l'Investitore Accorto

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Le conseguenze delle crisi bancarie sistemiche

Quanto è grave l’attuale crisi finanziaria? Quanto durerà? Che esiti potrà avere? Non c’è chi non si faccia queste domande. Per cercare una qualche risposta il primo passo è alzare lo sguardo, allargare l’orizzonte e affondare le nostre indagini nella storia.

La tendenza ad aderire a nozioni piuttosto anguste e rassicuranti di “normalità” ci porta a concepire questa crisi, con un certo senso di angoscia, come eccezionale e anzi unica. Per certi versi, beninteso, lo è. Non c’è fenomeno storico che non sia singolare. E il problema di una scienza sociale e storica come l’economia è in fondo proprio questo: ha continuamente a che fare con eventi irripetibili.

Per altri versi, però, se si accettano questa considerazione di base e l’indeterminatezza a cui ci costringe, è possibile fare diversi passi avanti nella nostra conoscenza. Si può ad esempio scoprire che le crisi finanziarie, da quando l’economia ha assunto una forma capitalistica, sono state una regola e niente affatto l’eccezione.

Ne parlavo un paio di mesi fa nel post Ma cos’è questa crisi, dove ho cercato di utilizzare una rilettura del classico studio di storia economica di Charles Kindleberger, Manias Panics and Crashes, per argomentare che le recenti paure – diffusesi a macchia d’olio attraverso i media – che fosse imminente una ripetizione del crollo del ’29 e di una Grande Depressione stile anni ’30 erano alquanto esagerate. I fattori che trasformarono la crisi finanziaria degli anni ’30 in una Grande Depressione, rendendola diversa e più grave di molte altre del passato, non si sono sino ad oggi ripetuti e – fortunatamente – nulla lascia pensare che si stiano affacciando sulla scena. Restano, insomma, per ora solo sullo sfondo come un rischio potenziale.

Crisi finanziarie come temporali estivi

Un limite di quella mia analisi discendeva dal fatto che la lettura di 400 anni di storia e di circa 40 crisi finanziarie svolta nel suo libro da Kindleberger è di natura quasi soltanto qualitativa. Risalendo a ritroso, diventa sempre più difficile considerare la storia economica in altro modo, visto che i dati affidabili per operare confronti quantitativi vengono via via a mancare. Quel mio articolo sollevava così almeno un grosso interrogativo.

Infatti, sempre citando Kindleberger, scrivevo che “ciò che ha fatto la differenza nel determinare la lunghezza e la gravità delle depressioni economiche, inevitabilmente seguite ai boom e bust finanziari, è il ruolo giocato dalle banche centrali.” E, verso la fine, concludevo: “Quando non c’è un prestatore di ultima istanza, come nel 1873, 1890 e 1931, la depressione che segue una crisi finanziaria è lunga e protratta, a differenza di altri episodi in cui il prestatore invece c’è, e la crisi passa come un temporale estivo.”

Da un lato, dunque, le crisi finanziarie hanno sempre generato gravi recessioni economiche. Dall’altro, tuttavia, è stata la natura dell’intervento delle banche centrali a determinare – in buona misura – se queste recessioni sono degenerate in protratte depressioni o si sono dissolte “come temporali estivi.” L’interrogativo, rimasto in sospeso, è il seguente: cosa vorrà mai dire questa espressione metaforica e metereologica, di impossibile quantificazione? Se Kindleberger, sorvolando quattro secoli di storia, poteva accontentarsi di quell’aerea espressione, noi – che in uno di questi temporali siamo immersi – siamo invece ansiosi di sapere: quanto è grave? quanto durerà? che esiti potrà avere?

Le analisi di Reinhart e Rogoff

Fortunatamente, c’è modo di integrare le ricerche di Kindleberger. Due economisti che hanno impiegato l’ultimo paio d’anni ad analizzare le crisi finanziarie del passato, dal XIV secolo a oggi, approfondendo poi la conoscenza anche quantitativa di quelle più recenti, sono Kenneth Rogoff, docente all’Università di Harvard ed ex chief economist del Fondo Monetario Internazionale, e Carmen Reinhart, professore all’Università del Maryland.

Dopo aver pubblicato, nel febbraio dello scorso anno, una prima ricerca che si concentrava sulle origini della crisi americana dei mutui subprime, intitolata Is the 2007 U.S. Sub-Prime Financial Crisis So Different? An International Historical Comparison, e aver completato ad aprile il loro studio più complessivo sui caratteri distintivi delle crisi degli ultimi 700 anni, intitolato This Time is Different: A Panoramic View of Eight Centuries of Financial Crises, Reinhart e Rogoff hanno diffuso a dicembre un’ultima analisi, The Aftermath of Financial Crises, che mette a fuoco le conseguenze – su una serie di variabili economiche – delle principali crisi finanziarie dell’ultimo secolo, per le quali esistono dati affidabili e comparabili. E’ a quest’ultimo studio che riserverò la mia attenzione.

Crisi bancarie sistemiche in 15 paesi

Preso atto dell’evidente gravità della crisi in corso, che in diversi paesi – tra cui Usa e Gran Bretagna, i due più importanti per il sistema finanziario internazionale – ha finito per coinvolgere i sistemi bancari nel loro complesso, Reinhart e Rogoff hanno ristretto i loro confronti alle più importanti crisi sistemiche del dopoguerra, aggiungendone due di precedenti – quella americana degli anni ’30 e quella norvegese del 1899 – per cui esistono statistiche soddisfacenti.

Non hanno discriminato tra paesi sviluppati e paesi emergenti, in risposta a un’evidenza emersa dai loro studi più generali sulle crisi finanziarie del passato, e cioè il fatto che tali eventi, in economie a diverso grado di sviluppo, hanno comunque “molto in comune.”

Il campione analizzato ha finito così per essere composto di 15 casi: le cosiddette “5 grandi” crisi finanziarie accadute nei paesi avanzati nel dopoguerra (Spagna 1977, Norvegia 1987, Finlandia 1991, Svezia 1991 e Giappone 1992), le più note e recenti crisi abbattutesi sui paesi emergenti (quelle asiatiche del 1997-1998 in Corea del Sud, Hong Kong, Filippine, Malesia e Tailandia, e inoltre Colombia 1998 e Argentina 2001), e infine – come già accennavo – le due grandi crisi antecedenti alla Seconda Guerra Mondiale, e cioè Stati Uniti 1929 e Norvegia 1899.

Cos’hanno scoperto Reinhart e Rogoff confrontando queste 15 gravi crisi finanziarie del passato? In estrema sintesi, che le conseguenze economiche sono sempre profonde e protratte, con pesanti ripercussioni sui mercati degli asset e in particolare sui prezzi azionari e quelli degli immobili. Le recessioni sono molto più lunghe e aspre del solito, la disoccupazione si impenna, il debito pubblico raddoppia o quasi. Ma vediamo i dettagli.

Crisi finanziarie e mercati azionari

La prima tabella, ripresa da The Aftermath of Financial Crises, riguarda l’andamento dei mercati azionari. A sinistra è rappresentato il calo in termini reali (depurato dunque dall’inflazione) degli indici azionari, dal picco al fondo. A destra è indicata la durata in anni del bear market. Le barre in bianco si riferiscono ai paesi più interessati dall’attuale crisi, i cui dati non sono però inclusi nelle medie.

Come si vede, il calo medio – in termini reali – è stato del 55,9% e si è sviluppato nell’arco di quasi tre anni e mezzo. In termini di profondità, il bear market attuale ha già raggiunto dimensioni non dissimili dalla media delle crisi passate, anche se la caduta è stata molto più rapida. Naturalmente, non sappiamo dove si collocherà la fine dei ribassi ora in corso.

Crisi finanziarie e mercati immobiliari

La seconda tabella riassume l’impatto delle crisi finanziarie sul mercato immobiliare. A sinistra sono riportate le flessioni complessive dei prezzi in termini reali, a destra la durata in anni.

Il calo medio è stato del 35,5% e si è sviluppato nell’arco di sei anni. Come osservano Reinhart e Rogoff, nel mercato immobiliare c’è molta più inerzia rispetto al mercato azionario. I prezzi reagiscono allo shock con maggiore lentezza. L’impatto conclusivo di una grave crisi finanziaria resta comunque devastante.

Due curiosità emergono dall’osservazione della tabella: la crisi del ’29, una delle più acute della storia, ebbe conseguenze relativamente limitate sui prezzi degli immobili. Nella crisi in corso, il mercato della casa americano ha già patito flessioni pari a più del doppio di quelle di allora. Balza poi subito agli occhi la straordinaria durata del processo di sgonfiamento della bolla immobiliare giapponese, scoppiata all’inizio del decennio scorso: i prezzi reali hanno seguitato a flettere per 17 anni di fila. Escludendo un caso così eccezionale dal campione considerato, la durata media scende da sei a cinque anni: si tratta, in ogni caso, di un processo di penoso e protratto aggiustamento.

Conseguenze economiche delle crisi finanziarie

Reinhart e Rogoff si sono poi chiesti qual è stato l’impatto delle gravi crisi finanziarie del passato sul PIL e sull’occupazione. I dati relativi al PIL sono riassunti nella tabella che segue. Come per le precedenti tabelle, a sinistra è indicata la contrazione percentuale in termini reali, a destra la durata in anni.

Il crollo medio del PIL è stato del 9,3%. Anche se tale dato è profondamente influenzato dal caso estremo del ’29, e in una certa misura anche dalla crisi argentina del 2001, resta comunque impressionante se lo si raffronta alle contrazioni del PIL non superiori al 2% che caratterizzano una normale recessione. La durata media, poco inferiore ai due anni, è quasi doppia rispetto a un tipico episodio recessivo del dopoguerra. Una recessione della durata più o meno di due anni è anche quanto si aspetta il consenso degli analisti per l’economia americana oggi: entrati in recessione alla fine del 2007, gli Usa potrebbero tornare a crescere prima della fine del 2009.

Qualche differenza, tra paesi avanzati e paesi emergenti, in questo caso c’è. Le recessioni, come osservano Reinhart e Rogoff, hanno la tendenza a essere più profonde nelle economie in via di sviluppo, più dipendenti nei loro processi di crescita dalla disponibilità di capitali dall’estero – che in una crisi finanziaria vengono rapidamente a mancare.

Quanto all’impatto sul mercato del lavoro, l’aumento del tasso di disoccupazione è stato di sette punti percentuali nell’arco di cinque anni, una media influenzata dalla terribile impennata di oltre 20 punti percentuali patita dagli Usa negli anni ’30. In tutti i casi, però, le conseguenze sono state rilevanti e si sono fatte sentire in un arco di tempo molto più lungo del biennio di recessione economica vera e propria.

In genere, gli effetti sul tasso di disoccupazione sono stati più marcati nei paesi avanzati che in quelli emergenti, forse perché – notano Reinhart e Rogoff – nei secondi ci sono mercati del lavoro meno regolati e più flessibili e i lavoratori sono disponibili ad accettare riduzioni dei salari anche per la minore presenza di reti pubbliche di protezione sociale.

Un ultimo aspetto delle conseguenze economiche di una grave crisi finanziaria, prese in esame da Reinhart e Rogoff, riguarda gli effetti sul bilancio pubblico. In media, il debito è quasi raddoppiato, crescendo dell’86%, come evidenzia la tabella che segue (la cifra si riferisce all’aumento in termini reali nei tre anni successivi alla crisi, e riguarda il dato assoluto e non il rapporto tra debito e PIL).

Contrariamente a quello che forse verrebbe istintivo pensare, non è l’onere dei salvataggi bancari a pesare in particolar modo sui bilanci pubblici. Gli enormi disavanzi sono invece in larga misura la conseguenza del crollo delle entrate fiscali e del costo delle manovre espansive messe in atto dai governi per reagire alle crisi.

Crisi globale e rischi di default

In quale misura i dati sin qui esposti possono essere rilevanti per valutare l’evoluzione della crisi attuale? Da un lato – osservano Reinhart e Rogoff – le autorità godono oggi del vantaggio di strumenti di politica monetaria molto più flessibili che in passato, grazie in particolare all’evoluzione del sistema internazionale dei cambi verso una rigidità sempre minore.

Di questa libertà di manovra le banche centrali hanno dimostrato di sapere e volere fare uso, adottando in alcuni casi – come negli Usa ma anche in Gran Bretagna – orientamenti di un’aggressività che fu del tutto assente, per esempio, nelle risposte alla crisi americana del ’29 o a quella giapponese degli anni ’90. Si tratta dello stessa osservazione che ho cercato di approfondire, seguendo le analisi di Kindleberger, nel mio post Ma cos’è questa crisi.

D’altro lato – aggiungono Reinhart e Rogoff – sarebbe imprudente abbandonarsi con acritica fiducia all’idea che noi siamo oggi molto più abili dei nostri predecessori. In base a un tale principio non si spiegherebbe come mai siamo potuti precipitare in una crisi di così vaste proporzioni.

Più in particolare, c’è una caratteristica propria dell’attuale dissesto che non può che preoccupare. Le crisi del passato – se si esclude la Grande Depressione degli anni ’30 – ebbero dimensioni locali o regionali. L’attuale ha carattere globale.

“La natura globale della crisi renderà più difficile a molti paesi un ritorno alla crescita grazie alla ripresa delle esportazioni”, notano i due economisti americani. E altrettanto arduo sarà sostenere la domanda facendo ricorso a finanziamenti dall’estero. In simili circostanze, è probabile che si assista al moltiplicarsi di casi di default sul debito da parte di stati sovrani. L’esperienza insegna che “i default nelle economie emergenti hanno la tendenza a diventare molto più frequenti quando diversi paesi si trovano simultaneamente coinvolti in situazioni di crisi dei loro sistemi bancari.”

Imparare dalle crisi

Nell’arco di un biennio, come abbiamo visto, un’economia colpita da una grave crisi finanziaria torna in genere – seppur stentatamente – alla crescita. Le crisi, insomma, passano. Ma i prezzi da pagare, come pure Reinhart e Rogoff ci hanno permesso di mettere in luce, sono alti.

Un paio di mesi fa scrissi il post Ma cos’è questa crisi perché trovavo insopportabili i continui, superficiali parallelismi che venivano tirati tra l’attuale situazione e il crollo del ’29. Le differenze ci sono, e sono importanti. Tuttavia, rifiutare il banale catastrofismo non vuol dire indulgere in altrettanto ingenue attese di pronto e spontaneo ritorno a una benevola “normalità”. Le crisi bancarie di natura sistemica sono eventi gravi, che hanno cause di solito sciocche ma ripercussioni pesanti. Sarebbe preferibile, insomma, che imparassimo a evitarle, facendo tesoro dell’antico e saggio detto di Lao Tzu: “Il più grande dei problemi del mondo poteva essere risolto quando era piccolo.”

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7 pensieri su “Le conseguenze delle crisi bancarie sistemiche

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  2. MarcoDC in ha detto:

    “Più in particolare, c’è una caratteristica propria dell’attuale dissesto che non può che preoccupare. Le crisi del passato – se si esclude la Grande Depressione degli anni ’30 – ebbero dimensioni locali o regionali. L’attuale ha carattere globale.”

    Ma anche le risposte dei governi e delle banche centrali hanno una caratteristica diversa dalle precedenti: sono (state) globali e spesso coordinate.

    Insomma, noi speriamo che me la cavo.

  3. GIUSEPPE in ha detto:

    Egr.Dott. Bertoncello le scrivo fuori tema ma mi interessava una sua visione a proposito del Baltic Dry Index. Da un massimo di 12.000 è passato a 663 circa un mese fà se non ho sbagliato la ricognizione. Ora quota 1660 circa. In un mese questo indice ha quasi triplicato il valore. Vorrà pur dire qualcosa? La ringrazio.

  4. Vinello in ha detto:

    Oltre alla durata della crisi penso che sarebbe utile capire come usciranno le aziende da questo periodo, ovvero come saranno il cash flow, gli utili e i debiti.

    Credo che Lei scriva solo avendo dati a sufficienza a supporto delle Sue opinioni, che quindi voglia farsi guidare e supportare dal metodo scientifico.
    Penso però che in questi ultimi mesi abbia a lungo esposto dati e motivazioni, derivate dalle esperienze passate, maggiormente a favore della tesi “sottovalutazione generale”.
    Son però ugualmente convinto che nel frattempo Lei si informi a 360°.
    Dunque Le chiederei non di supportare tesi differenti dalla Sua, ma di descrivere le fonti che Lei ritiene siano più autorevoli e diano una visione della situazione attuale o prevista.
    Questo sia perché ho molta stima delle Sue capacità di giornalista, quindi nel reperire informazioni importanti.
    Penso inoltre che, per le persone che la ritengono ormai un appuntamento fisso, abbia chiarito il suo punto di vista e portato tanti dati convincenti a supporto.
    Ritengo che, ripetendo una tesi 7 volte questa diventi realtà, o almeno chi la sente la consideri tale.
    Le scrivo quindi pensando sia ad un rischio di involontaria persuasione (sebbene Lei abbia specificato che sicurezze non ve ne sono) sia alla necessità di capire chi siano le “autorità” da seguire periodicamente per un investitore accorto.

    La ringrazio e La saluto
    Vinello

  5. Pingback: Ray Dalio e la depressione americana

  6. Gentile Vinello,

    la ringrazio per il commento. Vorrei rassicurarla. Non è che lo scopo principale del mio blog sia quello di dare pubblicità alle mie “tesi” sui mercati. L’obiettivo, piuttosto, è di fare del blog un luogo di riflessione, di confronto e di formazione per i piccoli investitori – un’ampia categoria di persone a cui io penso di appartenere. A tale fine, dare spazio alle idee e alle interpretazioni dei grandi investitori di riconosciuto successo – quelli che nella testata del blog io chiamo i “grandi maestri” – è stato sin dall’inizio un mio impegno primario, e continuerà a esserlo.

    Cordiali saluti,

    Giuseppe B.

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