di Diritto e, a volte, le persone come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Destabilizzazione, isolamento, delegittimazione portano a questo.”
Machiavellismo e democrazia
La faccenda è grave. Senza una magistratura indipendente e il rispetto della legge non può esserci convivenza civile.
Si sprofonda in quella condizione di “abiezione morale” che Paolo Sylos Labini denunciava in Ahi serva Italia, il suo testamento morale pubblicato postumo a cura di Roberto Petrini.
Scriveva Sylos Labini che molti dei mali morali che rendevano così problematico il vivere civile nel nostro paese andavano attribuiti all’eredità di Machiavelli, che da noi, più che altrove, aveva messo radici: un modo di pensare e di fare senza scrupoli, che tendeva a giustificare i mezzi col fine.
Ma “i mezzi barbari imbarbariscono anche i fini più nobili,” obiettava Sylos Labini. Perché un processo di incivilimento riprendesse corso, bisognava coltivare “anticorpi” contro la cultura machiavellica della doppia morale, tanto cara alle schiere di opportunisti del nostro paese.
Concludeva Sylos Labini: “(Gli anticorpi) oggi sono rappresentati da una democrazia e quindi da uno Stato di diritto funzionanti, e da giudici indipendenti; d’altra parte l’economia industriale per svilupparsi richiede il rispetto di regole morali.”
(…) “Fra gli anticorpi oggi hanno oramai grande rilievo una stampa libera e una televisione che non sia un monopolio privato. Se gli anticorpi vengono ridotti ai minimi termini, come sta avvenendo da noi, a poco a poco la vita sociale diviene una giungla e l’economia va alla rovina come in Argentina, paese un tempo prospero. Peggio: vanno alla malora l’autostima e la dignità. Potremo risollevarci?”
E si rispondeva: “Sì, se però ci rendiamo conto che ci dovremo dare da fare con grande impegno e a lungo, per uscire dall’abisso di abiezione in cui siamo precipitati.”