Il Dow guadagna 300 punti? E’ un brutto segno
Spero che nessuno si sia troppo esaltato per il rialzo del 3% messo a segno l’altro giorno dagli indici azionari di casa nostra. Che fosse un brutto segno, l’ho pensato subito. Ma non sapevo come dirlo. Poi, grazie al blog The Big Picture di Barry Ritholtz, ho risolto il problema. Ritholtz cita infatti un’analisi di David Rosenberg, North American economist di Merrill Lynch, da cui risulta che queste spiritate fughe in avanti accadono solo in un bear market, ossia in un mercato ribassista.
Il rialzo del 3% della Borsa di Milano è coinciso, a Wall Street, con un rally di 331 punti, pari al 2,9%, dell’indice Dow Jones Industrial.
Ma di rialzi di 300 punti o più del Dow Jones in una sola seduta, nella storia dei mercati americani, c’è traccia solo negli ultimi due bear market, l’attuale e quello del 2000-2002.
Per l’esattezza, quello dell’altro ieri è stato il sesto rally di oltre 300 punti dall’avvio del ciclo ribassista iniziato l’ottobre scorso (un settimo rally da 336 punti si configura come un caso borderline, giacché ha avuto luogo il 18 settembre, subito prima che il mercato cambiasse direzione). Mentre nel 2000-2002, quando il Dow perse complessivamente il 38% del suo valore, i rialzi di questa entità furono addirittura 12 (per i dettagli, vedi la tabella alla fine).
Nel lungo bull market durato dall’autunno del 2002 all’autunno del 2007 di rally da 300 punti non c’è traccia. Il motivo è che movimenti così esagerati, nell’arco di una sola seduta, sono espressione di quella elevata volatilità che è una caratteristica tipica dei mercati ribassisti.
La stessa lezione può essere estesa al rally dei titoli bancari, che a Wall Street hanno recuperato il 30% circa da metà luglio, quando il Tesoro americano e la Fed sono intervenuti a sostegno di Fannie Mae e Freddie Mac, i due giganti malati del credito fondiario.
Rosenberg osserva come nel 2000-2002, quando nell’occhio del ciclone c’erano i titoli tecnologici, l’indice Nasdaq arrivò a perdere quasi l’80% del suo valore dopo aver percorso ben tre fasi di concitati rialzi superiori al 30%.
Insomma, i bear market rally possono anche impressionare – e far male a chi specula troppo incautamente al ribasso. Ma sono fuochi di paglia.
nella prima tabella tra i rallies mancano (da verificare):
11/10/2002 (gg/mm/aaaa) +316,34 pt
15/10/2002 “” “” +378,28 pt
aggiungerei anche che il minimo del dow risale alla prima decade di ottobre 2002
conclusioni? nessuna.
anzi, 3 maxi rally dal 01/10/2002 al 15/10/2002 sulla inversione.
Articolo davvero prezioso 😉
Salus,
la ringrazio delle rettifiche. In effetti, è proprio come lei dice. Ci furono due rally superiori ai 300 punti l’11 e il 15 ottobre 2002, nella prima settimana di risalita da quello che poi risultò essere il punto più basso del bear market.
Non solo. Altri tre rally superiori ai 300 punti si registrarono in prossimità dei punti d’inversione dei crolli di mercato del 1997 (crisi asiatica) e del 1998 (default russo e collasso del fondo LTCM).
Le correzioni all’incompleta analisi di Rosenberg, ripresa da Ritholtz, che io lì per lì non avevo avuto modo di verificare ma che ho utilizzato ritenendo le fonti affidabili, sono state pubblicate, tra gli altri, da Bespoke Investment Group (il link è tra i miei favoriti).
In America, ne è nato un vespaio di critiche e discussioni. Bespoke, ad esempio, ha subito osservato che, da parte di Rosenberg, sarebbe stato più corretto dire che i rialzi del Dow da 300 punti o più sono sì tipici dei bear market ma si possono osservare anche in prossimità dei punti di svolta da un bear market a un bull market.
Ritholtz, a sua volta, utilizzando il grafico pubblicato da Bespoke (il link è http://bigpicture.typepad.com/comments/2008/08/300-point-rally.html), ha replicato con un’ulteriore osservazione, e cioè il fatto che dopo i rialzi da 300+ punti sulle inversioni, il Dow è sempre tornato sui suoi passi, facendo comunque segnare dei livelli più bassi (anche se non dei nuovi minimi assoluti).
Nel caso specifico dell’ottobre 2002, se un investitore avesse acquistato l’indice sul primo dei due rally da 300 punti avrebbe poi visto il suo investimento registrare, seppur brevemente, dei ritorni negativi nel marzo successivo, quando il Dow scese di nuovo in prossimità dei minimi di ottobre (chiudendo, con un triplo bottom, una lunga figura d’inversione iniziata ben 8 mesi prima, e cioè nel luglio del 2002).
Lei dice “Conclusioni? Nessuna”. Io, invece, dopo avere scritto il post, e averlo ora corretto anche grazie a lei, qualche conclusione la vorrei tirare.
La prima è che il cancan scoppiato in America mi ha divertito, da un lato, e un po’ fatto riflettere dall’altro. Da quel che ho letto, è evidente che molti si sono accaniti su questa storia dei 300 punti del Dow come se dovesse essere accolta o rigettata come una nuova “regola”. Un approccio così meccanicistico mi fa sorridere, perchè è agli antipodi della mia visione dei mercati, che per me sono organismi sociali che ci assomigliano alquanto: evolutivi, storici, adattativi, imitativi, non modellabili matematicamente. Le reazioni alle sviste di Rosenberg mi hanno fatto pensare che, evidentemente, sono in molti ad avere una visione diversa dalla mia e a concepire i mercati come entità precisamente quantificabili e modellabili.
La seconda conclusione è che il senso del mio post – che anche alla luce di quanto accaduto in America vorrei mettere bene in chiaro – non è inficiato dalle rettifiche. Non ho mai pensato che ci fosse alcunché di magico nei 300 punti del Dow. E l’intenzione mia – e spero si sia capito -non era certo di presentare una rigida “regola” per il trading o l’attività d’investimento. Questi approcci, ripeto, sono agli antipodi dello spirito del mio blog e della visione che ho dei mercati finanziari.
Il senso, invece, era di utilizzare un evento recente, che ha avuto larga risonanza nei media, per allertare i lettori nei confronti di una micidiale caratteristica dei bear market, che sistematicamente seducono gli investitori con l’apparente potenza e assertività dei loro rally. Ho usato dei numeri per esprimere un concetto. Certo, sarebbe stato meglio che i numeri fossero esatti fin dall’inizio, ma il concetto resta. I bear market rally seducono, illudono, e fanno male.
La mia domanda “conclusioni? nessuna” era provocatoria nel senso che credo anche io nei mercati e nelle situazioni che sono simili ma sempre diverse. I mercati cambiano, migliorano ma allo stesso tempo affrontano situazioni (shock) sempre simili ma diverse.
Trovo invece costante il diffondere analisi, studi e ricerche catastrofiste quando tutto va male e ottimistiche quando tutto va bene. Che in genere vengono sempre smentite. Trovo un acutizzarsi di queste situazioni nei momenti topici dei trend, precisando che “momenti” non sono singole giornate ma possono essere settimane.
Aggiungo che giusto oggi il Dow dovrebbe aver guadagnato oltre 300 pt, il 2° maxi rally in meno di una settimana.
Salus,
per quel che mi riguarda non penso di essere nè catastrofista nè ottimista a oltranza. In questo blog cerco di ragionare, di mantenere vivo il mio spirito critico e di scrivere cose utili agli investitori.
Notare, come ho fatto nel mio post, che i grandi rialzi di giornata sono un tratto tipico dei bear market non ha nulla a che fare col catastrofismo.
E’ un’osservazione fattuale, che, come ho scritto, ha pure una sua logica spiegazione. Movimenti così accentuati sono espressione di una condizione di elevata volatilità del mercato. A sua volta, questa volatilità nasce da una sottostante percezione di rischio e caratterizza, appunto, i bear market – non i bull market.
La morale della storia è che nei confronti dei grandi rally di giornata, che possono risultare così seduttivi, è ragionevole invece essere scettici. Nella stragrande maggioranza dei casi, precedono soltanto ulteriori, più pesanti, ribassi.
Il mio intento, dunque, è stato quello di mettere in luce una delle caratteristiche più insidiose dei bear market (e per ora, fino a prova contraria, non c’è dubbio che ci troviamo in un bear market), un proposito, come spero riuscirà a capire, che non ha niente a che spartire con la volontà, che in qualche modo mi attribuisce, di diffondere “ricerche catastrofiste quando tutto va male.”
Aggiungerò che, come sa chi ha letto il blog, la filosofia d’investimento a cui mi ispiro è il value investing. E per ogni value investor il momento del massimo pessimismo collettivo (“quando tutto va male”) è il momento dove anche le opportunità d’investimento sono massime.
Non penso, però, che questo momento sia ancora arrivato. Temo anzi che ne siamo piuttosto lontani. Dopodichè, se mi sbaglio sarò lieto di pubblicare un’analisi dei miei errori, così come sono stato lieto di accogliere e integrare le sue correzioni.
Cordiali saluti,
Giuseppe B.
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