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Casa, la bolla si sgonfia

Non pago di aver raccomandato a novembre l’acquisto di titoli bancari, mentre andava montando la tempesta nel settore che sta spingendo i mercati azionari in un bear market pieno di incognite e pericoli, il settimanale Il Mondo è tornato la scorsa settimana a tartassare i suoi lettori, consigliando l’acquisto di case. “Casa, è l’ora di comprare”, esorta la copertina (vedi foto). Pesce d’aprile fuori stagione o provocante e seria analisi controcorrente?

Di immobili, in questo blog, ho già parlato a ottobre nel post Il triste autunno del mercato della casa. Invito a leggere quell’articolo, che resta attuale e che vorrei utilizzare come base degli ulteriori elementi di riflessione che andrò ora ad aggiungere.

Contrarian investing o harakiri?

Cercavo di evidenziare, allora, due cose: l’enormità senza precedenti della bolla che si è gonfiata in questi anni nei mercati immobiliari a livello globale, e come lo scoppio del bubbone americano preluda, con ogni probabilità, a un lungo ciclo di penosa contrazione anche per i mercati della casa europei.

Il Mondo sostiene ora, con un articolo di copertina a firma di Daniela Stigliano, e un’intervista della stessa giornalista a Carlo Puri Negri, amministratore delegato e azionista di Pirelli Real Estate, che “il pessimismo generalizzato” sulle prospettive del settore immobiliare farebbe invece di questa fase il momento ideale per comprare.

“Perché – dice Stigliano – anche nell’immobiliare vale la regola prima di ogni investitore: sempre meglio anticipare il mercato. Ovvero, comprare sui timori, vendere sull’euforia. E poco importa se i timori, come l’euforia, siano davvero giustificati.”

Più che contrarian investing (una strategia che raccomanda l’acquisto nelle fasi di eccesso di panico, ma non certo quando cominciano a palesarsi dei timori giustificati), la ricetta di Stigliano sembra harakiri applicato alla finanza.

Ma stiamo alla sostanza.

Bolla o non bolla?

L’argomentazione meglio articolata del perché il pessimismo non sarebbe giustificato Il Mondo la offre in apertura dell’intervista a Puri Negri.

Domanda la giornalista: “Il mercato degli immobili in Italia vede grigio per il 2008. Lei invece sembra più ottimista.”

Risponde Puri Negri:

“Le ricerche non parlano di diminuzione dei prezzi, ma di un ulteriore rallentamento della crescita nel prossimo anno, al 2-3%, con un’inflazione in aumento. In Italia il fenomeno delle famiglie che non riescono a rimborsare le rate dei mutui sarà ben lontano dai livelli degli Usa. Negli ultimi dieci anni, inoltre, l’Italia ha avuto una rivalutazione del residenziale inferiore rispetto agli altri Paesi. Dopo la scomparsa della famiglia patriarcale, assistiamo a nuovi fenomeni come l’aumento dei single e la crescente immigrazione, inoltre esistono vincoli sugli immobili con più di 50 anni di vita, c’è una scarsità di terreni edificabili e, in definitiva, lo stock è sempre lo stesso. Con questo scenario è difficile che i prezzi calino.”

Questo è il messaggio. Ma è credibile? Quanto è valido questo elenco di ragioni?

Conflitti d’interesse

Prima di entrare nel merito, val la pena partire da una valutazione dell’affidabilità della fonte. Non conosco Puri Negri ma non ho difficoltà a immaginare che sia uno dei più abili ed esperti immobiliaristi italiani, con una conoscenza del mercato come pochi altri.

Ma può essere attendibile un’analisi che Il Mondo affida, senza contraddittorio, alle parole di un uomo d’affari che guida e ha una quota di proprietà rilevante (superiore al 2%) in una società, Pirelli RE, il cui business è comperare, gestire e vendere immobili?

“Non ci sarà il crollo”, recita il titolo dell’intervista. E’ però facile immaginare che se Puri Negri nutrisse timori di altro genere, non verrebbe certo a svelarli in pubblico. Meglio, molto meglio dare a intendere che le sorti del mattone, in Italia, non possono che essere solide, anzi “rocciose”, come suggestivamente suggerisce la copertina de Il Mondo.

Quando poi la società di Puri Negri è controllata da Pirelli & C, azionista rilevante di RCS MediaGroup (con oltre il 5%), editore de Il Mondo, siamo purtroppo in presenza del solito, inconfessato (la giornalista si guarda bene dal metterlo in luce) conflitto d’interessi che rende così poco credibile certa stampa italiana.

Un giornalista indipendente, attento agli interessi dei suoi lettori, avrebbe chiesto a Puri Negri perché, se il mercato della casa italiano è in buona salute, il titolo Pirelli RE, da qualche mese, sta collassando (ha perso quasi i due terzi del suo valore, come mostra il grafico qui sotto, tornando ai livelli del 2003):

Stigliano, invece, offrendosi come “portaparola” di un potente leader d’azienda legato alla proprietà del giornale, si è ben guardata dall’avanzare questa, o qualsiasi altra obiezione. Diventa inevitabile sospettare che Il Mondo abbia voluto o accettato di confezionare un servizio di copertina che serve gli interessi di Pirelli RE, ma danneggia quelli dei lettori.

Qualche dato sul mercato della casa

Un’ipotesi plausibile, infatti, è che, con caratteristica rapidità e accentuazione, il mercato azionario, nell’andamento del titolo Pirelli RE come di tutto il settore immobiliare italiano (vedi grafico qui sotto), stia anticipando la traiettoria che il mercato della casa, con altrettanto tipica tendenza a disegnare cicli più graduali e di lunga durata, finirà per percorrere nei prossimi anni.

Questo, dopo tutto, è quanto sta accadendo negli Usa, dove al crollo del settore dei costruttori di case (iniziato già nell’estate del 2005) è seguito quello del settore real estate e, infine, quello dei prezzi degli immobili (vedi grafico qui sotto), da tre trimestri precipitati in un ciclo di contrazione che i contratti future (come mostravo nel mio articolo di ottobre) non prevedono si arresti prima del 2010.

Sostiene Puri Negri, nella parte dell’intervista che ho riportato, che l’Italia non è l’America e che da noi le insolvenze sui mutui non raggiungeranno dimensioni altrettanto preoccupanti. E’ probabile. Il fenomeno dei mutui subprime è stato tipicamente americano. Resta però il fatto che anche da noi si è molto largheggiato con il credito immobiliare, come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi nel discorso tenuto per la giornata mondiale del risparmio a fine ottobre:

“Tipologie contrattuali simili a quelle dei mutui subprime statunitensi sono (in Italia, ndr) poco diffuse. L’attività del settore si sta però espandendo rapidamente. Tra il 2002 e il 2006 i mutui alle famiglie sono cresciuti a ritmi quasi doppi rispetto alla media europea (già estremamente elevata, ndr). Si sta innalzando il rapporto tra prestito e valore dell’immobile. […] L’incidenza delle sofferenze sui prestiti per acquisto di abitazioni, ancora bassa, inizia a mostrare segnali di deterioramento.”

C’è però un altro punto, più fondamentale, dove Puri Negri ha quasi sicuramente torto.

Sostiene l’amministratore di Pirelli RE che “negli ultimi dieci anni l’Italia ha avuto una rivalutazione del residenziale inferiore rispetto agli altri Paesi”, come a dire che da noi non solo non ci sarebbero gli eccessi nel credito ma neppure nelle valutazioni. Parlare di bolla, o anche di sopravvalutazione degli immobili, sembrerebbe insomma ingiustificato.

Le cose, però, non stanno così.

Misurare e confrontare l’evoluzione dei mercati immobiliari è stato, storicamente, un gran grattacapo, per la scarsa liquidità del settore e le sue molte atipicità, da zona a zona e da paese a paese.

Uno dei primi a cogliere il problema e a impegnarsi nello sviluppo di indici paese credibili e comparabili è stato il settimanale inglese The Economist, che anche grazie alla bontà degli sforzi profusi in questo progetto fu poi in grado, già nel 2003, di denunciare il gonfiarsi di una bolla immobiliare di dimensioni mai viste prima.

Da allora in poi The Economist ha monitorato, con regolarità e autorevolezza, l’evoluzione dei mercati della casa a livello globale. L’ultimo aggiornamento è stato pubblicato a dicembre, in un articolo titolato Run down (un’espressione, com’è spesso il caso nei titoli dell’Economist, un po’ maliziosa che si presta a una doppia lettura: “in sfacelo” o “corsa al ribasso”).

Cosa dice l’articolo?

In sostanza, che i mercati si stanno muovendo, in questo dopo bolla, in tre scaglioni.

A fare da guida, ci sono gli Stati Uniti, dove i prezzi sono da 23 mesi in decelerazione e da 10 mesi in un calo che va accelerando: a ottobre, ultimo dato disponibile dell’indice S&P/Case-Shiller, che riportavo sopra, si è avuta la più marcata flessione mensile nella storia dell’indice, per un tasso di variazione annuo che ha raggiunto il -6,7%.

Ci sono poi i mercati europei, dove da qualche mese è evidente che si è superato un punto di svolta: in Francia, Spagna, Italia i tassi di crescita stanno raffreddandosi, mentre in Germania, mossasi a lungo in controtendenza, si è passati dalla stagnazione al declino.

In Gran Bretagna, da tre mesi, i prezzi sono in calo e particolarmente preoccupante appare la rapidità del mutamento di clima nel settore degli immobili commerciali (vedi su questo punto, anche un altro articolo dell’Economist, Dominoes on the skyline).

Dopo un aumento medio del 17% nel 2006, i prezzi del comparto commerciale hanno fatto un improvviso dietrofront e solo a novembre (ultimo dato disponibile) sono scesi del 4% (il maggiore calo mensile mai registrato), portando la flessione da luglio in poi al 9%. I contratti future stimano un crollo senza precedenti del 30% nei prossimi tre anni.

Appare insomma confermata la storica tendenza, che descrivevo nel mio articolo di ottobre, per cui i mercati immobiliari europei tendono a seguire quelli americani con uno, al massimo due anni di ritardo.

Terzo scaglione, per ora all’apparenza indisturbato da quanto accade nei paesi occidentali, è quello dei mercati emergenti, dove i prezzi delle case sono ancora, per lo più, in febbrile ascesa.

Questa è la tabella riassuntiva pubblicata da The Economist, con la più recente variazione annua nella prima colonna, la variazione dell’anno precedente nella seconda colonna, e la crescita fatta segnare nell’ultimo decennio nella terza colonna.

Una scorsa ai dati decennali potrebbe far pensare che Puri Negri, dopo tutto, non si sbaglia di molto. La variazione cumulativa dei prezzi degli immobili italiani (+102%), per quanto molto elevata in termini assoluti, risulta nella parte bassa della classifica, superata sia dagli Stati Uniti che da molti paesi europei. Ma un’interpretazione così semplicistica sarebbe fuorviante. L’andamento del prezzo delle case, per essere valutato nella sua sostenibilità, va confrontato con altre variabili rappresentative delle condizioni del mercato e dell’economia nel suo complesso.

Come si fa per i mercati azionari, dove i prezzi sono messi in relazione agli utili, e gli utili vengono normalizzati in base al ciclo (procedura che ho più volte illustrato in questo blog, da ultimo nel post I multipli di Borsa restano elevati), i prezzi nel mercato della casa vengono di solito valutati in rapporto agli affitti e, soprattutto, al reddito disponibile.

Si tratta dei due ratio (con i loro tassi di crescita 1997-2006) riportati dal Fondo Monetario Internazionale nella seguente tabella, pubblicata nell’ultimo World Economic Outlook:

L’aumento medio del rapporto prezzi/reddito disponibile superiore a un terzo è definito dal FMI, con preoccupazione, come “molto elevato” (nel cauto linguaggio del Fondo, si tratta di quanto più prossimo ci possa essere all’uso del termine “bolla speculativa”). Risulta chiaro dalla tabella come per l’Italia tale incremento sia stato superiore alla media, superiore a quello degli Stati Uniti, e vicino al 50%.

Mentre molte altre economie vedevano crescere Pil e redditi a tassi sostenuti, e questo, in parte, contribuiva ad alimentare la fiammata dei prezzi delle case, da noi si è avuta una sostanziale stagnazione – una condizione di contesto che fa emergere con maggiore chiarezza la natura speculativa della frenetica corsa al rialzo del nostro settore immobiliare.

Se quasi nessuno mette ormai in dubbio che il mercato della casa americano abbia attraversato un periodo di bolla senza precedenti, che si sta ora sgonfiando con gravi ripercussioni sull’economia nel suo complesso, in un processo che i mercati a termine non prevedono tocchi il fondo prima di un altro biennio, non si capisce su quali basi si possano costruire scenari radicalmente diversi per l’Italia.

Certamente non con gli argomenti accessori utilizzati da Puri Negri.

L’aumento dei single è un fenomeno in corso da decenni e ormai maturo, se si considera che l’Istat rileva come più di un quarto dei nuclei familiari italiani sia fatto di persone sole e oltre la metà di non più di due persone.

La crescente immigrazione, poi, c’è da noi come in altri paesi occidentali, con la differenza che in Italia è l’unico sostegno a una dinamica demografica che resta tra le più depresse del mondo.

“E’ difficile che i prezzi calino”, dice Puri Negri. “E’ l’ora di comprare”, rincara Il Mondo. Se si sta ai fatti e ci si sforza di ragionare con obiettività, appaiono valutazioni su cui sarebbe azzardato scommettere anche solo un soldo bucato.

Le banche, i mercati e la bolla del credito II

Ho scritto nella prima parte di questo articolo che per comprendere i tremori che stanno scuotendo da qualche mese i mercati finanziari globali bisogna guardare alle banche. E per decifrare le difficoltà delle banche bisogna andare oltre l’implosione del mercato Usa dei mutui subprime, e risalire fino alle origini di quella che oggi appare sempre più nitidamente come una bolla dei tassi e della liquidità, di proporzioni senza precedenti.

Chiudevo la prima parte notando come la tardiva stretta con cui la Federal Reserve, a partire dal giugno 2004, cercò di normalizzare una politica monetaria troppo espansiva fallì in quello che era uno dei suoi scopi, e cioè produrre anche un rialzo della parte lunga della curva dei tassi così da calmierare, in primis, un mercato della casa già allora troppo effervescente.

Perchè la manovra non ebbe gli effetti desiderati?

Uno dei primi a sollevare la questione, senza però trovare una risposta soddisfacente tanto da definire il problema col termine diventato poi famoso di “conundrum (enigma), fu proprio Alan Greenspan in un’audizione parlamentare del febbraio 2005, quando era ancora presidente della Federal Reserve.

Da lì in poi è stato tutto un susseguirsi di studi e interpretazioni, ben riassunti in un articolo del Financial Times dello stesso anno. In estrema sintesi, le spiegazioni più accreditate dell’enigma dei bassi tassi americani a lungo termine hanno finito per essere tre:

a) Globalizzazione e bassa inflazione

Si è detto che il mercato scontava il permanere di condizioni di bassa inflazione. I cicli di espansione economica del passato erano sempre stati caratterizzati dall’emergere di pressioni sui prezzi, che finivano per spingere al rialzo i tassi a lunga e indurre la banca centrale a intervenire con una stretta sui tassi a breve. Ma quest’ultimo ciclo appariva diverso.

Per tutto il periodo 2004-2007, l’azione della Federal Reserve fu semplicemente finalizzata a “normalizzare” tassi a breve troppo bassi e non a sopprimere inesistenti dinamiche inflative.

Il processo di globalizzazione, infatti, grazie all’immissione sui mercati internazionali di almeno un miliardo di nuovi lavoratori a basso costo dalla Cina e dall’India, aveva creato le condizioni per una sostenuta espansione economica, di lunga durata, con bassa inflazione.

b) Debito insostenibile e recessione

Altri, più pessimisti, hanno ritenuto che il mercato scontasse l’insostenibilità dell’espansione americana, che aveva fatto leva, dal 2001 in poi, su un cumulo crescente e senza precedenti di passività: i “deficit gemelli” del bilancio federale e della bilancia commerciale



… l’indebitamento abnorme delle famiglie che, per la fatale attrazione di un mercato immobiliare in ebollizione, per l’eccessivo ottimismo nelle loro possibilità di guadagno e l’anemica crescita dei salari, riuscivano a tenere elevati i consumi solo facendo ricorso al credito…


… abbattendo fino a livelli negativi, per la prima volta nella storia, il tasso di risparmio:


I bassi tassi a lunga anticipavano dunque il collasso dell’economia Usa sotto il peso di tali e tanti squilibri: una fine traumatica della crescita nel baratro della recessione, e, piuttosto che l’assenza di inflazione, un periodo di deflazione (e cioè di diminuzione dei prezzi) causato dal degenerare dei debiti eccessivi in insolvenze.

c) Eccesso di liquidità e bolle, bolle, bolle

La terza interpretazione proposta all’”enigma” dei bassi tassi a lunga americani, per certi versi complementare alla seconda, è stata che i tassi si trovavano in uno stato di bolla speculativa. Avevano perso, perciò, ogni capacità di segnalare tanto gli eventuali rischi di deflazione come l’assenza o meno di inflazione.

La politica troppo a lungo espansiva della Federal Reserve aveva finito per inondare di liquidità diversi mercati, da quello immobiliare a quello azionario a quello obbligazionario.

Tali eccessi si erano poi venuti aggravando in conseguenza delle politiche economiche di molti paesi asiatici, Cina in testa, che, dalla crisi valutaria del 1997 in poi, avevano puntato con decisione su una crescita a tappe forzate, tutta basata sull’export.

A sostegno e a rinforzo delle loro politiche mercantilistiche, questi paesi avevano utilizzato le ingenti riserve valutarie

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

… generate dai surplus commerciali (espressi nel grafico qui sotto in percentuale del Pil mondiale)…

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

… per acquistare titoli del debito americano e mantenere in tal modo l’allineamento delle loro valute al dollaro (il grafico qui sotto mostra la percentuale del debito pubblico Usa detenuta da investitori stranieri: come si vede, è andata crescendo in modo esplosivo dal 2001, in larga misura per l’intervento massiccio delle banche centrali, soprattutto asiatiche).


Si era così andato consolidando un processo di mutuo sostegno tra Usa e Asia, ribattezzato Bretton Woods II, perchè in qualche modo riecheggiante gli accordi raggiunti nel 1944 nell’omonima località del New Hampshire, che avevano gettato le basi del sistema monetario, centrato sul dollaro, in vigore fino ai primi anni ’70.

Un simile, informale, rapporto di scambio era funzionale a mantenere elevati i consumi americani e le produzioni ed esportazioni asiatiche. Finiva, però, per scaricare i suoi costi sull’Europa, la cui moneta era l’unica, tra le principali, che tendeva ad apprezzarsi oltre ogni ragionevole misura.

Nel complesso, Bretton Woods II risultava comunque fortemente espansivo per tutta l’economia globale, come lascia ben intendere il grafico che segue:

Sommate assieme, base monetaria e riserve valutarie raggiungevano, a livello globale, tassi di crescita mai visti prima, andando a configurare un’enorme bolla di liquidità, che inondava un mercato dopo l’altro.

In sintesi e semplificando, secondo questa interpretazione, la dinamica sottostante agli sviluppi dell’economia e dei mercati finanziari su scala planetaria è stata, nell’ultimo decennio, la seguente:

a) in America, centro del sistema globale: bassi tassi a breve, ampia liquidità, consumi sostenuti, deficit commerciale, mercati degli asset in crescita, ottimismo e propensione al rischio, ricca e variegata offerta di credito, accumulo di debito, dollaro debole;

b) in Asia, piattaforma produttiva per l’economia globale: forti esportazioni soprattutto verso il mercato Usa, elevati surplus commerciali e accumulo di riserve, acquisto di titoli del debito in dollari per mantenere competitive le valute locali;

c) di nuovo in America e da qui a livello globale: bassi tassi a lunga, sostenuta crescita economica (l’ultimo quinquennio, anche se in Italia non ce ne siamo accorti, ha fatto registrare la più poderosa e prolungata espansione dell’economia mondiale dagli anni ’70).

L’enigma di Greenspan svelato

Delle tre interpretazioni del “conundrum” di Greenspan, è quest’ultima, probabilmente, la più completa.

C’è stato un tacito e informale scambio tra America e Asia, per cui la prima si è gonfiata di debiti che hanno finanziato tanto i consumi interni quanto l’industrializzazione della seconda, e la seconda ha ammassato risparmi che sono stati utilizzati per acquistare i debiti della prima, mantenendone basso il costo e consentendo così ulteriore accumulo di debito e un altro giro di questa giostra.

Si è trattato, per anni, di un processo caratterizzato da uno stabile squilibrio, come l’ha definito Bill Gross di PIMCO.

Stabile” perché mutualmente vantaggioso e implicitamente garantito dalle autorità politiche e monetarie della superpotenza americana e dei paesi emergenti asiatici. Ma “squilibrato” perché tanto l’accumulo di debito in America che quello di riserve in dollari nei paesi asiatici era, a lungo andare, fondamentalmente insostenibile.

Ciò che di recente ha cominciato a manifestarsi è che, sia per i tentativi di “riequilibrare lo squilibrio”, attraverso la leva dei tassi a breve negli Usa e la maggiore diversificazione delle riserve in Asia, sia per la logica implicita allo squilibrio stesso, il processo da “stabile” si è fatto “instabile.”

Per intravedere cosa questo possa comportare, bisognerà prima fare una panoramica di quel che Bretton Woods II, col suo mix incendiario di debito, liquidità, crescita drogata ed eccessiva propensione al rischio, abbia prodotto sui mercati finanziari, in particolare quelli del credito.

Lo vedremo in una terza parte di questa analisi. Per ora, vorrei chiudere con un’osservazione che ci sarà essenziale da qui in avanti.

La liquidità come “stato della mente”

Ho fatto più volte uso del concetto di liquidità, che in finanza non è dei più univoci. Si tratta della disponibilità di moneta, in ultima istanza controllata dalle banche centrali? Sì, anche. E sulla base di questa definizione, ho mostrato graficamente di quale entità sia stata la bolla degli ultimi anni.

Ma questa accezione è diventata sempre più inadeguata nei mercati finanziari del XXI secolo, nei quali sono proliferati nuovi veicoli di credito e d’investimento poco o per niente regolati dalle banche centrali – quello che Paul McCulley di PIMCO ha per primo definito, nel suo complesso, come “shadow banking system” (sistema bancario ombra). Banche d’investimento, Siv (structured investment vehicles) e hedge fund sono i suoi attori protagonisti.

In questo nuovo contesto, cos’è dunque la liquidità? La definizione migliore mi pare sia di nuovo quella di McCulley, che l’ha chiamata uno “stato della mente”.

“Nei mercati dei capitali di oggi, integrati globalmente e regolati in modo leggero, la liquidità ha a che fare con l’appetito per il rischio di prestatori e prenditori di denaro, collettivamente considerati. E’ cioè una funzione della disponibilità da parte degli investitori di sottoscrivere rischio e incertezza con capitali presi a prestito e della disponibilità da parte dei risparmiatori di prestare denaro a investitori che intendono sottoscrivere rischio e incertezza con capitali presi a prestito.”

Vedremo come uno “stato della mente” reso euforico dalle irripetibili opportunità di crescita offerte ai mercati del credito da Bretton Woods II e dalle innovazioni di prodotto frutto di un’ingegneria finanziaria sempre meno frenata dal buon senso e/o dalle autorità, abbia finito per generare “liquidità” (e, per un certo periodo di tempo, profitti) che sfidano la più fervida immaginazione.

Ora che lo “squilibrio” di Bretton Woods II da “stabile” ha cominciato a farsi “instabile” (il mercato della casa americano è stato, in fin dei conti, il punto più debole di una catena planetaria, che avrebbe potuto iniziare a sfilacciarsi anche in altri punti), lo “stato della mente” è diventato ansioso e preoccupato da euforico che era.

Ha così preso avvio un processo inverso di contrazione della “liquidità” (e dei profitti, come dimostrano i tremendi buchi venuti a galla nelle trimestrali delle grandi banche americane) che, a una a una, finirà per afflosciare le tante bolle gonfiatesi in questi anni.

Le banche, i mercati e la bolla del credito I

“Banche, un rischio o di nuovo un affare?” si chiedeva qualche settimana fa Il Mondo in un lungo articolo a firma di Ivan Del Ponte. “Bene”, mi sono detto. “Proprio quello che ci vuole”. Non è infatti possibile comprendere gli scossoni sui mercati finanziari di questo ultimo semestre se non si analizza a fondo la situazione del settore bancario.

Dopo anni di leadership e sovraperformance…

Fonte: Borsa Italiana

 … è dalle banche che ha preso le mosse la correzione globale delle Borse (o bear market?), iniziata sul listino milanese verso la fine di maggio:

Fonte: Borsa Italiana

Purtroppo, a dispetto del titolo, l’articolo de Il Mondo saltava a piè pari ogni valutazione dei rischi.

Si limitava a descrivere come “irrazionali” i comportamenti del mercato che, facendo “di tutta l’erba un fascio”, avrebbe finito per penalizzare senza motivo anche gli istituti di credito italiani per la crisi dei mutui subprime americani.

E sposava la tesi dell’”affare” attribuendo agli “investitori più scaltri” l’idea che “per chi ha un’ottica di investimento superiore all’anno è il momento di fare shopping” tra i titoli bancari del nostro listino.

Quali, in particolare? Intesa Sanpaolo, UniCredit, Banco Popolare…insomma, gli azionisti bancari di RCS, editore de Il Mondo.

Nessuna vera analisi, nessun accenno all’evidente conflitto d’interessi in cui il giornale era andato a ficcarsi (l’intenzione era di proporre buoni consigli ai lettori o fare un favore alla proprietà?): l’articolo aveva tutta l’apparenza di quella che in gergo si chiama “marchetta”, un malcostume che, nei paesi civili, le testate attente alla propria credibilità cercano in ogni modo di evitare (vedi quanto ho scritto nel post Blog e fondamenti del giornalismo).

Cestinato l’indecente servizio de Il Mondo, resta l’interrogativo. Che succede alle banche?

Purtroppo, l’analisi dei nessi tra mondo del credito e mercati non è facile, perché complesse, sin troppo, sono diventate le attività in cui le banche – quelle almeno radicate al cuore del sistema – sono impegnate.

In una battuta, si potrebbe dire che se nelle ultime settimane Chuck Prince e Stan O’Neal, Ceo di due formidabili istituzioni come Citigroup e Merrill Lynch, sono stati di punto in bianco messi alla porta dai loro azionisti è perché non avevano capito, loro per primi, cosa facessero le banche di cui erano alla guida. E se non l’avevano capito loro, potrà essere un compito alla portata di un piccolo investitore qualsiasi?

Non lo so, ma è necessario provarci. Nel seguito di questa analisi mi ci cimenterò usando molti grafici per stare ai fatti e mirando a ricomporre, senza perdermi in dettagli, un contesto in cui sia possibile ridare senso alla grande confusione e incertezza che hanno invaso i mercati da qualche mese a questa parte.

La bolla dei tassi e della liquidità

Il primo problema, cercando di sviscerare un sistema complesso come i mercati, è capire da dove cominciare.

Nel descrivere la crisi palesatasi a partire dall’estate, si è per lo più concentrata l’attenzione sul suo epicentro, i mutui subprime (quelli cioè più rischiosi perché offerti a una clientela che dà scarse garanzie), visti come manifestazione di una tendenza al rilassamento degli standard creditizi e all’eccesso speculativo limitata a una parte del mercato della casa americano.

E’ un approccio interpretativo che è stato incoraggiato, in primo luogo, dalle autorità americane.

Ancora nel giugno scorso, ad esempio, Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve, si esprimeva in termini rassicuranti in un discorso all’annuale Conferenza Monetaria Internazionale, nel quale dichiarava che:

“Fattori fondamentali, tra cui la solida crescita dei redditi e tassi sui mutui relativamente bassi, dovrebbero in ultima istanza sostenere la domanda di case; appare a questo punto improbabile che i problemi nel settore subprime finiscano per avere serie ripercussioni sull’economia nel suo complesso o sul sistema finanziario.”

Dall’estate si è cominciato poi a capire quanto riduttiva fosse quell’interpretazione.

Scrive Charles Kindleberger, nel suo classico Manias, Panics and Crashes, a history of financial crises, che “le manie speculative si gonfiano grazie all’espansione della liquidità e del credito o, in alcuni casi, prendono proprio avvio per effetto di un’iniziale espansione della liquidità e del credito.”

E’ da qui, più che dai mutui subprime, che bisogna partire.

All’origine dei tremori che scuotono oggi i mercati finanziari sta una bolla dei tassi e della liquidità che non ha precedenti e che viene da lontano.

Vediamola, a partire dal grafico che segue, che ci mostra l’evoluzione dei tassi reali a breve negli Usa e nella zona euro (linea rossa) e la deviazione da quella condizione di neutralità della politica monetaria chiamata in gergo Taylor rate (linea blu):

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

Il Taylor rate è dunque un tasso di equilibrio. Definito dall’economista John Taylor sulla base di una formula che tiene conto dell’andamento del ciclo economico e dell’inflazione, fu ampiamente utilizzato dalla Federal Reserve come metro di valutazione negli anni della presidenza di Alan Greenspan.

Appare chiaro come già dalla fine del 1998, negli Usa, e dal 2001 in Europa la politica monetaria diventò espansiva e vi rimase a lungo, prima di tornare verso una condizione di equilibrio solo in tempi recenti. Senza però sortire gli effetti desiderati, come mette in chiaro il grafico che segue:

Un tratto anomalo e importante dell’andamento dei tassi nell’ultimo decennio è stato che, al netto dell’inflazione (in termini cioè “reali”), quelli a lungo termine hanno continuato a flettere, in aggregato, in tutti i paesi del G7, insensibili alla restrizione monetaria messa in atto dalla Federal Reserve a partire dal giugno 2004 e dalla BCE a partire dal dicembre 2005. Siccome molte attività di investimento o di consumo di beni durevoli sono più sensibili ai tassi a lunga che a quelli a breve, l’azione delle banche centrali, tesa a riequilibrare la politica monetaria in presenza di una crescita economica sempre più effervescente, è stata dunque in larga parte frustrata dai mercati (dove vengono liberamente fissati i tassi a lunga).

Questa osservazione è ancora meglio visibile nel grafico seguente, che mette direttamente a confronto i tassi a breve (Fed Funds) con quelli a lunga (T-bond decennale) del mercato americano:

Fonte: Federal Reserve

Come è facile notare, nei cicli passati era sempre accaduto che, nelle fasi di stretta monetaria, ai rialzi dei tassi a breve, decisi dalla Federal Reserve, si accompagnassero anche aumenti dei tassi a lunga.

Nell’ultimo ciclo, dal 2004 al 2007, questo non si è però verificato. Come mai? Lo vedremo nella seconda parte di questa analisi.

Un bear market azionario è forse alle porte?

Che faranno, a questo punto, i mercati azionari? Già in due occasioni, negli ultimi due mesi, ho cercato di combinare analisi tecnica e analisi macroeconomica per arrivare a una risposta – sempre partendo dalla premessa che le Borse, come più volte ho cercato di dimostrare in questo blog, sono in generale sopravvalutate. Per due volte gli studi a cui ho fatto riferimento (non miei, io faccio il giornalista e non l’analista tecnico o l’economista) si sono dimostrati attendibili. E’ comprensibile la tentazione di volerci riprovare, con l’accortezza di tenere ben presente che nessuno ha la sfera di cristallo. E che non è sulle previsioni di breve periodo che si può basare un’accorta gestione del portafoglio.

Vediamo allora cosa ho già scritto e come quel quadro può essere aggiornato.

Due analisi azzeccate

Il 9 ottobre, subito prima che i mercati Usa ripiegassero dai massimi, nel post L’analisi tecnica svela un rally di Borsa sospetto, scrivevo così:

Volume e ampiezza ci raccontano storie simili. Il rally dell’ultimo mese e mezzo appare sospetto, perché ha avuto scarsa partecipazione di investitori (bassi volumi) e di titoli (linea Advance-Decline divergente rispetto ai prezzi).”

Notavo che si trattava di caratteristiche “tipiche di un top di mercato e concludevo: “E’ probabile che molti investitori abbiano deciso di stare alla finestra in attesa delle trimestrali del terzo trimestre […]. In ogni caso, la conclusione da trarre, per ora, è che di questo rally, e della grancassa mediatica che ha salutato i nuovi massimi di Wall Street, è giusto essere scettici.”

Il 21 ottobre, subito dopo il “mini-crash” di venerdì 19 ottobre, scrivevo, dopo aver lasciato la parola a due dei miei analisti preferiti, Brett Steenbarger e Paul Kasriel:

“Il ‘mini-crollo’ di venerdì ha cominciato a ristabilire un clima di mercato meno irrazionale e più rispondente ai fondamentali. I nuovi massimi di molti indici azionari riflettevano scommesse speculative ed eccessi di ottimismo di una parte sempre meno rappresentativa dell’universo degli operatori. In questa fase, è giusto invece essere dubbiosi, incerti e anche un po’ timorosi. E’ possibile, e forse probabile, che i mercati azionari debbano ritestare i minimi di agosto prima di decidere sul serio il loro corso futuro” […]

Al test dei minimi di agosto siamo ora arrivati. E il contesto, sia tecnico che macroeconomico, come ci dicono sempre Steenbarger e Kasriel, si va deteriorando.

Un mercato sempre più fragile

In un post pubblicato mercoledì sul suo blog Traderfeed, Steenbarger osserva come la flessione degli indici nelle ultime settimane sia stata accompagnata da:

a) la continua espansione del numero di titoli che vanno a segnare nuovi minimi a 52 settimane (New Low);

b) l’incessante debolezza dei settori più penalizzati del mercato (l’indice del settore bancario ha perforato i minimi di agosto);

c) l’amplificarsi di segnali di flight to safety, e cioè di avversione al rischio e ricerca della sicurezza, come ad esempio la corsa all’acquisto di titoli di Stato, che ha spinto i rendimenti del T-bond decennale sotto il 4% per la prima volta dal 2005.

Steenbarger ammette che la sua ipotesi interpretativa, a partire dall’estate, era stata che una correzione fosse alle porte, ma non un bear market.

Fino a qualche settimana fa era sua convinzione che il test dei minimi di agosto, da lui previsto, avrebbe potuto risolversi positivamente, grazie alle forti iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali e alla solidità dei titoli a larga capitalizzazione.

Ma ora Steenbarger osserva come l’espansione dei New Low – e la fragilità tecnica che questo indicatore denuncia – riguardi non più solo il NYSE, e cioè la generalità del mercato, ma anche l’S&P 500, ossia le large cap. “Io seguo i miei indicatori e non compro un mercato dove i New Low sono in aumento.”

La conclusione di Steenbarger è che “dalla fine della scorsa settimana, i segnali di debolezza si stanno intensificando, non riducendo, e questo per i Tori (gli ottimisti) deve essere un motivo di preoccupazione.”

Una recessione difficile da evitare

Se il quadro tecnico peggiora, lo stesso si può dire dei fondamentali macroeconomici.

I rischi di recessione, come mettono in chiaro Kasriel e il suo team a Northern Trust, sono in aumento.

E’ di ieri l’ultimo aggiornamento del LEI (o superindice economico, com’è conosciuto in Italia). Dell’importanza di questo indicatore, che ha correttamente predetto, con un trimestre circa di anticipo, tutte le recessioni americane degli ultimi 50 anni, con l’unica eccezione di un falso segnale nel 1966, ho già scritto nel post L’economia Usa e lo spettro della recessione .

Ecco il grafico, che riprendo da Northern Trust (le recessioni sono rappresentate dalle bande grigie):

Come spiega Asha Bangalore, dopo un effimero rimbalzo nel terzo trimestre, il LEI è tornato a spingersi in territorio negativo. E le prospettive sono di ulteriore indebolimento, visto che uno dei pochi elementi di relativa forza nel dato pubblicato ieri è stato l’andamento del mercato azionario a ottobre. Ma sappiamo come Wall Street abbia poi mutato decisamente rotta a novembre.I segnali infausti provenienti dagli Usa sono, peraltro, numerosi, come ci ricorda Paul Kasriel in un’analisi pubblicata all’inizio di questa settimana.

Tra i più preoccupanti c’è l’andamento delle vendite al dettaglio, scese a ottobre, in termini reali (al netto, cioè, dell’inflazione) dell’1,65% annuo. Quello che sta accadendo, dice Kasriel, è che la crisi del mercato della casa sta finalmente inducendo le famiglie americane a moderare i consumi al fine di rimpinguare livelli di risparmio troppo bassi.

L’impennata del tasso di risparmio è una dinamica che si è manifestata subito prima di tutte le recessioni degli ultimi 40 anni, come evidenzia il grafico che segue:

Sulle prospettive del mercato della casa, all’origine del rallentamento dell’economia e dei patemi delle Borse, non c’è poi da illudersi.I prezzi, da qualche trimestre, hanno cominciato a flettere perché l’offerta di immobili supera la domanda. Ma questo squilibrio è destinato ad aumentare nei prossimi mesi. Insolvenze e pignoramenti sono in rapida ascesa, e spingono una massa crescente di immobili sul mercato.

Il risultato è che le scorte di case invendute, in rapporto al numero di case vendute, hanno già superato i livelli toccati nella recessione del 1990-91 e seguitano a impennarsi, come risulta chiaro dal grafico che segue (il quale mostra, per chi non sappia decifrare l’inglese, che al ritmo attuale di vendita occorrerebbero 10,3 mesi per esaurire le scorte di case invendute):

La caduta dei prezzi delle case, conclude Kasriel, è con ogni probabilità destinata ad accelerare nel 2008, con due effetti negativi. Verrà ulteriormente ridotta la capacità delle famiglie Usa di indebitarsi, e sostenere in questo modo i consumi. E diminuirà ancora il valore del collaterale sottostante all’enorme massa di Asset-backed securities (ABS), su cui Wall Street ha costruito negli ultimi anni quella bolla del credito che con fragore sta ora scoppiando.

Per cercare di evitare una recessione, la Federal Reserve dovrebbe per Kasriel portare i Fed funds al 3,5% entro la metà del 2008. Ma c’è da dubitare che sarà in grado di farlo. Con il petrolio a 100 dollari al barile e il dollaro già così debole, ci sono rischi sia di inflazione che di un collasso del biglietto verde.

Quale può essere la conclusione? Un quadro tecnico e fondamentale in peggioramento, e due enormi bolle – quella della casa e quella del credito – che hanno appena iniziato a sgonfiarsi, mi pare che rendano più credibile, almeno per ora, mettere in conto che le soglie di agosto non reggano a lungo.

Qui da noi hanno già ceduto. Ma importa poco. Anche chi investe a Piazza Affari è su Wall Street che deve tenere puntato lo sguardo.

Il triste autunno del mercato della casa

Delusi da rendimenti obbligazionari ai minimi storici e atterriti, dopo i crolli del 2000-2002, dalle escursioni mozzafiato dei mercati azionari, gli italiani, nell’ultimo quinquennio, sono tornati, col trasporto di chi sente di non poter sbagliare, al loro primo amore: l’investimento nella casa. Lo stesso, per la verità, è accaduto anche nel resto d’Europa, con l’unica eccezione della Germania; in tutto il mondo anglosassone, dagli Usa all’Australia; e in Cina e nel resto dell’Asia, tranne che in Giappone.

La corsa all’acquisto di case è stata così diffusa e frenetica, complice un’offerta di mutui generosa come non mai, che già dal 2003 c’è stato chi, come l’Economist, ha lanciato l’allarme sul gonfiarsi della prima bolla globale nella storia dei mercati immobiliari.

Se è una bolla scoppierà

Ora che si è capito che una bolla effettivamente c’era, perché lo scoppio in America è stato tanto fragoroso da avere ripercussioni in tutto il pianeta, ci si comincia a chiedere se anche in Europa e in Italia il fascino del mattone stia per tramontare.

Una risposta meditata l’ha pubblicata in questi giorni Daniel Gros, direttore del prestigioso Centre for European Policy Studies di Bruxelles.

Studiando i prezzi delle case sulle due sponde dell’Atlantico, Gros ha scoperto due cose, entrambe preoccupanti.

La prima è che nel corso degli ultimi 30 anni l’andamento in termini reali (al netto cioè dell’inflazione) del mercato della casa nella zona dell’euro ha seguito da vicino quello americano, con un ritardo temporale che si è aggirato in media attorno agli uno, due anni ma che è andato via via riducendosi.

Siccome i prezzi negli Usa, dalla fine del 2006, hanno preso a scendere, a un tasso annuo che continua ad accelerare e ha toccato di recente il 5%, le implicazioni perl’Europa sono chiare: una discesa, anche ripida, è ormai alle porte.

Il secondo motivo di preoccupazione è che lo stato di sopravvalutazione del mercato europeo, nonostante il movimento in controtendenza della Germania (il cui ciclo, condizionato dal processo di unificazione, è stato del tutto singolare nell’ultimo quindicennio), è analogo a quello del mercato americano.

In entrambi i casi, gli indici si trovano un 40% sopra la media degli ultimi 30 anni. Si tratta dello stesso estremo toccato dal settore immobiliare in Giappone sul finire degli anni ’80, e che lì fu poi seguito da oltre dieci anni di prezzi in costante calo.

Il grafico che segue, tratto dall’articolo di Gros, ne riassume efficacemente le preoccupazioni. Mostra l’andamento dei prezzi reali degli immobili negli Usa (linea blu) e nella zona euro (linea gialla) a partire dal 1971: i secondi seguono i primi.

Aggiunge però Gros: si può obiettare che l’indice dei prezzi reali non sia la misura più giusta per capire il mercato della casa. Gli aumenti dei prezzi potrebbero essere infatti giustificati da un sostenibile aumento della domanda.

Domanda sostenibile o speculazione?

Per capire se e in che misura questo sia il caso, Gros è così andato a verificare cosa sia accaduto in questi anni agli affitti. Aumenti dei prezzi risultanti da una maggiore domanda sostenibile (cioè non di natura speculativa) dovrebbero essere infatti accompagnati da analoghi rialzi degli affitti, in una sostanziale stabilità del rapporto prezzo/affitti.

Stanno così le cose? Niente affatto. Come riassume la tabella che segue, la norma per tutti i paesi dell’Ocse, negli ultimi tre decenni, è stata di un rapporto prezzo/affitti che non si è mai discostato più del 2% dal livello medio.

Ci sono due macroscopiche eccezioni: il Giappone degli anni ’80-‘90, dove il rapporto salì a 1,2, e la situazione che si è creata un po’ dovunque a partire dal 2000. Il ratio, a fine 2006, aveva toccato l’1,36 negli Usa e l’1,24 nella zona euro, indicando dunque una sopravvalutazione dei prezzi medi del 36% e 24% rispettivamente.

Le conclusioni di Gros sono ispirate a un realistico pessimismo:

a) è probabile che i prezzi in Europa comincino presto a scendere, come sta accadendo negli Usa;

b) siccome i cicli del mercato della casa sono molto lunghi – spesso di durata superiore al decennio – e lo stato attuale di sopravvalutazione è superiore a ogni precedente storico, è prevedibile che la discesa dei corsi non sarà di breve durata;

c) l’andamento dei prezzi delle case ha ripercussioni sulla propensione al consumo delle famiglie: è realistico pensare che, sulle due sponde dell’Atlantico, i consumi siano destinati ad attraversare un periodo di “vacche magre”;

d) l’Europa, a differenza degli Usa, non ha il problema dell’ampia diffusione dei mutui sub-prime, ma sarà esposta a tensioni derivanti dal diverso impatto della crisi nelle varie realtà nazionali. All’interno dell’area euro – dove la politica monetaria è unica e quelle fiscali sono soggette a vincoli – le situazioni sono infatti alquanto diversificate: si va dalla Germania, dove il mercato della casa è stato, in anni recenti, per lo più stagnante, ai casi estremi di Spagna e Irlanda, dove gli investimenti in costruzioni sono arrivati a toccare il 18-20% del Pil – un’enormità.

Le fragilità ulteriori del caso italiano

Per l’Italia vorrei aggiungere un’osservazione. Da noi meno che altrove i forti aumenti dei prezzi degli ultimi anni possono essere spiegati con un’espansione sostenibile della domanda.

I due fattori che più governano la domanda di case nel lungo periodo sono infatti l’andamento del reddito reale e la demografia: se aumentano i redditi e aumenta la popolazione, è del tutto conseguente che salgano anche i prezzi delle case.

Ma l’Italia sia per crescita del reddito che per crescita demografica occupa da diversi anni gli ultimi posti delle classifiche mondiali. E le prospettive restano magre.

Il lievitare dei prezzi delle case è stato dunque frutto di una mania collettiva, di natura e dimensioni simili alla bolla azionaria di fine anni ’90. Come quella finirà: sgonfiandosi, anche se nei modi tipici del mercato immobiliare, e cioè con un moto più graduale e di lungo periodo.

Uno sguardo all’America per capire il futuro

Siccome l’Europa segue l’America, come Gros dimostra, per scrutare nel futuro la cosa da fare è osservare cosa stia succedendo oltre Atlantico, dove tra l’altro gli strumenti di rilevazione e di analisi sono molto più sofisticati che da noi.

Partiamo allora con una rapida carrellata di grafici, che meglio delle parole riescono a illustrare lo stato e le prospettive del mercato immobiliare negli Usa.

Gli ultimi dati sulle vendite di case esistenti indicano un crollo del 23% rispetto a un anno fa (il calo peggiore dal luglio 1982) e del 30% rispetto al picco ciclico del settembre 2005 (vedi grafico qui sotto, tratto dalle analisi di Northern Trust).

I prezzi, su base annua, sono scesi del 4,9%, il risultato peggiore di sempre (vedi grafico qui sotto, tratto di nuovo da Northern Trust).

La crisi è però appena agli inizi e il peggio deve ancora venire, a dispetto delle chiacchiere infondate di quanti, interessatamente, non fanno che predire una “stabilizzazione” imminente.Mentre le vendite calano, le scorte di case invendute seguitano a crescere, segno evidente che i prezzi dovranno flettere ancora molto prima che sia raggiunta una condizione di equilibrio tra domanda e offerta (vedi grafico qui sotto, tratto da Calculated Risk).

A pesare sul mercato della casa, oltre ai prezzi eccessivi, è la crisi dei mutui, offerti spesso negli ultimi anni a condizioni “predatorie”, e cioè solo apparentemente vantaggiose, anche a debitori privi di alcun merito e garanzia.Molti di questi mutuatari sprofondano in uno stato d’insolvenza alla scadenza del periodo iniziale, quando il “teaser rate”, ossia un tasso d’ingresso particolarmente allettante, viene rivisto al rialzo, mediamente di un paio di punti percentuali.

Ma come dimostra il grafico qui sotto, l’ondata dei “reset” dai tassi d’ingresso a quelli a regime sta ancora montando e toccherà il punto di massima, per quel che riguarda i mutui sub-prime, i più rischiosi, solo nella prima metà del 2008. Toccherà poi a quelli a tasso variabile.

Insolvenze e pignoramenti sono insomma appena agli inizi e peggioreranno nei prossimi mesi, aggravando le pressioni al ribasso sui prezzi (vedi il grafico qui sotto, a cura di Credit Suisse e tratto dal recente Global Financial Stability Report del FMI).

Che la crisi del mercato della casa sia destinata ad aggravarsi e a durare a lungo non è solo un’ipotesi formulata da molti dei più autorevoli analisti. E’ anche l’indicazione fornita dai contratti future sull’indice dei prezzi delle case, introdotti al Chicago Mercantile Exchange lo scorso anno.Come evidenzia il grafico qui sotto (a cura del New York Times e tratto dal blog The Big Picture di Barry Ritholtz), il mercato dei future sconta che il fondo venga toccato non prima del 2010, a livelli di prezzo del 20% circa inferiori agli attuali.

Una debacle di queste dimensioni non era mai accaduta prima. E resta per questo difficile stimarne le ramificazioni. Ma senza precedenti era stata anche la bolla che aveva posto le premesse della rovinosa inversione del trend a cui andiamo ora incontro, in Europa come in America.Un senso del grado di follia che ha travolto negli ultimi anni ogni ragionevole misura di valore ce lo dà il grafico qui sotto, tratto dall’ultima lettera trimestrale agli investitori di Jeremy Grantham.

Rapportati ai redditi, i prezzi delle case si sono spinti ben tre deviazioni standard oltre la media storica, un livello di sopravvalutazione corrispondente a quello del Nasdaq nel 2000: una bolla di quelle che, in teoria, solo ogni cento anni è dato di incontrare. E il cui scoppio metterà probabilmente fine alla vecchia illusione, comune al 70% degli italiani secondo un sondaggio di Ipsos, per cui a investire in case, tutto sommato, non si può mai sbagliare.

Il mercato delle idee: Rally, rischi e black box

Nel Mercato delle Idee presento una serie di link ad articoli interessanti. Quelli qui raccolti trattano temi come la crisi finanziaria di agosto, la fuga dal dollaro, il ruolo crescente ma oscuro degli hedge fund, il rally delle materie prime e i rischi d’inflazione, il collasso del mercato americano della casa, le contrastanti valutazioni sulla possibilità che una recessione sia alle porte.

Mercati

Buttonwood su l’Economist si chiede se la crisi finanziaria di agosto assomigli di più a quella del 1990 (collasso delle Casse di Risparmio americane), che sfociò in una recessione e in un pronunciato calo delle Borse, o a quella del 1998 (default russo e crollo del fondo LTCM), che fu seguita da un anno e mezzo di scapigliata speculazione rialzista sull’onda delle riduzioni dei tassi decise dalla Fed (da allora in poi descritte col nomignolo di “Greenspan put”). Non ci vorrà molto per capirlo. Ma il consiglio è di monitorare attentamente tre fattori che potrebbero annunciare l’arrivo di tempi bui: un aumento degli spread sui mercati del credito, una ripresa dell’inflazione, e una fase di improvvisa forza dello yen (che indicherebbe una fuga dal rischio da parte degli investitori più aggressivi, i quali fino ad oggi si sono indebitati in yen per investire con leva su altri mercati). Il primo fenomeno è già accaduto (anche se non nelle dimensioni del 1998), il secondo è diventato più probabile (se ha un senso la corsa a vendere dollari e a comprare oro dopo il recente taglio dei tassi da parte della Fed), ma del terzo, per ora, non c’è traccia. L’appetito per il rischio è dunque ancora elevato. Anche se si sa che sulla stabilità e durevolezza degli appetiti degli investitori non è consigliabile fare affidamento.

Anche Bespoke Investment Group fa confronti, in questo caso di natura grafica e con l’andamento dell’S&P 500 nelle crisi del 1987 e del 1998. Risultato? Come appare evidente (vedi sotto), sembrano esserci davvero pochi paralleli.

Banking Credit Analyst riflette sulle caratteristiche dei flussi d’investimento emersi dalla crisi estiva. I due temi portanti sono “go global” (e cioè diversificazione a livello globale, soprattutto a beneficio dei mercati emergenti) e “via dall’epicentro della crisi” (e cioè mercato immobiliare Usa, mutui subprime e, in genere, il dollaro). I beneficiari di questi flussi sono, nel complesso, i mercati azionario e delle commodities, e le valute più lontane dal dollaro. Per BCA si tratta di trend destinati a durare.

Mark Hulbert è uno specialista dell’analisi del sentiment del mercato, che fa da decenni basandosi soprattutto sulle raccomandazioni degli autori di newsletter finanziarie in America. L’assunto di fondo di tale analisi è che, agli estremi, panico ed euforia sono indicatori contrari: quando ci sono troppi pessimisti il mercato è probabilmente vicino al fondo, e viceversa, quando ci sono troppi ottimisti, un picco non è lontano. Come interpretare, su queste premesse, il rally dell’oro, che a settembre ha varcato di gran corsa la soglia dei 700 dollari l’oncia? Hulbert ha verificato che il sentiment è molto più cauto oggi di quanto non fosse nel maggio del 2006, quando l’oro si spinse una prima volta verso livelli analoghi. Il rally attuale, insomma, sembra poggiare su basi molto più solide.

Ken Fisher, figlio d’arte, grande investitore, e columnist di lungo corso per Forbes, dove tiene una rubrica che ha azzeccato con raro tempismo quasi tutti i grandi punti di svolta dei mercati azionari nell’ultimo ventennio, è rimasto fedele al campo dei Tori durante tutta la crisi estiva delle Borse. Nel suo ultimo articolo per Forbes enuncia “quattro ragioni” alla base della convinzione che quella estiva è stata solo una correzione in un rally destinato a continuare. Meritano di essere attentamente ponderate. Dice Fisher che l’ascesa e poi il crollo dei mercati, nel corso degli ultimi mesi, sono stati troppo ripidi per assomigliare alla fine di un bull market e all’inizio di un bear market. Queste transizioni da un ciclo all’altro sono in genere lente e graduali. In secondo luogo, non esiste bear market che prenda l’avvio da “notizie vecchie” e risapute. Ci vogliono fatti nuovi. E la crisi del mercato subprime non lo è. Era da anni che tanti investitori avevano messo in conto il crollo dell’enorme mucchio di prestiti facili e dissennati contratti nel mercato immobiliare americano.

Il terzo motivo è che il credit crunch di cui tanto si parla è per Fisher una contrazione del credito che, almeno nel settore corporate, fa solletico più che paura. Nel 2000 gli spread tra titoli del Tesoro e junk bond si allargarono all’improvviso di tre o quattro punti percentuali. Oggi si sono allargati di un punto per poi tornare a restringersi, e gran parte dell’aumentato differenziale è stato provocato dalla discesa dei rendimenti dei titoli del Tesoro più che da un’impennata di quelli dei junk bond: uno sviluppo tutt’altro che negativo. Infine c’è il pessimismo dei media, che per Fisher è sempre presente nelle correzioni di un bull market e mai quando un bull market cede finalmente il passo a un bear market. Insomma, finchè i pessimisti di oggi non diventeranno ottimisti c’è per Fisher un buon motivo per pensare che il rally delle Borse continuerà, con il suo epicentro nei mercati emergenti dell’Asia.

Delle cause della crisi di agosto ho già scritto nel post Derivati, armi di distruzione di massa? riservandomi di tornarne a parlare con l’aiuto di un grande esperto come Satyajit Das. Lo farò, ma per ora, per quanti masticano l’inglese, vorrei proporre un suo testo recente, un po’ lungo ma illuminante: “Credit crunch, the new diet snack for financial markets”. E aggiungere il link a un articolo del New York Times che fa riferimento a un paio di altri studi di autori importanti come Andrew Lo del MIT e Clifford Asness di AQR, un grande e prestigioso hedge fund pure scosso dalla crisi. Tra le analisi di questi autori ci sono molti punti in comune: il moltiplicarsi di hedge fund ha aumentato il rischio nei mercati, il fatto che molti perseguono strategie simili ha ridotto i ritorni, sollecitando l’impiego di una leva finanziaria sempre maggiore. In caso di improvvise difficoltà di qualche grosso player (come è accaduto ai primi di agosto tra gli hedge fund quantitativi) le liquidazioni forzate che ne derivano portano a un “impazzimento” caotico dei mercati più diversi, con conseguenze negative che ricadono a cascata su un numero via via crescente di investitori.

A proposito di hedge fund, un articolo del Financial Times riporta i risultati di uno studio di Hedge Fund Intelligence: nei primi sei mesi dell’anno gli asset amministrati da fondi hedge a livello globale sono aumentati del 19% raggiungendo i 2.500 miliardi di dollari. Se si tiene conto della leva finanziaria spesso impiegata da questi fondi, e della segretezza con cui operano, si capisce perché molti cominciano a preoccuparsi del fatto che sono dei misteriosi “black box” (scatole nere) a farla sempre più da padroni sui mercati finanziari.

Un articolo di Bloomberg mette in rilievo i caratteri travolgenti del rally in corso delle materie prime. Nel mese di settembre l’indice CRB ha guadagnato l’8,1%, sospinto dall’ascesa dei prezzi del grano, del petrolio e dell’oro. Si tratta del risultato migliore dal luglio del 1975. Il riferimento alla metà degli anni ’70, quando la prima crisi petrolifera, innescata dal conflitto tra arabi e israeliani, fece esplodere l’inflazione, fa pensare. Oggi la domanda di materie prime è sostenuta dall’impetuoso processo di industrializzazione della Cina, un fattore a cui durante l’estate si è aggiunto il sospetto che per contrastare la sempre più profonda crisi immobiliare negli Usa la Federal Reserve tornerà a inondare i mercati di liquidità. I rischi d’inflazione sono dunque in aumento. E in tempi d’inflazione, sono gli asset reali (come le materie prime) a offrire la protezione migliore.

Delle scomode opzioni che la Federal Reserve ha davanti a sè si occupa Bill Gross, il “re dei bond”, nella sua lettera mensile agli investitori. Il problema per la banca centrale americana è la situazione schizofrenica tra un settore corporate in buona salute e milioni di famiglie che rischiano di finire sul lastrico, affossate dai debiti e da un mercato della casa in caduta libera (vedi grafico sotto). Scrive Gross: “Se Bernanke fa finta di nulla e congela i tassi, rischia di esacerbare una crisi immobiliare in pieno sviluppo. D’altra parte, se decide di favorire le famiglie a scapito delle imprese, il rischio è di tornare ad accendere comportamenti speculativi nel mercato azionario, e di provocare una fuga dal dollaro.” Cosa farà la Fed? Cercherà probabilmente una via mediana ma efficace nel contrastare una crisi del mercato della casa destinata a restare per anni al centro delle sue preoccupazioni. Per Gross questo significa che nei prossimi 6-12 mesi i tassi a breve dovranno scendere a livelli non superiori all’1% reale, pari al 3,75% in termini nominali – molto più in basso, insomma, di quanto non sia al momento scontato dal consenso degli investitori.

Una sintesi efficace della performance dei mercati mondiali alla fine del terzo trimestre, espressa in termini di valuta locale, è pubblicata da Bespoke Investment Group. Svettano i guadagni di petrolio, oro e mercati emergenti; tra le Borse sono quelle dei cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) a guidare la classifica.

Economia

Paul Kasriel di Northern Trust riassume in un recente articolo la sua valutazione dello stato dell’economia Usa. Kasriel parla di una “growth recession” (recessione con crescita), cioè di un’economia che cresce meno del suo potenziale e che vede dunque diminuire la capacità utilizzata e aumentare i disoccupati, con rischi elevati di una vera e propria recessione nell’immediato futuro. Il pericolo viene dal mercato della casa, il cui collasso sta inducendo le famiglie a mettere un freno ai consumi. Sono diversi gli indicatori che confermano come gli Usa siano ad appena un passo dalla recessione: dal LEI (Index of Leading Economic Indicators, da noi noto come superindice economico), al rapporto tra occupati e popolazione (che ha iniziato a calare, come è accaduto all’inizio di ogni recessione degli ultimi decenni), all’indicatore di Kasriel (“Kasriel Recession Warning Indicator” o KRWI, vedi grafico sotto), composto dal tasso di variazione annua della base monetaria in termini reali, e dalla media mobile a quattro trimestri dello spread tra tassi decennali e Fed Funds.

Nota Kasriel che, assieme, l’andamento reale della base monetaria e la curva dei rendimenti hanno sempre dato segnali affidabili di recessione negli ultimi 50 anni. Quest’anno hanno emesso un “segnale qualitativo” o debole, nel senso che sono scesi leggermente in territorio negativo per poi rimbalzare, seppur di poco. Ci troviamo, insomma in una situazione di grande incertezza e notevoli rischi, a cui la Fed, ad avviso di Kasriel, ha cominciato a rispondere con una manovra di riduzione dei tassi che con ogni probabilità continuerà in modo aggressivo nei mesi a venire.

A misurare i rischi di recessione c’ha provato anche un sondaggio di Rothstein Kass tra i manager di hedge fund americani. Hanno risposto in 239, e per il 61% del campione una recessione è “molto probabile” nel 2008. L’87%, messo evidentemente sul chi va là dagli scossoni dell’estate, ha anche previsto un aumento della volatilità nei mesi a venire. Ma, si sa, per gli hedge questo non è un problema.

Una stima ben diversa la fa invece il campione eterogeneo di investitori istituzionali che Merrill Lynch sonda ogni mese nella sua nota e molto seguita “Global Fund Manager Survey”. Riferisce David Rosenberg che, nel più recente sondaggio, solo il 7% vedeva rischi di recessione per il prossimo anno. E’ presumibile, dunque, che se una recessione dovesse davvero prendere piede, si abbatterebbe come una sorpresa di grande impatto sui mercati globali. E qual è la stima di Merrill Lynch? In base al loro modello, il rischio viene quantificato al 70%. E’, insomma, molto alto.

Un tassello del puzzle che ancora manca per arrivare a dire che una recessione negli Usa è inevitabile è sicuramente l’ISM manifatturiero, un sondaggio tra i responsabili degli acquisti che ha dimostrato nel tempo di predire correttamente, con un trimestre circa d’anticipo, l’evoluzione del Pil. Il rapporto di settembre è uscito due giorni fa, e come nota Northern Trust, ha evidenziato un indebolimento per il terzo mese di fila. Ma il dato di 52 resta per ora sopra la soglia di 50, che individua il punto di demarcazione tra espansione e contrazione dell’attività economica.

Un utile sommario dello stato del mercato della casa, l’origine dei problemi americani, lo offre Barry Ritholtz nel suo blog. Le tabelle alla fine del post, tratte dal New York Times, rendono con efficacia l’asprezza del tonfo. Non solo i prezzi delle case sono in caduta libera, ma se si dà credito ai contratti future, una stabilizzazione dei prezzi non è prevista prima del 2010. La crisi, insomma, è appena agli inizi.

Politica e media

La fiducia degli americani nell’amministrazione federale, stando all’ultimo sondaggio Gallup, è crollata ai livelli più bassi dai tempi dello scandalo Watergate, che costrinse l’allora presidente Nixon alle dimissioni. Manca appena un anno alle elezioni, ed è lecito pensare che George W. Bush farà di tutto per evitare una disfatta dei Repubblicani, e una fine così ingloriosa del suo secondo mandato. Chi pensa, e sono in tanti, che l’appuntamento ciclico con una recessione sarà almeno un po’ differito, fa affidamento sull’inesorabile logica del cosiddetto ciclo presidenziale. Il terzo e quarto anno di questo ciclo (nel nostro caso, il 2007 e il 2008) sono tipicamente i migliori per la Borsa per la semplice ragione che la Casa Bianca fa di tutto (compreso l’esercizio di ogni tollerabile pressione sulla Fed) per assicurare che i rubinetti della spesa e della liquidità siano ben aperti nell’imminenza della scadenza elettorale. E’ l’applicazione pratica del motto: “It’s the economy, stupid.” Scommettere su una recessione a breve sarebbe insomma un po’ come scommettere contro il ciclo presidenziale: in passato si è trattato, quasi sempre, di una puntata perdente.

MarketWatch, il portale di informazioni finanziarie che fa capo alla Dow Jones (e cioè, in definitiva, alla News Corporation di Murdoch), ha lanciato la versione beta di MarketWatch Community: un servizio gratuito che consente agli utenti di riorganizzare, condividere, commentare, etc. etc. i ricchi contenuti del sito. E’ un altro passo in quella rivoluzione dei media che ci sta trasformando tutti in “prosumer” (produttori/consumatori), e di cui ho scritto nel mio post Internet, i media e l’imprevedibile futuro. L’Italia, in questa rivoluzione, si trastulla nelle retrovie. E’ di oggi la notizia che la commissione europea agirà contro il nostro governo per i ripetuti ritardi nell’eliminare parti che contrastano con le norme sulla concorrenza contenute nella legge Gasparri (figlia prediletta del governo Berlusconi). Scrive Reuters: “Bruxelles ha messo nel mirino la legge Gasparri soprattutto nella parte che consente alle sole imprese già presenti nel mercato televisivo di comprare frequenze da altri operatori per avviare le trasmissioni digitali.” Tenacemente, e a tanti livelli, l’Italia appare impegnata a difendere un indifendibile passato, che le tecnologie e lo “spirito dei tempi” stanno affossando.

 

Derivati, armi di distruzione di massa?

Vorrei ragionare un po’ sul caos che ha investito i mercati il mese scorso. Cosa rivela? Cosa ci può insegnare? Capire qualcosa è urgente, perché la crisi di agosto potrebbe ripresentarsi da un momento all’altro. I suoi fattori scatenanti non sono infatti stati risolti dal taglio dei tassi, peraltro utile e tempestivo, da parte della Federal Reserve.

L’innesco, come è noto, è stato duplice.

Lo sgonfiarsi della bolla immobiliare americana ha fatto lievitare i casi di insolvenza nel mercato dei mutui. E gli strumenti derivati di nuova generazione, come i CDO, che erano stati generati per migliaia di miliardi di dollari impacchettando assieme mutui immobiliari ad alto rischio – i subprime – con obbligazioni più meritevoli di credito, nella convinzione che questo processo di “diluizione” e diversificazione ne avrebbe abbattuto la rischiosità, hanno rivelato alla prova del fuoco una natura molto meno affidabile di quanto non fosse stato stimato dalle società di rating e dagli sprovveduti acquirenti (in molti casi europei) di prodotti così esotici e poco trasparenti.

Evitare i CDO, una soluzione troppo semplice

Riassunta così la crisi di agosto però ancora non si spiega. C’è chi, come Marco Liera su Plus24, il supplemento settimanale del Sole 24 Ore, ne ha parlato come di un “evento raro” sfuggito alle capacità di previsione dei modelli quantitativi di hedge fund e investitori sofisticati.

La lezione da apprendere, secondo Liera, è che tali modelli, pur utili, dovrebbero essere utilizzati in modo meno “deterministico.” E che un prudente rispetto di quei margini di incertezza che la scienza e i modelli finanziari non possono eliminare dovrebbe convincere gli investitori a starsene alla larga da prodotti poco chiari.

“C’era un modo molto semplice per non perdere soldi nell’ultimo mese,” scrive Liera citando Frank Partnoy, autore del libro di successo “Infectious Greed” (avidità contagiosa). “Stare fuori dai CDO o dagli investimenti subprime. Il mercato è pieno di possibilità di fare soldi senza utilizzare strumenti insidiosi. Proprio come fa Warren Buffett.”

Sembra una conclusione ragionevole e chiara. Ma nella sua linearità questa spiegazione è anche inadeguata. La crisi di agosto, come e più di altre del passato, è stata infatti caratterizzata dalle sue nonlinearità, da un caos improvviso che non si presta a semplificazioni così rassicuranti.

Il caos dei mercati e due rocket scientists

Se il problema era nel mercato dei mutui subprime e dei CDO, perché sono andati in difficoltà molti hedge fund quantitativi che seguono strategie market-neutral (strategie, cioè, di arbitraggio, indifferenti ai rialzi o ai ribassi dei mercati)? Perché ha subito perdite superiori al 20%, nel giro di poche settimane, un fondo hedge celebrato come il Global Alpha Fund di Goldman Sachs, che investe nei mercati azionari e non nei CDO? Perché si sono inabissate del 30-50% molte mid e small caps dei mercati emergenti? Perché anche i principali indici azionari, composti di solide blue chip, hanno perso all’improvviso più del 10%, in America come in Europa o in Asia?

La verità è che sono stati inondati di ordini di vendita mercati tra loro, in teoria, poco o per nulla correlati. E che per non subire perdite non è bastato starsene fuori dai CDO o dagli investimenti subprime. Quel che dice Partnoy appare, quanto meno, superficiale.

Per capire meglio è forse necessario fare ricorso a qualche veterano del mondo elitario ed enigmatico dei prodotti derivati. Vorrei citarne, in particolare, due, che negli ultimi giorni, forti del loro prestigio, hanno parlato con grande chiarezza: Richard Bookstaber e Satyajit Das.

Ai non iniziati questi nomi non dicono probabilmente nulla. Vediamo allora di presentarli.

Dottore in economia al MIT, Bookstaber ha trascorso buona parte della sua vita come responsabile del risk management di alcuni dei maggiori gruppi finanziari al mondo, da Salomon Brothers a Citigroup a Morgan Stanley. E’ un rocket scientist che ha gestito i derivati più complessi, lavorando in alcuni dei principali hedge fund, da Moore Capital a Ziff Brothers a FrontPoint Partners. E’ infine l’autore di un libro di grande successo sul mondo dei fondi hedge e della finanza strutturata, “A Demon of Our Own Design: Markets, Hedge Funds, and the Perils of Financial Innovation.

Quanto a Satyajit Das, è un australiano di origini indiane che per 30 anni si è occupato di derivati e di risk management fino a diventare, nel campo, uno dei massimi esperti al mondo. E’ l’autore di un’opera di 4.700 pagine, in quattro volumi, otto chili di peso, che è la guida professionale di riferimento ai prodotti derivati. E’ anche l’autore di un blog e di un libro divulgativo di successo, Traders, Guns & Money: Knowns and Unknowns in the Dazzling World of Derivatives, che ha esposto, in linguaggio non tecnico e divertente, le realtà e i pericoli della finanza derivata al grande pubblico.

Il mito della non correlazione

Vorrei partire da Bookstaber, che della crisi di agosto ha dato la sua interpretazione in un articolo su Institutional Investor, intitolato The Myth of Non Correlation.

Scrive Bookstaber che la caratteristica più devastante di una crisi come quella d’agosto, ma che già si era presentata nel crash del 1987 o nella crisi asiatica del 1997 o al tempo del collasso del fondo LTCM nel 1998, non è l’impennata improvvisa della volatilità, o l’aumentata correlazione tra asset dello stesso mercato. A questo gli operatori di mercato sono abituati e vi sanno far fronte.

Nel nostro caso, i problemi con i mutui subprime si erano palesati da mesi. E la previsione, anche della Federal Reserve, era che restassero confinati a quel mercato. Perché si è invece avuta, all’improvviso, una crisi che ha investito i mercati più diversi in tutto il globo? Questo è il problema, osserva Bookstaber: i nessi inattesi, imprevisti, selvaggi tra mercati in teoria non correlati.

E si capisce, perché la questione sia grave. Tutti i sistemi di hedging e gestione del rischio, in base ai quali gli operatori finanziari stimano i rischi in portafoglio e decidono le esposizioni da assumere sui mercati, sono basati su modelli che quantificano le correlazioni tra mercati e asset diversi. Quando le correlazioni si fanno selvagge, i modelli di gestione del rischio diventano inutili.

Parlare di “eventi rari” o “anomalie statistiche” è solo un modo per esorcizzare il problema. Non ci aiuta a capirlo, e tanto meno a risolverlo. Anche perché è evidente che questi supposti “eventi rari” si ripetono con una preoccupante frequenza.

Complessità e tight coupling

A cosa sono dovute le improvvise discontinuità nelle correlazioni tra mercati, che caratterizzano le fasi di crisi? Per Bookstaber a due fattori: la complessità dei prodotti derivati e il tight coupling o “connessione stretta” delle decisioni d’investimento a cui è esposto chi opera in derivati.

Vediamo di capire meglio. La complessità degli strumenti derivati è almeno di due tipi. In primo luogo, c’è una nonlinearità nella relazione tra movimenti del mercato sottostante e prezzo del derivato. Piccole fluttuazioni del mercato sottostante possono a volte risultare in piccole oscillazioni del prezzo del derivato, ma altre volte comportare movimenti di prezzo molto più ampi.

C’è poi una complessità nelle relazioni “innaturali” che vengono a stabilirsi tra strumenti e mercati diversi. Nel caso dei CDO, ad esempio, segmenti del mercato obbligazionario che tra di loro sono, in partenza, “lontani cugini” finiscono per essere trattati alla stessa stregua. Il mutuo subprime, incorporato nel CDO, diventa come un bambino col raffreddore invitato alla festa di compleanno: un agente infettivo.

Quanto alle connessioni strette, una locuzione che Bookstaber mutua dall’ingegneria dei sistemi, il riferimento è a quei processi critici in cui la transizione da uno stadio all’altro è inevitabile, perché non consente opportunità d’intervento: come il pane che lievita in forno.

E’ questo il caso dell’investitore in strumenti derivati che, in caso di perdite, è costretto a far fronte con la liquidazione di asset alla richiesta di ricostituzione dei margini da parte del proprio broker.

Se l’operatore è di grosse dimensioni e la leva finanziaria impiegata è elevata, le vendite saranno di tale entità da spingere al ribasso il mercato interessato, amplificandone la crisi in una spirale perversa. Se poi il mercato in crisi diventa illiquido, come è spesso il caso e come è accaduto anche al mercato dei CDO ad agosto, l’operatore in difficoltà si troverà costretto a vendere non quello che vuole ma quello che può.

Le illusioni del risk management

La crisi si trasferisce così da un mercato all’altro, e i nessi attraverso cui si propaga non sono più quelli fondamentali o statisticamente prevedibili, modellati nei sistemi di risk management delle varie istituzioni finanziarie, ma quelli, imprevedibili, determinati dalle combinazioni di asset detenuti dagli investitori in crisi, costretti a vendite forzose.

Se si considera che, secondo le stime più recenti, ci sono circa 485 mila miliardi di dollari di strumenti derivati in giro per i mercati finanziari del globo (un valore superiore di otto volte al PIL mondiale), che la leva utilizzata dagli hedge fund è talora di cinque, dieci, venti a uno, e che del posizionamento di questi giocatori del mercato si sa ben poco, è evidente che, nei momenti di crisi – e cioè proprio quando serve – la gestione del rischio diventa una chimera. Chi vende questa idea, vende un’illusione.

Nati per coprire il rischio, i derivati hanno finito per amplificarlo, svelando la loro vera natura di “armi finanziarie di distruzione di massa,” come Warren Buffett ammonì nella sua lettera agli investitori del 2003.

Diffidare delle correlazioni

Nel presentare le possibili soluzioni a uno stato di cose quanto meno inquietante, Bookstaber ammette, con una certa rassegnazione, che il “miglior consiglio” che si possa dare agli investitori è di non fare troppo affidamento sulle correlazioni, e cioè di non pensare di poter dipendere da hedging e diversificazione per tenere sotto controllo il rischio in tutte le circostanze.

E’ come dire di lasciar perdere il risk management e usare prudenza e buon senso – virtù umane ormai rare nel freddo e spesso automatico inseguirsi di formule matematiche che la fa da padrone sui mercati finanziari.

Per le autorità di mercato, Bookstaber ha consigli più specifici: a) imporre limiti alla leva finanziaria degli operatori; b) imporre limiti all’innovazione finanziaria nel campo dei derivati, che aggiungono complessità e dunque rischio al mercato; c) aumentare la trasparenza rendendo obbligatoria la raccolta di dati su posizionamento e leva degli operatori.

Crisi episodiche o crisi sistemica?

C’è, infine, anche una buona notizia. Una caratteristica di queste crisi di mercato, nell’era dei derivati, è per Bookstaber il fatto di essere tanto caotiche quanto di breve durata. Per l’investitore che ha un orizzonte temporale di lungo periodo, e che si può permettere di osservare le turbolenze con distacco, senza essere costretto a liquidare asset nel momento peggiore, “non dovrebbero esserci problemi.”

Vedremo, in un prossimo post, che questa consolante conclusione è il punto su cui meno si trova d’accordo l’altro nostro esperto, Satyajit Das. Per Das gli eccessi degli ultimi anni, quella che lui chiama “la fabbrica della liquidità”, avranno un esito obbligato, per niente confortante: un bear market di lunga durata e di epiche proporzioni.

L’economia Usa e lo spettro della recessione

Ho scritto qualche giorno fa, nel post Mercati azionari e rischi di recessione, perché sia importante cercare di capire quanto sia grave il rallentamento in corso dell’economia americana. Due grafici, che riprendo dall’ottimo lavoro del team di macroeconomisti di Northern Trust, consentono di riassumere, nel modo più breve ed efficace, lo stato della congiuntura. Il mercato della casa, che è stato il vero driver dell’espansione Usa dell’ultimo quinquennio, è entrato in una profonda crisi. La bolla speculativa è scoppiata.

Le scorte di case invendute si sono impennate ai livelli più alti da 16 anni e continuano a crescere, esercitando ulteriori pressioni al ribasso sui prezzi, già inabissatisi dai tassi di crescita superiori al 15% di un biennio fa all’attuale -3,9% annuo (vedi grafico).

C’è chi pensa che i prezzi medi delle case siano destinati a flettere del 20-30% prima che il mercato tocchi il fondo. La crisi, cioè, è ancora agli inizi. Quello che è già evidente è che il collasso del settore immobiliare è il più grave dalla depressione degli anni ’30. Che questo basti a gettare la poderosa economia Usa nella recessione non è scontato. Per ora le famiglie americane hanno cominciato a stringere i cordoni della borsa ma non al punto da mandare in stallo la crescita.

L’indicatore che ci consente meglio di capirlo è il LEI (Index of Leading Economic Indicators), qui in Italia noto come superindice economico.

E’ un indicatore composito, che condensa l’andamento di dieci diversi parametri, reali e finanziari – dalla massa monetaria ai prezzi azionari, dai permessi di costruzione agli ordini manifatturieri e alle richieste di sussidi di disoccupazione.

Il LEI, ingiustamente sottovalutato dai media finanziari e anche da molti operatori di mercato, ha dimostrato nel tempo di saper correttamente predire, con circa un trimestre d’anticipo, l’evoluzione del Pil.

Come evidenzia il grafico qui sotto, il tasso di variazione annua del LEI (che è il dato significativo, e non si capisce perché i media finanziari si ostinino a puntare i riflettori sul più erratico dato mensile) ha anticipato, con l’unico falso segnale del 1966, tutte le recessioni (nel grafico sono le barre di colore grigio) degli ultimi 50 anni. Per ora, come osserva Asha Bangalore di Northern Trust, il LEI lascia presagire un periodo di bassa crescita, ma non il baratro della recessione.

Il mercato delle idee: mutui, tassi e CDO

Nel mercato delle idee espongo idee altrui che trovo stimolanti. In vetrina, oggi, ci sono John Hussman che giudica sopravvalutati e ipercomprati i mercati azionari, Bill Gross che prevede il diffondersi delle insolvenze sui mutui con la Fed costretta a tagliare i tassi a breve ma gli spread in aumento, e poi Paul Kasriel al quale appare sempre più difficile che sia evitata una recessione negli Usa. Controcorrente resta l’opinione di Ken Fisher, che giudica il pessimismo dei media come uno dei migliori indicatori contrari.

Mercati azionari troppo rischiosi

John Hussman suona l’allarme, e non per la prima volta. Cosa caratterizza il mercato azionario di oggi (o quanto meno, il benchmark per eccellenza, e cioè l’S&P 500)? Il fatto di quotare a un multiplo del picco ciclico degli utili superiore a 18, di essere ai massimi dell’ultimo quadriennio, di trovarsi oltre l’8% sopra la media mobile esponenziale a 52 settimane, in un contesto di rendimenti obbligazionari in ascesa.

Ci sono stati altri momenti, negli ultimi 50 anni, in cui l’S&P 500 ha affrontato un’uguale costellazione di fattori?

Sì, è accaduto altre sette volte e con questi esiti: nel dicembre 1961, quando il mercato perse poi il 28% in 6 mesi; nel gennaio 1973, quando seguì un crollo del 48% in 20 mesi; nell’agosto 1987, quando la caduta fu del 34% in tre mesi; nel luglio 1998, quando l’indice scese del 18% in tre mesi; nel luglio 1999, quando la flessione fu del 12% in tre mesi; nel dicembre 1999, quando il calo fu del 9% in due mesi; e infine nel marzo 2000, quando, come molti ricorderanno, iniziò un bear market che portò l’S&P 500 a dimezzare il suo valore nell’arco di 30 mesi.

Osserva Hussman che a voler rendere il confronto più selettivo, si potrebbe aggiungere un indicatore di sentiment, e cioè il fatto che, al momento, meno del 20% dei consulenti d’investimento sondati da Investors’ Intelligence si dichiara bearish (pessimista). Con questo quinto elemento descrittivo, i precedenti si restringono al gennaio 1973 (-48%) e all’agosto 1987 (-34%).

Hussman mette in chiaro che la sua non è una previsione, ma una semplice constatazione: il mercato di oggi è così sopravvalutato e ipercomprato da offrire una combinazione di rischi e rendimenti attesi estremamente sfavorevole.

Crisi del mattone e contagio

Per qualche settimana il mercato ha temuto che le difficoltà dei due fondi di Bear Stearns, messi in ginocchio da scommesse sbagliate nell’opaco mondo dei CDO, dessero il via a un effetto domino tra altri hedge fund e i broker primari che prestano loro ingenti quantità di denaro. Poi un salvataggio da 3 miliardi di dollari messo rapidamente in atto da Bear Stearns ha calmato gli animi.

Ma Bill Gross si chiede se siano davvero questi i rischi da cui gli investitori si devono guardare. La sua risposta è che il vero contagio è in arrivo da un’altra direzione, e cioè dalla marea di mutui ipotecari, a tasso variabile e (sino a oggi) a condizioni di estremo favore, che in America saranno soggetti a revisione nei prossimi mesi.

Stima Bank of America che si tratta di 500 miliardi di dollari di mutui nel 2007 (con una revisione media al rialzo del tasso applicato stimata in 200 punti base) e di 700 miliardi nel 2008, di cui circa i tre quarti sono subprime, riguardano cioè debitori di bassa qualità.

La catena di eventi che si sta mettendo in moto, per Gross, è chiara: le insolvenze, che tra i mutui subprime sono già al 7% del totale, si moltiplicheranno; e la crisi si diffonderà ben oltre il mercato subprime.

I prezzi delle case scenderanno ancora. La disponibilità di credito diminuirà. Molti investitori in CDO che ora vantano rating di BBB o anche A si ritroveranno in mano dei pezzi di carta senza valore. E gli spread, anche nei mercati apparentemente meno correlati a quello americano, punteranno al rialzo mentre la liquidità eccessiva, di cui oggi tutti parlano, diventerà un ricordo.

E’ possibile che tutto questo prenda le forme di un semplice ritorno alla razionalità piuttosto che di una crisi globale. Ma Gross prevede che in ogni caso, per assicurarsi contro il montare dei rischi, la Federal Reserve comincerà nei prossimi sei mesi a tagliare i tassi a breve.

Esuberanza contenuta

Per Mark Hulbert, analista di lungo corso del sentiment del mercato (è dal 1980 che tiene sott’occhio le raccomandazioni di 160 newsletter finanziarie americane), gli umori non sono ancora quelli tipici di un top delle Borse.

L’ottimismo è tutt’altro che pervasivo, come rivela l’Hulbert Stock Newsletter Sentiment Index (HSNSI), un indicatore che condensa il sentiment di quegli autori di newsletter che praticano strategie di market timing di breve termine. L’HSNSI segnava 40,6% verso la fine della settimana scorsa, rispetto al 62,4% dei massimi di fine febbraio.

L’analisi contraria rivela dunque come manchi quell’“esuberanza irrazionale” che si manifesta tipicamente alla fine di un bull market. Le Borse, per Hulbert, possono ancora salire.

L’incoraggiante pessimismo dei media

Ken Fisher, che nel 2000 diventò bearish e dall’estate del 2002 tornò a essere bullish, resta molto ottimista sulle prospettive dei mercati azionari. E quali sono i motivi, che cita nel suo ultimo articolo per Forbes?

Intanto, il fatto che i media, a larga maggioranza, non hanno mai creduto al bull market iniziato quasi 5 anni fa e continuano a non crederci, ammonendo a ogni passo che gli utili record sono insostenibili e che il mercato, dall’alto dei nuovi massimi di questi giorni, è costoso. Finchè l’ultimo di questi “Orsi” non sarà diventato “Toro”, le Borse, per Fisher, continueranno a salire.

Quanto ai più fondamentali problemi valutativi, Fisher osserva che il mercato è molto meno costoso che nel 2000. I nuovi massimi recenti sono apparenti, dato che non tengono conto dell’inflazione. In termini reali l’S&P dovrebbe toccare quota 1800 prima di stabilire davvero un nuovo record. Inoltre, dal 2000, gli utili sono saliti del 57%. E per quanto i paventati rischi di insostenibilità possano anche essere fondati, non c’è segno che un’inversione del trend sia imminente.

Consumatori alle strette

Paul Kasriel di Northern Trust analizza la brusca decelerazione delle vendite al dettaglio negli Usa. In termini reali, il dato del secondo trimestre potrebbe segnare un calo del 4,9% annualizzato, dopo la crescita del 2,5% del primo trimestre.

Nel complesso, i consumi privati, nel trimestre da poco concluso, faticheranno a raggiungere un tasso di crescita dell’1%-1,5% rispetto all’ancora esuberante +4,2% del primo trimestre. Bisogna essere ciechi per non vedere che il collasso del mercato della casa sta “strangolando” le famiglie americane, sostiene Kasriel.

Né è sensato lasciarsi illudere dai segnali positivi che sono venuti di recente dai sondaggi sulla fiducia dei consumatori. Uno studio della Federal Reserve di Filadelfia ha infatti dimostrato che l’andamento del sentiment non ha alcuna valenza predittiva in relazione ai consumi.

Senza una riduzione dei tassi la recessione sarà difficile da scongiurare. E’ una conclusione a cui Kasriel si aspetta che arrivi anche la Federal Reserve, ma non prima dell’incontro del FOMCdel 31 ottobre, quando saranno diffuse anche le prime stime sul Pil del terzo trimestre. E quando potrebbe essere ormai troppo tardi per evitare il peggio.

Un sistema di disequilibrio instabile

Nouriel Roubini si interroga sulle prospettive del sistema di cambi semi-fissi, ancorati al dollaro, instaurato nell’ultimo decennio da molti paesi emergenti dell’Asia, e in parte responsabile per i crescenti squilibri delle bilance dei pagamenti a livello globale (il cosiddetto Bretton Woods 2, o BW2).

Gli Usa, la prima economia al mondo, ne sono diventati anche il maggiore debitore, con disavanzi che vengono sempre più finanziati dalle banche centrali asiatiche a tassi particolarmente bassi. Nel 2006 il deficit delle partite correnti americano ha toccato gli 811 miliardi di dollari, pari al 6,1% del PIL. E il dato è destinato a crescere nel 2007.

I paesi emergenti dell’Asia hanno tratto vantaggio dall’ancoraggio al dollaro debole perchè i tassi di cambio molto sottovalutati hanno consentito l’accumulo di ingenti riserve valutarie e il perseguimento di aggressive politiche di crescita economica e di industrializzazione basate sull’export.

Ma per Roubini BW2 si sta tramutando da un sistema di “disequilibrio stabile”, come molti l’hanno definito, a uno di pericoloso disequilibrio instabile. Già diversi paesi asiatici lo hanno abbandonato. E altri lo faranno, perchè i suoi limiti, in termini di surriscaldamento economico, rischi d’inflazione e bolle sui mercati finanziari, si stanno facendo sempre più evidenti.

 

La prima bolla davvero globale

Ho già accennato, nei post Analisi strategica del ciclo e Utili record e utili normalizzati, perché i mercati azionari siano da giudicare sopravvalutati e come lo scoppio della bolla dei titoli TMT, tra il 2000 e il 2002, sia stato seguito dal gonfiarsi di svariate altre bolle nei settori più disparati (immobiliare, private equity, mercati del credito, Cina, etc). Dei boom e dei crolli di mercato, dal 2000 a oggi, si è ovviamente scritto molto, a partire da Euforia irrazionale di Robert Shiller, un libro tempestivo e lungimirante uscito negli Usa a inizio 2000. Vorrei qui soffermarmi su due lavori più recenti, utili per cercare di capire le bolle di oggi e opera di due grandi e saggi investitori: Jeremy Grantham e Marc Faber.

Nella sua Quarterly Letter del mese scorso, Grantham, fondatore del gruppo GMO e uno dei più noti value investor anglo-americani, ci aiuta a definire i termini del problema. Le due “condizioni necessarie” per il formarsi di una bolla, scrive Grantham, sono l’esistenza di fondamentali economici “per lo meno eccellenti, e preferibilmente quasi perfetti”, e un’offerta di liquidità “generosa e a buon mercato.”

Entrambe le condizioni sono presenti, ormai da qualche tempo, a livello globale. E il risultato è stato il diffondersi di “spiriti animali” molto vigorosi, premi per il rischio eccezionalmente bassi, bolle varie che “si rinforzano dovunque l’una con l’altra,” tanto da arrivare a creare la prima bolla davvero globale nella storia dei mercati finanziari.

La conseguenza più rilevante e paradossale della sopravvalutazione di tutte le principali classi d’attivo (azioni, obbligazioni, real estate) è che l’abituale esercizio di previsione dei ritorni attesi a 7 anni, che GMO aggiorna ogni semestre (ipotizzando il raggiungimento, a fine periodo, del fair value) dà, per la prima volta, rendimenti attesi maggiori per la liquidità rispetto a qualsiasi altra combinazione di asset rischiosi. Come nota ironicamente Grantham, chi investe oggi “paga per il privilegio di assumersi dei rischi!”

In attesa dello scoppio della bolla

Le conclusioni sono intrise di realismo. Siccome “ogni bolla è sempre scoppiata,” anche questa lo farà, interessando, vista la sua natura globale e la crescente correlazione di tutti i mercati, “tutti gli asset in un po’ tutti i paesi, con la probabile eccezione delle obbligazioni di alta qualità.” L’aspetto più imprevedibile, come sempre, riguarda la tempistica. E dato che una delle caratteristiche di molte bolle è stata quella di concludersi con una “fase esponenziale” di drammatici rialzi in breve tempo, che forse non ha avuto ancora luogo, è possibile che per gli investitori “prudenti o pessimisti” ci sia ancora da sopportare non poca frustrazione nell’astenersi dal partecipare all’euforia collettiva.

Il consiglio di Grantham è di trascorrere questo tempo analizzando quali siano state le parti dei nostri portafogli a soffrire i colpi più pesanti negli improvvisi ribassi del febbraio scorso e del maggio di un anno fa. Lì si nascondono fragilità che potrebbero non reggere al botto ben più fragoroso con cui si annuncerà lo scoppio della “bolla globale”. Un esempio? Un anno fa i mercati azionari emergenti, in presenza dei fondamentali migliori della loro intera storia, patirono un calo del 25% in tre settimane. “Quale avrebbe potuto essere il ribasso a seguito di cattive notizie?,” si chiede Grantham. “Forse il 50% in tre settimane?”

Strategie in tempi di euforia finanziaria

Alla saggezza di Grantham fa il paio quella di Faber, che nei primi capoversi del capitolo “Nuove ere, manie e bolle” del suo eccellente libro Tomorrow’s Gold, Asia’s age of discovery offre due essenziali consigli “strategici” su come far fronte all’euforia dei mercati. La traduzione che segue è mia:

“[…] E’ importante capire che mentre le recessioni, depressioni e crisi offrono grandi opportunità d’investimento, le manie presentano di solito delle occasioni uniche per vendere. Benché l’ideale per l’investitore sarebbe di partecipare alla mania proprio fino al suo culmine, dato che la fase finale è di solito la più parossistica, dovrebbe risultare ovvio che non sarà mai possibile che tutti gli investitori escano dal mercato esattamente ai massimi. Tuttavia, nel momento in cui una mania prende piede, il punto in cui un investitore decide di vendere non è poi così importante. Non sono infatti al corrente di nessuna mania in cui il mercato non abbia in seguito ceduto tutti i guadagni accumulati negli anni dell’ascesa verso il picco, e anche qualcosa in più.”

Riassumendo, i due consigli “strategici” sono:

a) se siamo in una bolla, dobbiamo pensare a vendere, non a comperare;

b) se siamo in una bolla, “quando” vendere non è poi la domanda migliore. E’ possibilissimo che chi vende veda poi il mercato accelerare al rialzo. Ma non ci dovrebbero essere motivi di rammarico. La domanda giusta è infatti: “Sarò in grado di riacquistare a prezzi più bassi?” E se siamo in una bolla, la risposta è senz’altro sì.

L’accortezza, in questo approccio agli investimenti, è duplice. Si tratta di prestare sempre attenzione alle valutazioni, chiedendosi: “siamo o non siamo in una bolla?” E di operare sempre in un orizzonte di lungo periodo, che abbracci l’intero ciclo dell’economia e dei mercati, chiedendosi: “oltre a cavalcare il bull market, sarò in grado di sopravvivere al bear market?”

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