Italia, Chiesa e lavoro (stabile e sicuro?)
Non contenta di promettere la vita eterna, la Chiesa cattolica italiana si è messa ora a predicare il lavoro eterno. A commento di un discorso in cui il Papa, giustamente, definiva la questione del lavoro in Italia come un’ “emergenza etica e sociale”, il presidente della Cei Angelo Bagnasco (nella foto), all’apertura della settimana sociale dei cattolici, ha aggiunto tre aggettivi per esplicitare come dovrebbe essere il lavoro, secondo l’idea di “bene comune” che la Chiesa cattolica va propugnando: “Stabile, sicuro e dignitoso.” Sul dignitoso, penso, siamo tutti d’accordo. Ma sullo stabile e sicuro? Si tratta di obiettivi perseguibili o di luoghi comuni tanto diffusi quanto ispirati, per lo più, da un misto di ignoranza e demagogia?
Le parole di Bagnasco sono state accolte da un coro di approvazione dell’estrema sinistra dello schieramento politico, dal silenzio pensoso dei politici cattolici (i giornali hanno riferito di una Rosy Bindi che “prendeva appunti in prima fila”), e dal silenzio opportunistico dei non cattolici.
Merita allora parlarne, nel modo più semplice e chiaro possibile.
Il lavoro cambia perchè l’uomo è creativo
Trattandosi di istanze che, in questo caso, provengono dalla Chiesa cattolica, partirei da qui: da che mondo è mondo gli uomini scoprono e inventano, modificando il loro ambiente e generando storia. Non sono animali dominati (solo) dall’istinto, non sono automi. Sono uomini, fatti, direbbe la Chiesa, “a immagine e somiglianza di Dio”.
La creatività umana è dunque un bene. Se la società cambia ed evolve, e l’organizzazione economica cambia ed evolve, e il mondo del lavoro cambia ed evolve, è perché gli uomini seguono la loro vocazione creativa, “a immagine e somiglianza di Dio.”
I produttori di carri vengono sostituiti dai produttori di auto, i produttori di candele e di lumi a petrolio dai produttori di lampadine e di elettricità, i giornali di carta dall’informazione online. E così via. Ad ogni passo della storia umana nascono nuovi prodotti, nuovi servizi, nuove imprese, nuovi lavori. E questo è un bene.
Distruzione creativa: il nuovo soppianta il vecchio
La storia economica ci dice poi che quasi mai sono i vecchi produttori a guidare le transizioni verso il nuovo. Anzi, spesso i vecchi produttori, sorpresi spiazzati e impauriti, si accaniscono a resistere al nuovo fino a esserne travolti. Nuove imprese nascono, e vecchie imprese falliscono. Nuovi lavori emergono, e vecchi lavori diventano desueti.
L’evoluzione della società umana, dell’economia, del lavoro è caratterizzata da un processo di “distruzione creativa,” come disse 65 anni fa, con un’espressione rimasta da allora famosa, il grande economista Joseph Schumpeter.
La creatività è un bene, è il riflesso della nostra origine “divina”, dice la Chiesa. Ma è un insuperabile limite della nostra condizione umana, dato che dei non siamo, che non ci possa essere creazione senza distruzione.
Se è inevitabile, ed è anzi l’ineludibile frutto di un bene, che vecchi lavori muoiano per essere soppiantati da nuovi lavori (se no saremmo ancora qui, tutti, a lavorare i campi, a mungere le capre o a dare la caccia ai cinghiali), come si fa a rendere il lavoro, tout court, “stabile e sicuro?”
Temo che Bagnasco, sconfinando ben oltre le sue competenze, non se lo sia chiesto, così incoraggiando molti italiani – politici compresi – a fare altrettanto.
Sicurezza del lavoratore, non del lavoro
Nella gran parte dei paesi civili la domanda invece è stata posta. E’ stata oggetto di un’analisi empirica e razionale – invece che di continue affabulazioni e polemiche, politiche ideologiche e persino teologiche – e ha trovato una risposta semplice e operativa: il lavoro, inteso come “posto di lavoro”, non può essere reso “stabile e sicuro”; si possono invece “assicurare”, in modo equo e universale, i lavoratori.
E questo è stato fatto: mercati del lavoro flessibili ed efficienti, capaci dunque di accompagnare l’innovazione, consentendo la nascita di nuove occupazioni di superiore qualità e produttività, e reti di protezione sociale dei lavoratori, efficaci e universali.
Le occasionali e inevitabili “vittime” o dei processi economici di “distruzione creativa” o delle avversità della vita vengono tutelate – com’è civile e giusto – a spese della collettività, e quando possibile sostenute e riqualificate ai fini di un pronto reingresso nel mercato del lavoro.
Funziona? Certo che funziona, come spiegano ad esempio Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, due tra i nostri più noti economisti, nel libro, di recente pubblicazione, “Il liberismo è di sinistra”.
La scelta di rendere il più flessibile possibile il mercato del lavoro non è stata fatta solo dai paesi anglosassoni, che in Italia sono spesso percepiti, con sospetto e pregiudizio, come campioni di un efficientismo economico spinto fino al crudele darwinismo sociale.
Come raccontano Alesina e Giavazzi, è un indirizzo che hanno sempre più seguito, in anni recenti, anche paesi civilissimi e solidali come Olanda, Svezia e Danimarca, col risultato di far rapidamente crollare i tassi di disoccupazione (la Danimarca, col 3,5%, ha oggi il tasso di disoccupazione più basso d’Europa).
L’alta flessibilità rende possibile gli alti livelli di occupazione (gli imprenditori non si fanno troppi problemi ad assumere nuovi lavoratori), che a loro volta rendono economicamente sostenibile una rete di welfare universale e generosa al punto giusto (abbastanza da assicurare un’esistenza “dignitosa” al disoccupato, non troppo per non trasformarsi in un disincentivo alla ricerca di lavoro).
“Proprio perché la disoccupazione è bassa, e i disoccupati non rimangono tali per molto tempo, i sussidi alla disoccupazione non sono molto costosi per il contribuente,” scrivono Alesina e Giavazzi. “Senza dubbio sono meno costosi per il contribuente dei sussidi alle imprese mantenute in vita per ‘difendere l’occupazione’, spesso in settori non competitivi, che non hanno più un futuro.”
L’assurda e iniqua via italiana
In Italia, invece, che si è fatto? In una demenziale opera di destrutturazione sociale si sono giustapposte le istanze di sicurezza del posto di lavoro, che provengono dalla sinistra, dai sindacati, dalla Chiesa, alle istanze di flessibilità che provengono dalle imprese.
Fino a dove è stato possibile, si è protetto troppo. Fino a dove è stato possibile, si è liberalizzato troppo (senza cioè predisporre alcuna rete di protezione).
Si è così segmentato il mercato del lavoro, finendo per creare problemi enormi di equità sociale, che il Papa ha giustamente denunciato.
“Da un lato illicenziabilità e protezione totale per i lavoratori tradizionali già occupati; dall’altro contratti a tempo determinato che non tutelano il lavoratore e, per di più, essendo limitati nel tempo e spesso non rinnovabili, non danno alle aziende alcun incentivo a investire nella crescita professionale di questi dipendenti,” scrivono Alesina e Giavazzi.
Risultato? Oggi in Italia il 15% dei lavoratori, cioè oltre 3,7 milioni di persone, sono precari, spesso giovani, quasi sempre sottopagati: un nuovo sottoproletariato (senza prole, troppo costosa), che oltre ad accumulare rabbia e frustrazione, sta innescando una “mina pensionistica” di catastrofiche dimensioni.
Si tratta infatti di una massa di lavoratori che sta accantonando contributi largamente insufficienti ad assicurarsi una pensione adeguata. E siccome, come commentano Alesina e Giavazzi, una pensione, per quanto misera, prima o poi gliela si dovrà pagare, “in futuro il deficit dell’Inps esploderà.”
Più flessibilità e più sicurezza per tutti
Che fare, dunque? Regolarizzare i precari? Ma puntare di nuovo a rendere “stabile e sicuro” ogni posto di lavoro non è possibile, lo si è già visto.
In un’economia che cambia – ed evolve oggi molto più rapidamente che in passato, perché viviamo in un mondo in cui le conoscenze sono state messe “in rete”, con un’esplosione di scoperte, innovazioni e creatività – il lavoro non può che cambiare.
La strada allora è quella che già hanno percorso, con successo, diversi altri paesi: più flessibilità del posto di lavoro, per tutti e non solo per alcuni, e più sicurezza per i lavoratori disoccupati, per tutti e non solo per alcuni.
Concludo con le parole di Alesina e Giavazzi:
“Perché l’Italia riprenda a crescere occorre lasciar operare la ‘distruzione creativa’ e difendere i lavoratori, non i posti di lavoro. Questo non solo aumenta l’efficienza ma riduce i privilegi dei lavoratori anziani a vantaggio dei giovani, quelli delle imprese già sul mercato e protette a vantaggio di potenziali nuovi entranti, premia la meritocrazia e non le rendite di posizione, insomma questo sì è di sinistra.”
E, oltre che di sinistra, penso io, dovrebbe essere anche più cattolico, se quello che sta a cuore ai cattolici è davvero “il bene comune” e un paese meno iniquo.