Gli investitori value sfidano il bear market
A cavallo dell’ultimo fine settimana di ottobre, quando gli indici di Borsa americani sono ridiscesi verso i minimi del 10 ottobre e quelli europei e asiatici sono sprofondati ancora più giù, ho di nuovo acquistato azioni. E qualcosa ho comperato anche nell’ultimo paio di giorni. Nei momenti di massimo sconforto e paura, ho preso atto di quello che faceva la massa e mi sono regolato di conseguenza: ho fatto l’opposto. Nel mio portafoglio di attività finanziarie, i titoli azionari, che avevo drasticamente tagliato al 15% già nella prima metà del 2007, sono così arrivati a costituire una quota del 55%.
Per la mia età, condizione economica e propensione al rischio, si tratta di un’allocazione non scarsa ma ancora inferiore alla norma. In gergo tecnico, resto sottopesato. Sono tuttavia molto più propenso ad accollarmi rischi di quanto non lo sia stato nel biennio che ha preceduto il recente crollo delle Borse.
Perché mai sono entrato, con tutti e due i piedi, nel tritacarne di questi mercati ad altissima volatilità, capaci di salire o scendere del 20% nel giro di pochi giorni? Sprezzo del pericolo? Sventatezza? Irrefrenabile pulsione speculativa? Non direi. Ho solo agito secondo la visione strategica che avevo abbozzato, a metà ottobre, nel post Punto di svolta.
In quell’articolo raccontavo, a grandi linee, cosa mi aveva indotto, alla fine delle quattro tumultuose settimane che avevano fatto seguito al collasso di Lehman Brothers, a lasciarmi alle spalle la pessimistica attitudine che da tempo nutrivo nei confronti delle Borse fino a convincermi a dare il via a un graduale piano di accumulazione.
Volendo riprendere quelle osservazioni in modo un po’ più sistematico, direi che il punto di svolta nella mia strategia d’investimento poggia su due pilastri: le valutazioni dei mercati e la psicologia degli investitori. Non è poco, visto che si tratta dei due fattori che più contribuiscono a determinare l’evoluzione dei prezzi nel lungo periodo. Entrambi, da negativi che erano, sono diventati positivi – almeno, così mi pare – in breve volgere di tempo.
Mi concentrerò qui sulle valutazioni, lasciando le considerazioni di ordine psicologico a un prossimo articolo.
Per i migliori value investor i mercati sono sottovalutati
L’idea che i mercati azionari, dopo il dimezzamento patito nell’ultimo anno, siano tornati a essere valutati in modo accattivante non è mia. E’ di diversi tra i migliori value investor al mondo.
Ne è convinto, ad esempio, Warren Buffett, che in un articolo per il New York Times del 16 ottobre scriveva: “Se i prezzi continueranno a restare attraenti, il mio portafoglio personale (che non comprende la sua quota in Berkshire Hathaway, ndr) sarà presto investito al 100% in azioni americane” (fino a qualche settimana fa era totalmente investito in titoli di stato, ndr).
“Le cattive notizie sono il miglior amico di un investitore,” sostiene Buffett, ricordando qual è, da sempre, la sua regola fondamentale: “Sii timoroso quando gli altri sono avidi, e avido quando gli altri sono timorosi.”
La paura, al momento, è diffusa al punto da paralizzare anche gli investitori più navigati – nota Buffett. E tuttavia, “i timori relativi alla prosperità di molte sane aziende non hanno alcun senso.”
Conclude così: “Vorrei essere chiaro su un punto: non sono in grado di predire i movimenti di breve periodo del mercato azionario. Non ho la più pallida idea se le azioni andranno su o giù nel prossimo mese o nel prossimo anno. Quel che è probabile, tuttavia, è che il mercato salirà, forse anche di molto, ben prima che l’umore degli investitori o l’economia comincino a migliorare.”
Del ritrovato appeal delle azioni ha scritto di recente, nella sua ultima lettera trimestrale agli investitori, anche Jeremy Grantham, un altro nume tutelare del value investing.
Per la prima volta da oltre una quindicina d’anni – nota Grantham – il mercato americano è sceso al di sotto del suo valore equo (fair value), da lui stimato a circa 975 punti per l’indice S&P 500. Ancora più sottovalutati risultano i mercati emergenti e quello europeo.
Ciononostante, c’è in Grantham, molto più che in Buffett, anche un’accentuazione dei motivi che continuano a indurlo a una certa cautela.
Gli investitori value hanno la tendenza ad anticipare le svolte del mercato, a volte sin troppo. Vedono prima degli altri l’emergere di eccessi ingiustificati, sia che si tratti di sopravvalutazione o di sottovalutazione. Danno più ascolto alla propria ragionevolezza che all’irrazionalità dei molti disposti a inseguire bolle e depressioni. Così finiscono a volte per tuffarsi controcorrente quando la marea di chi compera con avidità vicino ai massimi e vende con abbandono vicino ai minimi sta ancora montando.
Storicamente – nota Grantham – le grandi bolle azionarie, caratterizzate da protratti periodi di stravaganti sopravvalutazioni, si sono chiuse con una crisi (la Grande Depressione degli anni ’30, le crisi petrolifere degli anni ’70) che ha fatto sprofondare gli investitori in estremi opposti di abbattimento e disfattismo. I mercati azionari hanno finito per toccare eccessi di sottovalutazione anche del 50%.
Per questa ragione Grantham teme che il fondo dell’attuale bear market non sia stato ancora raggiunto e che nei prossimi mesi ci possa essere un’ultima ondata di ribassi che spinga l’S&P 500 verso minimi collocabili in un ampio range tra 600 e 800 punti.
Tuttavia, non è esercitandosi nell’improbabile arte del vaticinio del futuro che si può pensare di avere successo come investitori, bensì orientando la barra sul ben più affidabile riferimento delle valutazioni correnti del mercato in relazione a quelle storiche di lungo periodo.
Avere un’idea di quali siano gli eccessi a cui il mercato si può lasciare andare è utile, nota Grantham. Insegna ad avere prudenza. Ma non può essere il fondamento di una strategia d’investimento. Per un value investor, questo caposaldo è il valore. Insomma, detto con schiettezza, “se le azioni sono prezzate in modo attraente e tu non compri e poi i prezzi scappano via al rialzo, non è che finisci per sembrare un idiota: lo sei!”. Grantham, dunque, sta comprando anche se in modo prudente e graduale.
Giudizi di valore ben ponderati
Chi, forse meglio di tutti, ha spiegato su quali premesse si basi il ritrovato ottimismo dei value investor è stato però John Hussman, un investitore della nuova generazione i cui fondi, nell’ultimo decennio, hanno avuto uno straordinario successo, ottenendo rendimenti annui di almeno dieci punti superiori a quelli del mercato.
Nelle sue lettere settimanali Hussman ha di recente fatto notare come – ai minimi del mese scorso – l’indice S&P 500 sia sceso a un multiplo degli utili (P/E) di appena 10 volte, rispetto a una media storica di 14.
Bisogna qui intendersi. Gli utili cui Hussman fa riferimento non sono né quelli attesi dagli analisti né quelli fatti segnare nell’ultimo anno (le misure che tutti di solito citano) ma quelli massimi del ciclo (i cosiddetti peak earnings, ossia i più elevati registrati, entro il termine temporale di riferimento, in un arco di quattro trimestri).
Che senso ha questo peak earnings P/E? Come ho più volte scritto nel mio blog, il problema più grave nell’utilizzo di uno strumento di valutazione come il multiplo degli utili sta nell’enorme volatilità degli utili stessi, che nel corso di un ciclo economico hanno la tendenza a crescere a tassi anche superiori al 20% annuo nella fase espansiva per poi crollare magari del 50% al precipitare di una recessione.
Come si possono trarre delle affidabili indicazioni di valore del mercato, se la base di valutazione è così instabile? Sarebbe come se mia moglie, che di professione fa l’architetto, si mettesse a misurare case con un elastico.
Per rendersene conto basta dare un’occhiata al seguente grafico, tratto dall’ultima lettera settimanale di Hussman, in cui è rappresentato l’andamento degli utili dell’S&P 500 a partire dal 1950.
Dalla sommità più recente, raggiunta a metà del 2007, sono seguiti – e non avrebbe dovuto sorprendere! – cinque trimestri di utili in calo (l’ultimo, il terzo del 2008, si sa che sarà negativo ma non è rappresentato nel grafico dato che i risultati sono ancora in via di pubblicazione). Il tipico andamento altalenante attorno a un’ideale e ben più stabile pendenza (quella identificata nel grafico dalla retta rossa che collega tra loro i vari picchi) è insomma continuato. Nihil sub sole novi.
Naturalmente, dagli abissi attuali – o dei prossimi trimestri – è altrettanto probabile che poi si risalga. E un investitore accorto ne dovrebbe tenere conto nella propria strategia, così da evitare di essere sviato dalla miopia dei più.
Per fare un esempio, che senso può avere che il titolo di una grande azienda di successo crolli magari del 5% o 10%, com’è accaduto a più riprese negli ultimi giorni, in seguito all’annuncio di una revisione al ribasso delle stime per il prossimo trimestre? Un trimestre o anche due di utili dimezzati può incidere di una frazione di punto percentuale sul fair value di una tale società (che viene calcolato in base alla ragionevole aspettativa che continui ad esistere e a generare utili per i suoi azionisti per svariati decenni).
L’irragionevolezza di molti investitori, sommata alla ciclica volatilità degli utili, sollecitano a un uso ingenuo del P/E. Utili insostenibilmente elevati tendono a deprimere i P/E mentre utili insostenibilmente depressi li fanno lievitare. Se ne dovrebbe forse concludere che le azioni sono sottovalutate in prossimità del picco del ciclo e sopravvalutate al fondo della recessione? E’ vero in genere il contrario.
La soluzione a questo paradosso, che gli investitori attenti al valore si sono sforzati di cercare sin dai tempi di Benjamin Graham – maestro di Warren Buffett e caposcuola del value investing – sta nella normalizzazione degli utili (e dunque nell’utilizzo, come parametro di valore, di un normalized P/E)
Si tratta insomma di elaborare una qualche misura degli utili che non sia scioccamente definita dal calendario (l’ultimo trimestre, l’ultimo anno, etc.) né sia, peggio ancora, gonfiata ad arte dalle esigenze di marketing dell’industria degli investimenti (com’è spesso il caso per gli utili attesi). Un buon metro deve invece tener conto di ciò che davvero importa e cioè del ciclo economico così da essere, nel tempo, stabile e affidabile a fini di comparazione.
Hussman, nella tradizione del value investing, questa soluzione l’ha trovata ideando il peak earnings P/E, la cui genialità, oltre che nella facilità di misurazione, sta nel fatto di assumere come parametro di base per la stima del valore i punti via via più prossimi all’andamento costante della retta rossa del nostro grafico anziché le volubili, inaffidabili evoluzioni degli utili da un trimestre all’altro.
Come il grafico evidenzia, quella retta rossa ha due straordinarie caratteristiche, che in verità si estendono ben oltre l’arco di sei decenni lì rappresentato (e ben oltre il solo mercato americano) fino a coprire i quasi due secoli di dati a nostra disposizione:
a) incurante di guerre, crisi finanziarie e rivoluzioni tecnologiche, quella retta ha finora agito come un’infaticabile magnete sull’andamento degli utili nel lungo periodo. Quando gli utili se ne allontanano, la sua attrazione si fa più forte assicurando l’ancoraggio a una traiettoria di crescita costante. Fuor di metafora, quella retta dimostra quanto sia forte la tendenza degli utili a regredire verso la media;
b) la pendenza della retta è stupefacente nella sua stabilità: disegna una crescita degli utili del 6% l’anno. E se si tiene conto del fatto che per ottenere questo tasso di crescita le aziende hanno storicamente reinvestito circa la metà dei loro profitti, distribuendo la restante metà agli azionisti sotto forma di dividendi o buyback, ecco risolto il mistero della costanza dei rendimenti azionari nel lungo periodo, attorno al 9-10% annuo in termini nominali.
Nell’ultimo decennio i rendimenti sono stati vicini allo zero? Non c’è da stupirsi. Alla luce della storia, era prevedibile. Gli investitori hanno pagato gli eccessi dei due decenni precedenti, quando le azioni ebbero rendimenti doppi rispetto alla media (18% l’anno dal 1982 al 1999 in una sfrenata ascesa che illuse anche il più improvvisato degli investitori di avere scoperto in sé il genio della finanza).
Fatte tutte queste premesse sul senso e l’utilità di impiegare un metro così ragionevole come il peak earnings P/E di Hussman, siamo ora pronti a vederlo in azione, nei due grafici seguenti. Il primo, tratto da una lettera del gennaio 2008, raffigura il peak earnings P/E (linea blu) dal 1940 alla fine del 2007 (nei dieci mesi successivi, qui non rappresentati, il P/E è crollato da 15 a 10)…
…mentre il secondo, meno recente perchè tratto da una lettera del febbraio 2005, ne dà una rappresentazione di più lungo periodo, dal 1870 alla fine del 2004.
Come ho già notato, il P/E di Hussman, ai minimi del mese scorso, è sceso a un multiplo di 10 volte rispetto a una media storica di 14.
Il mercato azionario americano è dunque sottovalutato (per Hussman più ancora che per Grantham). Ma è sottovalutato abbastanza? Uno sguardo ai grafici rivela come il P/E abbia oscillato tra minimi di 6-7 e massimi di 20, con due vistose eccezioni: la recente bolla di fine secolo, che proiettò il multiplo verso la stratosferica quota di 33 e la Grande Depressione degli anni ’30, quando il multiplo scese addirittura sotto quota 4.
Si nota poi un altro fenomeno, nel ciclico oscillare delle valutazioni attorno al loro livello medio: a periodi di sopravvalutazione hanno fatto immancabilmente seguito periodi di sottovalutazione, e viceversa. L’ottimismo ha generato altro ottimismo e infine euforia, il pessimismo ha generato altro pessimismo e infine disperazione. Nella disperazione sono stati piantati i semi di una rinata prosperità, nell’euforia sono germinate le condizioni del momentaneo sfascio.
Premesso che è ragionevole ritenere che questo ciclo ora si ripeterà, la domanda da porsi è: a che punto di negatività siamo arrivati col crollo di ottobre?
La risposta di Hussman è che – a un multiplo di 10 – la caduta nel pessimismo, per quanto rapida sia stata, si trova già a uno stadio avanzato.
Il ripetersi di una crisi analoga a quella del ’29 – così spesso e così superficialmente evocata dai media in queste settimane – appare improbabile.
Allora il pensiero economico dominante, con i suoi ideologismi e le sue rigidità, reagì impuntandosi nella difesa di politiche monetarie e fiscali restrittive. La portata dell’iniziale crisi finanziaria risultò moltiplicata fino a produrre una recessione economica che, negli Usa, durò ben 4 anni (rispetto a una durata massima di 16 mesi per le recessioni del dopoguerra). La contrazione del Pil fu pari, nel complesso, a un catastrofico 25%. La produzione industriale crollò del 45%, il tasso di disoccupazione arrivò al 25%, furono più di 5 mila le banche che chiusero i battenti con perdite enormi per centinaia di migliaia di depositanti.
Le ripercussioni fuori d’America furono anche peggiori. Collassò il sistema del commercio internazionale in una folle rincorsa a erigere barriere protezionistiche. La Germania, già destabilizzata dai trattati di pace che avevano messo fine alla prima guerra mondiale, cadde in mano a Hitler e furono così poste le premesse per l’escalation di conflittualità che portò difilato alla seconda guerra mondiale.
Oggi la reazione alla crisi finanziaria è stata improntata alla collaborazione tra i governi e le autorità monetarie a livello planetario e centrata su interventi pubblici massicci a sostegno dei sistemi creditizi ed economici.
Un confronto più realistico con situazioni di crisi acuta può essere fatto guardando al periodo 1973-1982. Allora il P/E del mercato azionario americano scese in un paio di occasioni fino alla soglia di 7, rispetto al 10 di oggi. Ma l’inflazione, per diversi anni, andò praticamente fuori controllo, spingendo i rendimenti a lunga dei titoli del Tesoro americani all’8% nel 1974 e al 14% nel 1982, rispetto al 4% di oggi.
L’alto costo del capitale depresse per anni la redditività delle imprese americane mentre le ricche cedole del reddito fisso offrivano agli investitori l’illusione di un’alternativa più remunerativa, oltre che più sicura, delle azioni. Oggi non è così.
Le valutazioni attuali dei mercati azionari consentono di anticipare nei prossimi svariati anni, anche in assenza di un’espansione dei multipli verso il loro livello normale, rendimenti medi annui del 10% rispetto al 4% delle obbligazioni: una prospettiva decisamente favorevole alle azioni, almeno per chi sappia rimanere indifferente alla loro elevata volatilità di breve periodo.
Una volta ridimensionate come poco probabili le ipotesi di esiti estremi dell’attuale crisi, la considerazione di fondo resta solo una – la più importante per ogni value investor. Come dice Hussman: “Quel che è chiaro è che dopo oltre un decennio di straordinaria sopravvalutazione, le azioni sono finalmente scese a livelli di prezzo tali da offrire rendimenti attesi di lungo periodo sufficientemente elevati.”
Il gioco azionario, insomma, è tornato a valere la candela.
Io, invece, dico che questa crisi, anche per la ciclicità storica, è peggio di quella del 1929. Anche nel 1929 si diceva che quello era solamente un raffreddore, ed invece fu pestilenza. Questa crisi è peggiore di quella del 1929, perché oggi v’è sproporzione fra i ricchi e la classe borghese, la quale ora va verso livelli di povertà reale; v’ enorme ed offensiva concentrazione di ricchezza in poche mani. Ritornerà anche il comunismo: le masse hanno fame ed i politici non intendono cedere nulla; il rischio di rivolte si farà sempre più alto anche nei paesi con democrazia consolidata.. A bassi consumi, s’affiancheranno politiche statali di isolazionismo per indurre i propri cittadini a consumare i prodotti interni. La globalizzazione andrà in soffitta – finalmente. Dulcis in fundo, l’inflazione. Con tutti questi soldi stampati ed immessi a ripetizione nel sistema globale, e con le materie prime che già dal 2009 sono viste di nuovo in forte rialzo, con tutto questo, i tassi schizzeranno verso l’alto. Gli indici americani dovranno perdere almeno un’altro 30% – visione ottimistica -. E’ molto presto per entrare sull’azionario. Warren Buffett sta perdendo una valanga di soldi, non può fare altro che mediare. La crisi è appena iniziata.
dolce, io sono tra quelli felici che Lehman sia fallita, e tra quelli speranzosi di veder pagare chi deve pagare,
ma hai fatto un quadro apocalittico che davvero ha scarse o nulle probabilità di avverarsi
intanto su una cosa sbagli completamente diagnosi: nel quadro attuale, quello che era il comunismo per le masse povere è la destra per il ceto medio e persino basso.
Ovvero non ci si rifugia in politiche di uguaglianza, bensì di chiusura, di mantenimento di quel che si aveva, timorosi di perdere anche quello.
Le masse povere non avevano nulla da difendere, le masse di ora invece hanno qualcosa da difendere, e la rezione non è verso sinistra ma verso destra (conservatorismo).
La destra inoltre, non essendo una filosofia, come invece è la sinistra (o era) ha una maggiore adattabilità ai cambiamenti, e dunque negli ultimi 20 anni si è venata di un forte populismo che ha fatto presa sui ceti poveri. In sostanza la destra ha agito sul piano della speranza, cogliendo quanto di + intimo vi sia nell’animo di una persona poco abbiente.
Io ho ragionato e ragiono con la visione storica degli eventi e delle crisi. Questa non è crisi di crescenza, ma crisi finanziaria. Non è crisi recessiva seguita a fasi di sviluppo. E’ crisi di fallimenti bancari, fallimenti di famiglie, fallimenti d’imprese, e non solo. Qualcosa di molto grave che si ripete nella storia ciclicamente e con regolarità ciclica. Mi sembra che sono due cose molto dissimili – la crisi economica e la crisi finanziaria. La storia delle crisi finanziarie e la conoscenza che ho di esse mi permette di insistere sulle mie posizioni. Esse – le crisi finanziarie – non si sono mai risolte dopo mesi, bensì dopo anni, anche decadi. E sempre sono state risolte con sconvolgimenti bellici e politici, e con fallimenti di Stati. Sarà lo stesso anche per questa crisi che non è seconda a quella del 1929.
Al di là di temporanei ed effimeri rimbalzi, il fondo dei mercati è ben lontano nel tempo e posto ben più in basso. Basta dare uno sguardo al grafico secolare del Dow Jones in chiave logaritmica.
Dolce, non si può escludere, al momento, ovviamente alcuna tesi ma la tua analisi, permettimi, si tradisce in due occasioni (il che non significa che sia sbagliata).
La prima è quando nel primo messaggio scrivi “La globalizzazione andrà in soffitta – finalmente.” FINALMENTE tradisce un preconcetto. Non hai analizzato freddamente la situazione l’hai analizzata dalla tua posizione preconcettamente pessimista: da contrario alla globalizzazione hai visto in questa i motivi che hanno fatto sì di diffondere la crisi rapidamente nel mondo. Sono in totale disaccordo con te: la globalizzazione penalizza chi sta fuori da essa. Ci vorrebbero molte righe per meglio esprimermi a riguardo ma se hai un computer da 500 Euro quando solo l’anno scorso ce ne sarebbero voluti 800 e l’anno prima 1500 è per la globalizzazione, e così per quasi tutti i prodotti; vedi forse oggi le persone hanno alzato (come la chiamo io) l’asticella del loro minimo indispensabile cosicchè avere un telefonino è sotto l’asticella e questo determina giudizi catastrofici come i tuoi.
La seconda cosa e concludo sta invece nel secondo messaggio dove dici che basta guardare il grafico secolare del DJ in chiave logaritmica: dopo un’analisi terribilmente (in senso positivo) fondamentale mi citi un grafico visto in base all’AT ? Le due cose non stanno insieme: l’AT presuppone che le persone debbano fare nel tempo sempre ciclicamente le stesse cose, persone diverse, in momenti diversi, in ambienti diversi… insomma, improbabile. L’AT è improbabile e i risultati delle varie “analisi” dell’ultimo anno tutte ovviamente sbagliate stanno a dimostrarlo.
E speriamo tu abbia torto, questo indipendentemente da tutto.
Ops, dimenticavo… complimenti per l’articolo Dott. Bertoncello, sempre molto apprezzabile e atteso. Grazie.
L’analisi tecnica permette, supportata e verificata da corretta analisi fondamentale, di non fare errori.
Parlo per me. Sto lontano dall’equity – ed intendo ancora restarci per molto – fin dal marzo 2007, dopo aver visto crollare dell’8% la borsa cinese, e forte della visione presbite sull’indice secolare del Dow Jones – già esisteva allora l’allarme sui mutui subprime, e lessi di analisti ed economisti che s’affannavano a dire che era cosa da nulla -. Quindi, ritengo di poter affermare che non è vero che in quest’ultimo anno siano state smentite tutte le analisi tecniche, senz’altro sono state smentite le analisi tecniche sbagliate. Analogamente saranno smentite le analisi fondamentali che s’ostinano a presentare questa crisi diversa da quella del 1929 e meno grave di essa.
Caspita che commento apocalittico, dolce.
Attendevo con trepidazione un post di Bertoncello, dopo quello ben augurante del PUNTO DI SVOLTA. Ero contento che veniva confermato e anzi migliorato il giudizio su un mercato che si presenta OGGI ghiotto di occasioni in attesa di essere sfruttate….invece niente.
Dolce mi mette in crisi.
Chi avrà ragione ? Volevo entrare poco alla volta su qualche buon titolo azionario.
Ma se la situazione è ancora così lontana da una soluzione è meglio stare fuori.
Chiedo un consiglio:
E’ meglio acquistare un appartamento in un centro storico e affittarlo o entrare in borsa ora e attendere due o tre anni ?
Dei BOT vi fidate ? se andiamo incontro ad inflazione che ne sarà dei titoli di stato o della nostra liquidità e quindi del nostro potere di acquisto ?
Grazie a tutti.
@ MarcoDC
> l’AT presuppone che le persone debbano fare nel tempo sempre ciclicamente le stesse cose, persone diverse, in momenti diversi, in ambienti diversi… insomma, improbabile.
Probabile, probabilissimo, quasi certo, invece.
I comportamenti (soprattutto quelli che conducono alla ripetizione degli stessi errori) sono spesso di una ripetitività e similarità disarmante, nella razza umana
@ dolce
> smentite le analisi fondamentali che s’ostinano a presentare questa crisi diversa da quella del 1929 e meno grave di essa.
quoto e, come ho già scritto in un commento del post precedente, aggiungo che chi sta comprando ora come cassettista, nel medio prenderà delle mazzate che ricorderà per la vita.
Specifico meglio, a scanso di equivoci: è ovvio che mi auguro di tutto cuore di sbagliarmi, ben lungi da me godere delle disgrazie altrui.
Semplicemente, per motivi esposti altrove, ritengo che la crisi attuale sarà molto più lunga e devastante di quanto immaginiamo ora.
E con questo, passo e chiudo per non essere considerato petulante e ripetitivo
@ mercury
Chiedo un consiglio:
E’ meglio acquistare un appartamento in un centro storico e affittarlo o entrare in borsa ora e attendere due o tre anni ?
Dei BOT vi fidate ? se andiamo incontro ad inflazione che ne sarà dei titoli di stato o della nostra liquidità e quindi del nostro potere di acquisto ?
NON comprare immobili ora
i prezzi crolleranno ancora di più
NON affittare immobili ora
non è economicamente conveniente
NON entrare in borsa ora, a meno che tu non faccia trading di breve(issimo)
Dei BOT mi fido (al momento > con scadenze brevi) ma preferisco Buoni Postali Indicizzati all’inflazione italiana emessi e garantiti dalla Cassa depositi e Prestiti
Se andiamo incontro a deflazione vuoi dire?
O forse (peggio) se andiamo incontro a stagflazione prolungata?
Beh! In quel caso non ci sarà liquidità che terrà!
P.S.: per MarcoDC
Se l’analisi tecnica non funzionasse, io non sarei uscito flat dal luglio 2007 salvandomi le chiappe-
Sempre senza polemica, ok? 🙂
Dolce, se sei uscito a Marzo 2007 hai fatto la metà di un gran numero, diciamo anche il 75% di un indovinato timing di investimento. L’altro 25% lo dovrai fare quando deciderai di rientrare. Sull’AT ti ricordo che c’è sempre il 50% di possibilità di prenderci, come scegliere tra il rosso e il nero alla roulette. E per chiarire il mio pensiero casomai non si fosse capito sono un “fondamentalista” e da buon fondamentalista non ho la benchè minima idea di dove andranno i mercati nei prossimi mesi.
Per il resto quando dici che i subprime sono stati la causa della crisi finanziaria implicitamente confermi quanto ho scritto sulla “valenza” ell’analisi tecnica, oppure dici che i subprime sono stati “creati” per validare il modello di AT che prevedeva questo disastro ? Perchè da quanto scrivi sembra che la tua visione sui grafici già da Marzo 2007 prevedesse questo scenario, quindi o i subprime sono stati creati per validare l’AT oppure i subprime hanno determinato questa situazione e una delle centinaia di letture possibili in AT lo, diciamo così, anticipava. Ma le altre 99 erano sbagliate: in definitiva dov’è la valenza di uno strumento che ti pone davanti decine di alternative di cui una, forse, è giusta ? Se me ne inventassi io uno di sana pianta, casuale, e decine di “analisti” lo analizzassero, uno ci prenderebbe e potrebbe dire che lo strumento è valido perchè lui ci ha preso e gli altri semplicemente (come dici tu) non ci hanno preso perchè non lo sanno leggere. Non sta in piedi.
Un’ultima domanda: dal 2007 immagino sarai corto, magari a leva, vero ?
Mink, quando la diversità di idee diventa polemica, cambia di nome e si chiama intolleranza. E non è il mio caso.
Espongo le mie idee, cerco di darne motivazione anche se è difficile in poche righe e magari di fretta (rileggendomi ho visto di aver scritto “preconcettamente”… vergogna) ed accetto che altri possano averne di altre opposte senza per questo dare un giudizio.
Leggo questo Blog perchè parla di fondamentali macroeconomici e tralascio quelli dei seppur bravi e preparati analisti tecnici.
Riguardo l’uscita a Marzo 2007 immagino non farai fatica a renderti conto che molti analisti tecnici così come molti “fondamentalisti” saranno usciti e anche molti semplicemente fortunati; come ho appena scritto, prima di leggere i tuoi post, il completamento della strategia vincente lo si ha solo quando chi è uscito per tempo rientrerà per tempo, cioè, rientrerà a prezzi inferiori al prezzo medio di chi invece si era solo scaricato parzialmente o ha mediato i prezzi avendo liquidità disponibile. Solo allora il cerchio sarà chiuso.
Mercury, ogni strategia di investimento/disinvestimento non la puoi basare sul fatto di ricevere ampio consenso; anzi in questi casi si configura lo scenario + pericoloso tanto che in genere l’investitore saggio dovrebbe fare il contrario.
Grazie per le risposte. Anche se non riesco a cogliere indicazioni sicure.
Mink dice:
“Se andiamo incontro a deflazione vuoi dire?
O forse (peggio) se andiamo incontro a stagflazione prolungata?
Beh! In quel caso non ci sarà liquidità che terrà!”
Vedo che ancora non sappiamo se andiamo incontro a inflazione o deflazione. O peggio a stagflizoione.
Sono situazioni opposte. quindi sistemi di difesa opposti.
Che ne dite se invece andassimo incontro ad una deflazione a breve e successivamemnte ad iperinflazione (accompagnata da stagnazione)?
Non può essere lo scenario più probabile visto che le materie prime sono crollate, i consumi pure, ma con tutta questa liquidità “inniettata” per salvare il sistema alla fine possa scoppiare l’inflazione?
E dall’nflazione come ci si difende se non con beni reali ? Terreni per esempio, ma anche azioni di aziende sane ?
Ho apprezzato molto l’intervento sopratutto nella spegazione dei rendimenti azionari di lungo periodo. MA relativamente all’affermazione qui sotto riportata:
“. E se si tiene conto del fatto che per ottenere questo tasso di crescita le aziende hanno storicamente reinvestito circa la metà dei loro profitti, distribuendo la restante metà agli azionisti sotto forma di dividendi o buyback, ecco risolto il mistero della costanza dei rendimenti azionari nel lungo periodo, attorno al 9-10% annuo in termini nominali.”
Vorrei capire da dove deriva il rendimento azionario del 9/10%. Forse che al 6% annuo devo aggiungere il 3% dividendo? Ma se gli utili delle aziende dello s&p sta a 6% e di questo distibuisce il dividendo a 3% con il valore dell0 s&p ipotizzato a 100 l’anno dopo il valore dello s&p è a 103……giusto??
Grazie per l’attenzione
Buonasera Dott. Bertoncello,
come sempre le sue analisi sono di grandissimo interesse, ricche di spunti e di insegnamenti. Anche se al momento la sua attenzione è rivolta prevalentemente all’azionario mi piacerebbe conoscrere anche brevemente la sua visone del mercato obbligazionario ed in particilare delle scadenze lunghe dei titoli di stato a tasso fisso alla luce dei tagli dei tassi e della possibile esplisione del debito pubblico…
Grazie e buon lavoro.
Caro Dr. Bertoncello, complimenti per la sua analisi mi permetto,però, di avanzare un dubbio:
se fossi Warren Buffet (l’uomo più ricco del pianeta)riterrei il suo atteggiamento verso l’investimento azionario pienamente condivisibile.
Non possedendo grandi capitali posso al massimo pensare di approcciarmi al mercato azionario attraverso stop-loss automatici che in qualche modo evitino di dare in pasto al mercato l’esiguo capitale, con le potenzialità di decrescita dello stesso nel breve periodo, non c’è lungo temine che tenga.
Avevo visto più che giusto e non da qualche giorno.
Questo è mercato che ha appena iniziato a scendere. Sic !
Chi è entrato sull’azionario, pensando in una recessione economica, quindi applicando la classica regola secondo la quale s’entra sull’equity appena s’ufficializza la recessione tecnica, ha sbagliato.
E’ appena iniziata la recessione da fallimento d’un sistema, il quale ha vissuto per decenni al di sopra delle sue possibilità, che ha poggiato la sua ricchezza di carta sul debito, su strumenti finanziari da carta straccia.
Cose da codice penale e da Tribunale di Norimberga.
Le masse sempre più povere scenderanno in piazza prima o poi, costringendo alle dimissioni governi corrotti, arroganti ed incapaci.
Chi è entrato long sull’azionario s’è condannato a contabilizzare per anni perdite cospicue, s’è condannato a mediare – operazione sbagliata quando il trend è al ribasso -, s’è condannato a porre prima o poi tutta la sua liquidità nell’equity, restando dentro per anni ed anni, prima di vedere solamente il suo capitale al valore iniziale, nominalmente intatto, ma enormemente svalutato.
Se il Dow Jones romperà verso il basso la quota di 7.287, s’aprirà il baratro verso i 4.000 punti.
@ Dolce
quoto in toto, rimandando a precedenti miei commenti a questo ed altro post
Beh, signori, da quanto sta accadendo mi sembra che dolce e Mink stiano conquistando punti di credibilità, ogni giorno che passa.
N.Y ha perso ieri il 4%, stasera il 6%….Domani si preannuncia l’ennesimo venerdì nero .
Buona notte !
@ mercury
avrei di gran lunga preferito sbagliarmi in pieno
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