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Qualche grafico sulla crisi dell’economia Usa

Dopo aver licenziato, un po’ frettolosamente, il mio post Recessione, Borse e ottimismo al Sole 24 Ore, mi sono imbattuto in diversi articoli interessanti che analizzano lo stato dell’economia Usa anche con l’ausilio di grafici più eloquenti di molte parole. Contestando la superficiale interpretazione data dal Sole 24 Ore ai dati macroeconomici americani della scorsa settimana, scrivevo domenica che le vendite al dettaglio erano apparse migliori del previsto solo a causa degli aumenti dei prezzi della benzina e dei beni alimentari. Quella che veniva spacciata per una tenuta dei consumi era solo inflazione.

Ho poi trovato il seguente grafico sul blog The Big Picture di Barry Ritholtz. E’ tratto da Haver Analytics e illustra l’andamento delle vendite al dettaglio in termini reali, depurati cioè dall’effetto distorsivo delle variazioni dei prezzi.

Come si vede, per la prima volta in questo ciclo, il tasso annuo di crescita è diventato negativo. E per Walter Riolfi de Il Sole 24 Ore questo sarebbe un motivo di ottimismo? Gli consiglio di leggersi il commento di Ritholtz: “(Il dato) suggerisce con forza che una recessione o è già in corso o è destinata a iniziare da un momento all’altro.”Nel mio post analizzavo poi la situazione del mercato del lavoro, che l’articolo de Il Sole 24 Ore trascurava di menzionare. Citavo, tra l’altro, il terribile rapporto sull’occupazione diffuso all’inizio del mese, la cui serie storica (con le variazioni mensili, in migliaia, a sinistra, e quelle annuali, in termini percentuali, a destra) è rappresentata nel grafico qui sotto, a cura di Barron’s Econoday, e tratto di nuovo da The Big Picture.

Il calo di 17 mila occupati a gennaio (il dato più negativo dall’agosto del 2003) è stato non solo molto al di sotto delle attese di consenso, ma anche peggiore della più pessimistica tra le stime formulate in precedenza dagli 80 analisti interpellati da Bloomberg.Nel mio post di domenica, non citavo invece – perché lo speranzoso articolo de Il Sole 24 Ore non me ne aveva offerto l’opportunità – il sondaggio ISM sul settore dei servizi, pubblicato all’inizio del mese.

Si è trattato del dato macroeconomico che di recente ha creato più sconquasso sui mercati, provocando un brusco calo delle Borse di un paio di punti percentuali – e per buoni motivi.

L’indice ISM è costruito in modo tale per cui il livello di 50 fa da spartiacque tra espansione e contrazione. Si tratta – ricordiamolo – di un affidabile sondaggio tra i responsabili degli acquisti di imprese operanti nel settore dei servizi, che rappresenta oltre l’80% dell’economia americana.

Le attese di consenso prevedevano una lieve flessione dal 53,9 di dicembre al 52,5 di gennaio. Il risultato è stato invece di 41,9, come indica il seguente grafico della Federal Reserve di St. Louis:

E’ il dato peggiore dall’ottobre 2001, subito dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre – quando l’economia Usa già era in recessione. Il crollo di 12,5 punti in un solo mese non ha precedenti nella storia dell’indice.

Nessuna componente dell’ISM ha offerto il benché minimo motivo di conforto. Tra i molti dettagli preoccupanti, su uno in particolare si è soffermato Paul Krugman (nella foto in alto) nel suo blog The Conscience of a Liberal. Il sotto-indice relativo all’occupazione è sceso dal 52,1 di dicembre a 43,9. Indica dunque che gli occupati nel settore dei servizi hanno iniziato a contrarsi. Ma di quanto? C’è un modo per stimarlo?

Krugman ha costruito una matrice dove ogni dato mensile della componente occupazione dell’indice ISM – dal luglio 1997 – è stato incrociato con il saldo pubblicato nel rapporto sull’occupazione del mese successivo.

Il risultato è quello che segue (i dati ISM sono sull’asse orizzontale, i risultati del rapporto sull’occupazione del mese successivo – espressi in migliaia di unità – sull’asse verticale):

La prima cosa che si nota è che la relazione è alquanto stabile: l’ISM ha cioè una notevole capacità predittiva dell’andamento reale del mercato del lavoro.

La seconda cosa ce la dice Krugman: il 43,9 del sotto-indice ISM corrisponde a una perdita, nel rapporto sull’occupazione del prossimo mese, di 137 mila posti di lavoro (dopo l’inatteso calo di 17 mila unità annunciato all’inizio di questo mese).

Il numero, naturalmente, è solo frutto di un calcolo statistico su dati del passato. Non va preso troppo alla lettera. Ma c’è di che tremare. “Se il dato ISM non è del tutto sballato – conclude Krugman – siamo già in piena recessione.”

Nel mio articolo di domenica, infine, non ho parlato del mercato della casa – di nuovo perché la rubrica de Il Sole 24 Ore non ne faceva cenno.

Ma sappiamo come i guai dell’economia Usa proprio da lì traggano origine. E’ allora importante chiedersi: come va il mercato della casa? C’è almeno qualche segno di stabilizzazione, dopo il collasso dell’ultimo anno?

No, il mercato della casa continua a peggiorare, come mettono in chiaro due grafici tratti dal blog Think B.I.G. di Bespoke Investment Group.

Il primo ci mostra il più recente aggiornamento (relativo al novembre scorso) dell’indice S&P/Case-Shiller sull’andamento dei prezzi degli immobili nelle dieci principali aree urbane americane: dal picco registrato nella seconda metà del 2006 i prezzi segnano un calo medio del 9,4%. Mese dopo mese, la flessione si va accentuando.

Quel che è più grave, le aspettative continuano a deteriorarsi, come evidenzia la tabella qui sotto, che sintetizza l’andamento dei contratti future, con scadenza novembre 2008, scambiati al Chicago Mercantile Exchange (CME).

Al momento, i contratti scontano che a novembre la flessione annua dei prezzi (annua e non dal punto di massima, come nel primo dei due grafici di Think B.I.G.) sarà, nella media (Composite 10), del 9,89%. Questa previsione – come indica l’ultima colonna – è peggiorata del 6,67% negli ultimi tre mesi!

“Spiragli di ottimismo”, scriveva il Sole 24 Ore. Ma dati alla mano, appare evidente come solo l’export regga ancora. Per il resto, mercato della casa, consumi delle famiglie, servizi e occupazione sono o stanno entrando in una crisi sempre più cupa.

Recessione, Borse e ottimismo al Sole 24 Ore

La rubrica Settimana finanziaria del Sole 24 Ore, a firma di Walter Riolfi, annunciava ieri – nel suo titolo – la comparsa di “Spiragli di ottimismo sui mercati.” L’occhiello chiariva che “tra gli operatori si attenuano i timori di recessione”, anche se il sottotitolo metteva in guardia come “la crisi del credito è lungi dall’essere conclusa e può frenare i consumi delle famiglie.” Rimproverandomi per le distrazioni che mi avevano impedito di condividere, nel corso della settimana, il più sollevato stato d’animo diffusosi a Il Sole 24 Ore, mi sono tuffato nella lettura dell’articolo.

Ho così appreso, tra l’altro, che:

a) la scorsa settimana “s’è parlato un po’ meno di recessione economica”;

b) i dati macroeconomici Usa dell’ultima settimana “sembrerebbero scongiurare l’evenienza estrema” (la recessione, ndr): vendite al dettaglio, produzione industriale e bilancia commerciale sarebbero infatti state un po’ superiori alle attese;

c) la Federal Reserve, dopo aver contemplato dieci giorni fa, per bocca di un suo esponente, uno scenario di recessione, si è mostrata “molto più cauta”. Il suo presidente Ben Bernanke, in particolare, ha previsto semplicemente una “crescita da lumaca” e poi un “andamento più sostenuto” verso fine anno;

d) Riolfi in persona è stato in questi mesi “poco convinto dell’imminente recessione Usa” e continua a esserlo, anche se resta “piuttosto scettico” sull’eventualità di una “forte ripresa” nella seconda metà dell’anno. Un “prolungato rallentamento economico negli Usa e in parte in Europa” è il suo scenario preferito. E come mai? Perché “la crisi del credito è lungi dall’essere conclusa […] e un credito ridimensionato significa pure un rallentamento dei consumi […]”;

e) infine, sempre Riolfi, rincuorato dal fatto che il suo cauto ottimismo sul fronte macroeconomico sembra finalmente diffondersi anche al di fuori delle stanze de Il Sole 24 Ore, si dichiara fiducioso sulle prospettive del mercato azionario. Magari non ci sarà un’inversione a “V” delle Borse (e cioè un rally altrettanto esplosivo quanto repentina è stata la caduta dai massimi). Ma “si dovrebbe vedere un buon recupero di parecchi titoli (specie medie capitalizzazioni) industriali, utility, tecnologici, le cui quotazioni sono state falcidiate.”

Ritorno alla realtà

Finita la lettura, mi sono stropicciato gli occhi. E ho cercato di ritornare con i piedi per terra.

Naturalmente, io non so cosa faranno le Borse nei prossimi mesi: inversione a “U”, “V”, “W”, o un altro tonfo del 20%. Né penso di sapere quali saranno i settori migliori. E non capisco come faccia Riolfi a prevedere scintille per i “falcidiati” titoli industriali, tecnologici e dei servizi di pubblica utilità.

Proprio a fianco all’articolo, il Sole 24 Ore pubblicava ieri una tabella con gli andamenti dei 18 macrosettori del mercato europeo, da cui era facile vedere come nell’ultimo anno utility, industriali e tecnologici hanno fatto tutti molto meglio dell’indice generale DJ Stoxx. Le utility, in particolare, sono state uno dei soli tre comparti a far registrare un andamento positivo (+3,8%) a 12 mesi. Dov’è la falcidie?

Purtroppo, l’abbozzo di analisi macroeconomica su cui poggiava l’articolo non era molto più accurato. Ed è su questo che vorrei concentrarmi, visto che è da qui che Riolfi sembra far discendere le positive aspettative di mercato propagate poi dalle pagine di un giornale influente come Il Sole 24 Ore.

Mi sono chiesto: ma è vero che i timori di recessione, tra gli operatori, si sono attenuati?

Per cercare di capirlo, sono andato a vedere un indicatore sintetico e sensibile, che consente di fare un’accettabile valutazione, e cioè il contratto US.recession.08 scambiato sul mercato di Intrade (di cui ho già diffusamente parlato nel post Mercati predittivi e recessione negli Usa).

Ecco il grafico:

Com’è evidente, dopo essersi impennato a partire dalla metà di ottobre (quando Wall Street cominciò la sua picchiata dai massimi), il contratto, da un mese circa a questa parte, si è stabilizzato in una stretta forchetta tra il 62% e il 70% di probabilità di recessione: insomma, due probabilità su tre – un livello molto elevato.Gli “spiragli” di ottimismo sono dunque da ieri visibili ai lettori del Sole 24 Ore, ma restano invisibili ai comuni investitori.

Bernanke: parole e fatti

Né ha senso farsi forza con le parole di Bernanke. Il suo ruolo istituzionale gli impone di seminare cautela quando c’è troppo ottimismo, e rassicurazioni quando si diffonde il timore.

A parole, un presidente della Fed non potrà mai permettersi di prevedere una recessione: verrebbe prontamente e giustamente accusato di contribuire a provocarla.

Nei fatti, i recenti interventi di politica monetaria, con tagli ai Fed Funds di 225 punti base negli ultimi 5 mesi, anche mediante il ricorso a procedure d’urgenza, bastano a evidenziare quanto i timori di recessione, alla Fed, siano elevati.

Dati macroeconomici da interpretare

Che poi “l’evenienza estrema” della recessione sia stata in qualche modo “scongiurata” dai dati macroeconomici dell’ultima settimana è un’interpretazione davvero curiosa.

L’articolo del Sole 24 Ore cita vendite al dettaglio, produzione industriale e bilancia commerciale. E già stupisce il fatto che non vengano citati dati, altrettanto recenti, ma eloquentemente negativi, come quelli sui sussidi di disoccupazione o sulla fiducia dei consumatori.

Vediamoli, nei grafici e nelle analisi di Northern Trust:

Il dato di giovedì ha fatto balzare la media mobile a 4 settimane delle richieste di sussidi di disoccupazione al livello di 347.250, il più alto dal giugno 2004. Il deterioramento, dagli inizi del 2006, non dà segni di tregua. Commenta Asha Bangalore di Northern Trust: “la debolezza del mercato del lavoro è persistente.”Naturalmente, le rilevazioni settimanali sui sussidi di disoccupazione integrano e aggiornano quella mensile sul mercato del lavoro nel suo complesso, l’ultima delle quali – diffusa il primo febbraio – ha offerto scoraggianti indicazioni.

Gli occupati a gennaio sono scesi di 17 mila unità e un indicatore importante come il rapporto tra quanti hanno perso il posto di lavoro nel corso del mese e il monte totale dei disoccupati nel settore civile è salito al 50,7% rispetto al minimo ciclico del 46,0% nel luglio 2006.

Come osserva Bangalore, ed evidenzia il grafico qui sotto (dove le fasce grigie rappresentano periodi di contrazione del Pil), un sensibile incremento di questo rapporto è tipicamente associato all’avvio di una recessione.

Curioso, dicevo, è anche il fatto che Riolfi non citi – tra i dati settimanali di un qualche interesse – quello sulla fiducia dei consumatori, diffuso venerdì. E’ stato peggiore del previsto, spingendo l’indice verso livelli molto più bassi di quelli della recessione del 2001 e paragonabili alla recessione del 1990-1991, come risulta chiaro dal grafico seguente, sempre tratto da Northern Trust:

Il sondaggio sulla fiducia dei consumatori non ha, dal punto di vista quantitativo, una stretta correlazione con l’andamento della spesa per consumi. Ma dal punto di vista qualitativo, è ovvio che un così marcato deterioramento può solo preoccupare.Tanto per cominciare, getta un’ombra sulla meno recente rilevazione relativa alle vendite al dettaglio di gennaio, che nel suo articolo Riolfi si sforza di presentare come una sorpresa positiva.

In verità, il frazionale incremento fatto segnare dalle vendite il mese scorso (+0,3%) è interamente ascrivibile all’aumento dei prezzi di prodotti alimentari e benzina (dunque, non delle quantità vendute). Ed è stato accompagnato da una revisione al ribasso delle vendite nel quarto trimestre del 2007, che già sulla base della stima iniziale erano state le meno dinamiche dalla fine del 2001 (quando l’economia Usa stava uscendo dalla recessione).

I bilanci in crisi delle famiglie Usa

Le vendite al dettaglio rappresentano poi solo una parte dei consumi complessivi delle famiglie, ed è sui secondi più che sulle prime che vale la pena concentrare l’analisi – come fa Paul Kasriel, chief economist di Northern Trust, nel suo ultimo Outlook mensile, pubblicato il 4 febbraio.

La motivata convinzione di Kasriel è che gli Usa siano con ogni probabilità già entrati in recessione (i dati ufficiali, soggetti ad ampie revisioni, sono sempre qualche mese in ritardo). E che a differenza del 2001, quando furono gli investimenti delle imprese a mettere in ginocchio l’economia, questa volta saranno i consumi delle famiglie a farlo – determinando una crisi di più difficile soluzione.

L’elemento di fondo, che Riolfi dimentica di menzionare nel suo articolo, è che le famiglie sono estremamente indebitate – per effetto della corsa all’acquisto di case, fin troppo incentivata dai tassi d’interesse negativi del triennio 2003-2005. Lo vediamo nel seguente grafico di Northern Trust, che mette in relazione l’indebitamento totale con il valore di mercato degli asset delle famiglie:

Il ricorso al credito non si è però tradotto solo nell’acquisto di case – mercato gonfiatosi a dismisura e che, com’è noto, sta ora contraendosi drammaticamente.

In parte ha infatti contribuito a spingere i consumi a livelli mai toccati prima in rapporto al reddito disponibile, come illustra il grafico seguente (PCE sta per spese per consumi personali mentre DPI significa reddito personale disponibile):

“La festa – osserva Kasriel – sta ora per finire.”

Non ci sono più aumenti dei prezzi delle case da utilizzare per avere maggiore, quasi indiscriminato accesso al credito. Al contrario, il collasso del mercato immobiliare ha messo in difficoltà tutto il settore finanziario, al punto che anche i tagli dei tassi a breve da parte della Federal Reserve, per un bel po’ di tempo, potranno fare ben poco per restituire dinamismo al credito.

Gravate di debiti, incapaci di accedere a nuovi crediti, anzi sotto pressione per ridurre una leva finanziaria eccessiva, le famiglie americane hanno nell’ultimo biennio fatto crescente ricorso – nel tentativo di fare quadrare i conti – alla cessione di altri asset finanziari, titoli azionari in particolare, che sono stati venduti al settore corporate.

Ma anche questa opzione, ora che le difficoltà delle Borse e la contrazione dei profitti aziendali impongono un freno a buyback e LBO, sta diventando sempre meno percorribile.

Resta una sola strada, conclude Kasriel, ed è la riduzione di livelli di consumo non più sostenibili.

Per tornare all’articolo di Riolfi, un altro dato che lui cita per illuminare i suoi “spiragli di ottimismo” è in fondo null’altro che l’ennesima dimostrazione di una domanda interna sempre più esangue.

“La bilancia commerciale è stata meno peggio del previsto,” scrive nel suo articolo. Ma vediamo il perché.

Le esportazioni a dicembre sono aumentate dell’1,5%, un dato positivo. Ma la vera ragione della sorpresa è stato il brusco calo delle importazioni, scese dell’1,1% dopo essere aumentate nei mesi precedenti.

Tutte le principali categorie di beni e servizi hanno mostrato il segno meno (a indicare una debolezza molto diffusa). E sul dato complessivo ha pesato in particolar modo il crollo delle importazioni di auto, scese del 9,4% su base mensile.

Il saldo commerciale migliora, dunque, perché la domanda interna è entrata in sofferenza, a partire dai beni più costosi e dove conta la disponibilità di credito, come l’auto.

Ovviamente, l’import è anche uno dei principali canali di trasmissione attraverso cui la crisi dell’economia Usa (e soprattutto dei suoi consumatori) si trasferisce all’estero, in un contagio ancora agli inizi.

“Spiragli di ottimismo” risulta a me difficile vederne. Una recessione negli Usa resta molto probabile ed è forse già iniziata.

Recessione e mercato azionario

Quanto al possibile impatto sui mercati azionari, scrivevo nel post Mercati azionari e rischi di recessione come in presenza di recessione i bear market americani dal 1950 a oggi abbiano avuto una durata media di 491 giorni – e cioè oltre un anno e quattro mesi. I massimi di questo ciclo sono stati toccati a Wall Street nella prima metà di ottobre, appena quattro mesi fa.

Se si prende la media come riferimento, e si assume, in linea col consenso e con l’evidenza dei dati, che una recessione americana è molto probabile, bisogna dunque mettere in conto – se non si vuole proprio essere degli sprovveduti – che il bear market azionario possa durare un altro anno.

Ci saranno dei rally, ma, in questo scenario, saranno dei bear market rally, cioè ritracciamenti in un trend ribassista o, in altre parole, trappole da evitare.

Naturalmente, le cose potrebbero andare diversamente. Magari anche per i motivi sbagliati, Riolfi potrebbe avere ragione. E se sarà così, sarò ben contento di riconoscerlo.

Come diceva Lord Keynes, “when the facts change, I change my mind. What do you do, sir?” (“quando i fatti cambiano, io cambio parere. E Lei, Signore, cosa fa?”)

La settimana scorsa, però, a dispetto degli “spiragli di ottimismo” annunciati dal Sole 24 Ore, i fatti non sono cambiati. Resto dunque del parere che ho già più volte espresso su questo blog, e ai miei lettori rinnovo l’invito a un’estrema prudenza.

P.S.: un’appendice a questo articolo – con altri grafici interessanti – può essere trovata qui.

Buffett, Gross e gli schemi di Ponzi delle banche

Gli analisti tecnici di Credit Suisse hanno messo in luce, in uno studio di questi giorni, tutta una serie di analogie nel comportamento dei mercati tra l’attuale crisi del credito e la crisi delle Savings & Loans (casse di risparmio) americane del 1990. Il movimento degli indici azionari, l’entità del crollo del settore finanziario (con perdite superiori al 50%, allora come oggi, per un titolo guida come Citigroup), persino l’andamento del prezzo del petrolio o le punte elevate di pessimismo nel sentiment degli investitori presentano, fin qui, molte somiglianze.

Se i parallelismi continueranno – conclude Credit Suisse – un fondo ai ribassi delle Borse dovrebbe essere toccato a febbraio, con un panic bottom in prossimità di quota 1300 per l’S&P 500.

L’inversione di rotta dovrebbe a quel punto essere segnalata dalla stabilizzazione prima, da un gran rally poi del settore finanziario.

Nei sei mesi successivi al raggiungimento dei minimi, nell’ottobre 1990, i titoli finanziari, pesantemente ipervenduti, segnarono un avanzamento del 50% risultando di gran lunga il settore migliore del mercato. Progressi quasi insignificanti furono invece fatti registrare dai leader della precedente fase di ribassi: telefonici, servizi di pubblica utilità, energetici.

Che dire? Questo genere di confronti piace molto agli analisti tecnici, forse anche perché produce grafici di grande impatto visivo. Ma il raziocinio e un po’ di esperienza me ne fanno diffidare.

I mercati finanziari e la crisi del credito di oggi sono troppo diversi da quelli del 1990 perché ogni apparente analogia nel comportamento di alcuni indicatori non si dimostri, a lungo andare, come in larga misura casuale.

C’è però un dato dell’analisi di Credit Suisse che mi pare più interessante e fondato. Senza una stabilizzazione e una ripresa del settore finanziario americano (l’epicentro della crisi di allora come di quella di oggi) è improbabile che i mercati azionari abbiano la forza di imboccare un trend rialzista.

In America come altrove, le banche sono troppo importanti per il buon funzionamento dell’economia e hanno un peso troppo rilevante negli indici di Borsa per pensare che senza il loro contributo la crisi possa essere lasciata alle spalle.

Grafici da brivido

Uno sguardo alla performance del settore bancario offre per ora scarso conforto.

Ecco quanto sta succedendo negli Usa, in un grafico realizzato grazie a StockCharts:


E quanto sta accadendo in Europa, in un grafico accessibile sul sito Stoxx.com (il settore bancario, confrontato all’indice Stoxx TMI, è indicato dalla linea più chiara):


Un’impressione se possibile ancora peggiore la dà il seguente grafico di lungo periodo, relativo ai titoli bancari americani, che Marty Chenard ha pubblicato sul sito Safe Haven qualche giorno fa:


Come si vede, il tracollo degli ultimi mesi ha prodotto la netta rottura di una trendline rialzista risalente addirittura al 1994.

La velocità e la profondità del movimento più che far presagire imminenti inversioni del trend, agitano inquietanti interrogativi sui rischi di un devastante crash. E richiamano alla mente un vecchio detto di Wall Street: le azioni, quando salgono, usano le scale, ma quando scendono, prendono l’ascensore (“a stock takes the stairs up, but the elevator down”).

I grafici di prezzo, naturalmente, ci raccontano solo dei movimenti di superficie. Non ci aiutano a capire se ci sia o non ci sia “valore” nei mercati. Per questo, bisogna guardare più in profondità, o ascoltare chi ha la capacità di farlo.

Buffett e le banche

Nel periodo di Natale mi era sfuggita. Ma fortunatamente, nei giorni scorsi, sono riuscito a ripescare dal mio Google Reader un’intervista della CNBC a Warren Buffett (nella foto in alto), del 26 dicembre.

Si tratta, come sempre, di un Buffett arguto, rilassato e divertente, che discute in primo luogo la sua acquisizione del gruppo Marmon (con la quale, dice, si è finalmente “guadagnato lo stipendio” per il 2007, visto che fino a Natale non aveva fatto altro che “bighellonare”!).

A un certo punto, l’intervista passa al tema del giorno, e cioè le banche.

Con diversi grandi gruppi intenti a fare pulizia nei conti, ad annunciare enormi svalutazioni di asset e a cercare di ricapitalizzarsi, a Buffett viene chiesto se non sia stato anche lui contattato, visto che è noto come nei bilanci di Berkshire Hathaway, la sua holding, ci siano 40 miliardi di dollari in cash, che attendono occasioni propizie per essere investiti.

Buffett conferma che sì, è stato avvicinato (“la gente conosce il nostro numero di telefono”) e gli sono state fatte delle proposte di investimento. Ma “we haven’t seen anything we want to move on […] so far we have not seen a deal that causes me to start salivating” (“Non abbiamo visto nulla su cui vogliamo muoverci…non ho ancora visto un affare che mi faccia venire l’acquolina in bocca”).

Nel settore bancario, insomma, per Buffett ci sono ancora più rischi che opportunità. Sommariamente, l’Oracolo di Omaha qualche motivo lo accenna: i problemi sono tali che “non possono essere risolti in un breve lasso di tempo”, certi utili messi a bilancio erano “illusori” e ora pulizia dovrà essere fatta, e questo significa che per un po’ di anni è probabile che alcune della grandi banche “non saranno in grado di riportare i loro profitti al top.”

Ingegneria finanziaria e nuovi prodotti derivati hanno spinto molti gruppi creditizi nei guai. E rimettere ordine non sarà facile.

Citando il Ceo di Wells Fargo, Buffett osserva: “I don’t know why the banks had to find new ways to lose money when the old ones were working so well” (“Non capisco perchè le banche abbiano dovuto andare in cerca di nuovi modi per perdere soldi quando quelli vecchi funzionavano così bene”).

Gross e le banche

Buffett non lo dice, ma è probabile che avesse in mente alcuni dei ragionamenti che un altro grande asset manager, Bill Gross di PIMCO, ha invece esplicitato nella sua ultima lettera mensile agli investitori.

L’enorme crescita di sempre più esotici prodotti derivati nel mercato del credito, finiti per lo più in pancia a quei nuovi, oscuri e poco regolati attori che vanno sotto il nome di conduits, SIVs e hedge funds (il cosiddetto “sistema bancario ombra”), ha finito in questi anni per assumere i tratti di una colossale fioritura di schemi di Ponzi, dove il gioco poteva durare finchè i mercati (e il credito) si espandevano.

Non ci sono, osserva Gross, solo i problemi risalenti al mercato della casa: i mutui subprime e le cartolarizzazioni, che per un po’ hanno consentito di ignorare o di oscurare i rischi impliciti in pratiche di credito immobiliare troppo disinvolte, ma che alla fine arriveranno a infliggere almeno 250 miliardi di dollari di perdite ai bilanci delle banche.

Un’altra bomba in attesa di scoppiare è quella dei Credit Default Swaps (CDS), derivati nati negli anni ’90 con finalità di assicurazione contro i rischi di insolvenza sui debiti societari.

Il mercato, che non è organizzato, e dove i rischi sono concentrati tra le due controparti di ogni contratto, è cresciuto a dismisura in questi ultimi anni di vacche grasse e liquidità a go go, raggiungendo, a fine 2007, un valore di 43 mila miliardi di dollari, pari – nota Gross – a oltre la metà degli asset del sistema bancario globale.

I CDS in genere non sono supportati da garanzie, né dall’accantonamento di riserve da parte del “protection seller”, e cioè la controparte (in genere una banca) che assicura contro il rischio di default.

Sono insomma andati configurandosi come un’industria assicurativa follemente speculativa, senza adeguati controlli e senza capitali messi a riserva nel caso di perdite.

Stima Gross che se i default su prestiti societari saliranno nel 2008 verso la media storica dell’1,25%, che è poi più o meno quanto prevedono Moody’s e S&P’s, le perdite a carico dei “protection seller” potrebbero ammontare ad altri 250 miliardi di dollari – facendo così raddoppiare l’entità del salasso ascrivibile alla crisi dei mutui subprime.

La conclusione di Gross è che il sistema bancario è miseramente sottocapitalizzato per far fronte al collasso di tutti questi “schemi di Ponzi.” Alcuni istituti salteranno, altri saranno ridimensionati. La forzata contrazione nell’attività di credito (credit crunch) renderà inevitabile una recessione.

Il “sistema bancario ombra” scomparirà e chi sopravvivrà – grazie anche agli energici interventi di politica monetaria e fiscale che le autorità metteranno in campo (Gross si aspetta i Fed Funds al 3% entro giugno) – si ritroverà in un sistema finanziario diverso, con nuovi rischi ma, sicuramente, meno effetto leva.

Dunque, riassumendo, per Buffett il fondo della crisi è ancora lontano e ci vorranno anni per completare il lavoro di pulizia. Per Gross è scoppiata una bolla epocale fatta di speculazioni e schemi piramidali che costringerà a ridisegnare il sistema finanziario americano e globale.

Per ogni investitore accorto non può che essere tempo di paziente attesa e grande cautela. Alla fine, per chi avrà saputo aspettare, le opportunità si ripresenteranno.

Ci salverà la Federal Reserve?

In tempi di difficoltà, investitori e operatori economici tornano a guardare, con un misto di ansia e speranzosa attesa, alla Federal Reserve, e la Federal Reserve non manca di far sentire le sue rassicurazioni. Il copione si è ripetuto giovedì scorso, quando Ben Bernanke (nella foto), in un discorso tenuto a Washington, ha riconosciuto che le prospettive per l’economia americana sono peggiorate, ma si è affrettato ad aggiungere che la banca centrale è “pronta a mettere in atto ulteriori, effettive (“substantive”) misure per sostenere la crescita e offrire assicurazione adeguata contro i rischi di downside”.

In linguaggio meno obliquo, la promessa è di tagli più sostanziosi al Fed Funds, il tasso a breve che in tre occasioni, tra settembre e dicembre, la Federal Reserve ha già provveduto a far scendere dal 5,25% al 4,25%.

Attese di questo genere, per la verità, sono andate montando sui mercati già dall’inizio della scorsa estate, come evidenzia il grafico seguente, che mostra il prezzo del future sul Fed Funds con scadenza gennaio 2009.

Se a giugno si prevedevano tassi a breve stabili al 5,25% per i 18 mesi successivi, ora la scommessa è di un Fed Funds al 2,5%. Il mercato sconta, cioè, riduzioni di altri 175 punti base entro il gennaio prossimo.Basta questo per pensare che una recessione possa essere evitata e che le Borse riescano a sfuggire alla morsa del bear market?

Tassi d’interesse e cicli di mercato

Un detto da sempre popolare a Wall Street è “Don’t fight the Fed”: “non lottare contro la Federal Reserve.” Il senso è che condizioni monetarie restrittive sono ostili ai mercati azionari, mentre condizioni espansive sono favorevoli alla ripresa tanto del ciclo economico che dei corsi di Borsa.

Se però tale detto non è stato poi tanto invocato negli ultimi mesi, un motivo c’è: nell’ultimo ciclo ribassista, tra il 2001 e il 2002, chi vi aveva fatto affidamento andò incontro a brucianti perdite.

La manovra di riduzione dei tassi orchestrata allora dal “Maestro” Alan Greenspan a partire dai primi giorni del gennaio 2001 non riuscì a evitare né la recessione economica nel secondo e terzo trimestre di quello stesso anno, né un bear market azionario che proseguì con asprezza sempre più brutale fino all’autunno dell’anno seguente.

Un’analisi che circolò allora diffusamente tra gli operatori di mercato fu quella prodotta, nel marzo 2001 (in occasione del terzo taglio ai Fed Funds di quel ciclo), da Ned Davis Research, uno dei migliori e più prestigiosi centri di ricerca e “market timer” americani.

Lo studio metteva in luce come, in 12 delle 13 occasioni precedenti, nei cicli susseguitisi dal 1921 in poi, la terza riduzione del costo del denaro era stata decisiva nel risollevare il mercato azionario: tre, sei, dodici mesi dopo quel terzo taglio Wall Street aveva fatto segnare performance positive, con un guadagno medio che, nell’arco di un anno, era stato superiore al 20%.

L’unica eccezione? Il crollo del 1929. Dopo la terza riduzione dei tassi da parte della Federal Reserve, il Dow Jones aveva allora continuato a franare, perdendo un altro 36% nei 12 mesi successivi.

A posteriori si è visto come l’eccezione del 1929 si sia sostanzialmente ripetuta col devastante scoppio della bolla dei titoli tecnologici tra il 2001 e il 2002. I tagli dei tassi da parte della Federal Reserve continuarono fino al giugno del 2003, e solo a quel punto consentirono finalmente il consolidarsi di aspettative di ripresa.

E oggi? Il ciclo ribassista appena iniziato costituirà un ritorno alla regola (“Don’t fight the Fed”) o una nuova eccezione?

Tassi, valutazioni e curva dei rendimenti

L’amara lezione del passato bear market ha spinto gli analisti migliori verso maggiori livelli di sofisticazione, che riflettono anche la crescente complessità di mercati finanziari sfuggiti di mano, negli ultimi anni, allo stretto controllo delle banche centrali.

Di una delle più autorevoli di tali analisi, a cura di William Hester di HussmanFunds.com, riferivo a ottobre nel post Borse, tassi e bufale a mezzo stampa, che invito a rileggere.

Riassumendo le conclusioni di quello studio, scrivevo allora così:

Tre sono le osservazioni da fare:

a) le performance migliori – spesso addirittura esplosive – il mercato azionario le ha offerte in reazione a riduzioni dei tassi che avevano luogo in un contesto di valutazioni depresse (P/PE inferiore a 15), tipicamente verso la fine di un bear market (PE sta per Peak Earnings, e cioè utili al picco del ciclo, una misura “normalizzata” degli utili ideata da John Hussman);

b) in subordine, performance positive si sono registrate quando una curva dei rendimenti positivamente inclinata (con tassi a lunga più alti dei tassi a breve) segnalava attese di una ripresa del ciclo economico;

c) diverso è stato l’esito quando le valutazioni erano elevate e i tagli dei tassi a breve hanno coinciso o fatto seguito a una fase di inversione della curva dei rendimenti che segnalava attese di stagnazione o recessione: i ritorni del mercato sono stati negativi sia a 6 che a 12 o a 18 mesi (è stato così nel 2001-2002, ma anche nel ciclo di riduzioni dei tassi che accompagnò il bear market del 1968).

Quale di queste tre diverse tipologie è meglio applicabile alla situazione attuale?

Per Hester non ci sono dubbi. L’S&P 500 è scambiato oggi a 18,4 volte i Peak Earnings, un multiplo molto elevato anche se si rinuncia a normalizzare i livelli record dei margini di profitto (operazione che spingerebbe i multipli a livelli ancora più alti).

In secondo luogo, la curva dei rendimenti, nei mesi scorsi, è stata a lungo negativa, esprimendo attese di stagnazione e forse di recessione economica, non certo di ripresa. E’ tornata positiva solo di recente, quando il mercato ha cominciato a scontare una drastica riduzione dei tassi a breve.

Insomma, mercati azionari riccamente valutati e vicini ai massimi, in un contesto in cui i rendimenti obbligazionari segnalavano timori che una crescita vigorosa lasciasse il passo a una fase di debolezza economica, non hanno storicamente risposto bene all’avvio di un ciclo di riduzioni del costo del denaro da parte della Fed.

Era questa la situazione a cavallo tra il 2000 e il 2001. Ed è questa – se si sta ai tre parametri identificati da Hester – la situazione anche oggi.

Mercato casa e tassi

Allo scetticismo di Hester sulla possibilità che la Federal Reserve possa fare la differenza nell’attuale contesto di mercato si sono aggiunte, in questi giorni, le pessimistiche osservazioni di Paul Krugman sull’efficacia ridotta che lo strumento dei tassi a breve rischia di avere nella presente congiuntura economica.

In un post sul suo blog, The Conscience of a Liberal, Krugman osserva come il più importante canale di trasmissione della politica monetaria della Federal Reserve – molto più importante degli investimenti delle imprese – sia il mercato della casa.

Come mai? Per una questione di durata. Un mutuo per la casa può durare 30 anni, mentre per l’acquisto di macchinari un’impresa tipicamente si indebita a una scadenza attorno ai 5 anni. E se i tassi scendono dal 6% al 4%, la rata mensile per l’impresa scenderà appena del 5% ma quella del mutuatario del 20%.

La differenza è enorme e spiega perchè sia proprio il mercato immobiliare il settore dell’economia più sensibile alle manovre sul costo del denaro da parte della banca centrale.

In una recessione, dice Krugman, quello che tipicamente succede è che la Fed taglia i tassi, il mercato della casa si rianima, e da qui la ripresa della domanda si trasmette via via al resto dell’economia.

Ma si tratta di uno scenario realistico nella situazione di oggi? Per Krugman, niente affatto, visto che lo scoppio della bolla immobiliare è l’epicentro della crisi, e il ritorno a valutazioni realistiche appare ancora molto lontano, come dimostra il seguente grafico, a cura del Congressional Budget Office, sul rapporto tra prezzi e affitti (price-to-rent ratio):

Conclude Krugman: “E’ mai possibile che la Fed riesca a tagliare i tassi al punto da creare un altro boom immobiliare? […] E se non è possibile, quanto può davvero fare la Fed per aiutare l’economia?”

Può fare poco, sembra. Sia per sostenere i mercati che l’economia. Ma questa è la storia di tutte le bolle. Sono, purtroppo, eccezionali: nell’euforia che generano, e nelle depressioni che lasciano al loro passaggio.

Perché una recessione negli Usa è probabile

Per i mercati azionari le festività natalizie sono state portatrici più che altro di cattive notizie. Chi aspettava il rally di fine anno ha dovuto invece fare i conti con indici che sono tornati a testare i minimi di agosto e di novembre, sulla spinta di paure crescenti che una recessione negli Usa sia ormai inevitabile.

Il precario quadro tecnico è ben visibile nel seguente grafico settimanale dell’S&P 500:

E il motivo dominante è sinteticamente illustrato da un altro grafico che riporta le quotazioni del contratto USrecession.08, scambiato sul mercato predittivo di Intrade (di cui ho già scritto nel post Mercati predittivi e recessione negli Usa):

Il contratto esprime le probabilità assegnate dagli scommettitori al verificarsi di una recessione negli Usa nel 2008. Come risulta chiaro, tali probabilità si sono impennate da livelli poco inferiori al 50%, prevalenti tra novembre e dicembre, fino all’attuale 64%. Quali sono stati i motivi di una così rapida e drastica revisione delle aspettative?

Quelli facilmente quantificabili sono per lo meno tre, che vado a riportare in ordine cronologico.

Il 21 dicembre è stato pubblicato l’Index of Leading Economic Indicators (LEI) di novembre, in Italia noto come superindice economico. E’ il più affidabile degli indicatori anticipatori del ciclo economico americano.

Come scrivevo nel post Un bear market azionario è forse alle porte?, il LEI, con l’unica eccezione di un falso segnale nel 1966, ha correttamente segnalato, con un trimestre d’anticipo, tutte le recessioni Usa degli ultimi 50 anni.

Qual è dunque stato il suo più recente responso? Ecco il grafico, che traggo dalle analisi di Northern Trust (le fasce grigie indicano i periodi di recessione):

Dopo un flebile rimbalzo nel corso del terzo trimestre, l’indice è tornato a sprofondare con più decisione in terreno negativo.

Come nota Asha Bangalore di Northern Trust, cumulando il -0,5% di novembre con il -0,4% di ottobre si ottiene la più marcata flessione su base annua dal terzo trimestre del 2001, quando l’economia Usa era in recessione. Il messaggio, per Bangalore, è che “i rischi di condizioni economiche di notevole debolezza stanno rapidamente aumentando.”

Il secondo motivo delle aumentate paure di recessione sta nel sondaggio ISM tra i responsabili degli acquisti del settore manifatturiero, diffuso il 2 gennaio e relativo al mese di dicembre. Ecco il grafico dell’ISM manifatturiero, sempre tratto da Northern Trust:

Con la caduta a 47,7 l’indicatore, che è pure tra i più affidabili nell’anticipare l’evoluzione del ciclo Usa, si è portato su livelli che in passato hanno spesso segnalato l’instaurarsi di condizioni recessive.

Cautamente, Bangalore osserva come conferme dovranno essere attese nei prossimi mesi. Ma la possibilità che il dato di dicembre sia un falso segnale appare ridotta.

Tra i componenti dell’indice, due dei più importanti, e cioè produzioneordinativi, hanno evidenziato estrema debolezza, scendendo ai livelli più bassi dall’autunno del 2001, quando l’economia Usa era in recessione, come risulta chiaro da quest’altro grafico:

L’ultimo motivo di allarme, in ordine temporale, è venuto lo scorso venerdì con la pubblicazione delle statistiche sull’occupazione relative a dicembre. Il tasso di disoccupazione si è improvvisamente impennato dal 4,7% al 5,0%, una rapida inversione di rotta che è tipicamente associata all’avvio di una recessione, come evidenzia il grafico seguente:

E con la creazione di appena 18 mila nuovi occupati a dicembre, il tasso annuo di crescita della forza lavoro è sceso allo 0,9% dal picco ciclico del 2,1% del marzo 2006, come illustra quest’altro grafico:

L’aspetto più preoccupante, nota Bangalore, è che l’89% della già esigua crescita della forza lavoro registrata nel 2007 è dovuto a un metodo di destagionalizzazione dei dati che solleva molte perplessità tra gli economisti. E’ insomma probabile che le statistiche ufficiali sovrastimino, in questa fase del ciclo, la salute del mercato del lavoro Usa.

Recessione del mercato della casa, recessione del settore manifatturiero e flessione del mercato del lavoro, se confermate, potranno solo mettere in ginocchio i consumi, tanto più in un contesto in cui la crescente debolezza economica va a colpire i bilanci di famiglie Usa già sin troppo indebitate.

Se, come appare dunque sempre più probabile, una contrazione dell’economia americana sarà nei prossimi mesi difficile da evitare, quale potrà essere l’impatto sull’Europa?

Un’indicazione ci viene dal grafico seguente, tratto dall’ultimo World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale. Illustra il tasso reale annuo di crescita del Pil negli Usa, zona euro e Giappone:

Trascurando i dati nella banda grigia, che rappresentano previsioni per il prossimo anno (notoriamente non molto affidabili), è facile notare la stretta correlazione tra le economie americana ed europea negli ultimi due cicli, con la funzione di traino, nelle fasi ascendenti come in quelle discendenti, che gli Usa hanno storicamente esercitato. La conclusione, insomma, è che se gli Usa sono in procinto di cadere in recessione, la crescita europea potrebbe in pochi mesi squagliarsi come neve al sole.

Le banche, i mercati e la bolla del credito II

Ho scritto nella prima parte di questo articolo che per comprendere i tremori che stanno scuotendo da qualche mese i mercati finanziari globali bisogna guardare alle banche. E per decifrare le difficoltà delle banche bisogna andare oltre l’implosione del mercato Usa dei mutui subprime, e risalire fino alle origini di quella che oggi appare sempre più nitidamente come una bolla dei tassi e della liquidità, di proporzioni senza precedenti.

Chiudevo la prima parte notando come la tardiva stretta con cui la Federal Reserve, a partire dal giugno 2004, cercò di normalizzare una politica monetaria troppo espansiva fallì in quello che era uno dei suoi scopi, e cioè produrre anche un rialzo della parte lunga della curva dei tassi così da calmierare, in primis, un mercato della casa già allora troppo effervescente.

Perchè la manovra non ebbe gli effetti desiderati?

Uno dei primi a sollevare la questione, senza però trovare una risposta soddisfacente tanto da definire il problema col termine diventato poi famoso di “conundrum (enigma), fu proprio Alan Greenspan in un’audizione parlamentare del febbraio 2005, quando era ancora presidente della Federal Reserve.

Da lì in poi è stato tutto un susseguirsi di studi e interpretazioni, ben riassunti in un articolo del Financial Times dello stesso anno. In estrema sintesi, le spiegazioni più accreditate dell’enigma dei bassi tassi americani a lungo termine hanno finito per essere tre:

a) Globalizzazione e bassa inflazione

Si è detto che il mercato scontava il permanere di condizioni di bassa inflazione. I cicli di espansione economica del passato erano sempre stati caratterizzati dall’emergere di pressioni sui prezzi, che finivano per spingere al rialzo i tassi a lunga e indurre la banca centrale a intervenire con una stretta sui tassi a breve. Ma quest’ultimo ciclo appariva diverso.

Per tutto il periodo 2004-2007, l’azione della Federal Reserve fu semplicemente finalizzata a “normalizzare” tassi a breve troppo bassi e non a sopprimere inesistenti dinamiche inflative.

Il processo di globalizzazione, infatti, grazie all’immissione sui mercati internazionali di almeno un miliardo di nuovi lavoratori a basso costo dalla Cina e dall’India, aveva creato le condizioni per una sostenuta espansione economica, di lunga durata, con bassa inflazione.

b) Debito insostenibile e recessione

Altri, più pessimisti, hanno ritenuto che il mercato scontasse l’insostenibilità dell’espansione americana, che aveva fatto leva, dal 2001 in poi, su un cumulo crescente e senza precedenti di passività: i “deficit gemelli” del bilancio federale e della bilancia commerciale



… l’indebitamento abnorme delle famiglie che, per la fatale attrazione di un mercato immobiliare in ebollizione, per l’eccessivo ottimismo nelle loro possibilità di guadagno e l’anemica crescita dei salari, riuscivano a tenere elevati i consumi solo facendo ricorso al credito…


… abbattendo fino a livelli negativi, per la prima volta nella storia, il tasso di risparmio:


I bassi tassi a lunga anticipavano dunque il collasso dell’economia Usa sotto il peso di tali e tanti squilibri: una fine traumatica della crescita nel baratro della recessione, e, piuttosto che l’assenza di inflazione, un periodo di deflazione (e cioè di diminuzione dei prezzi) causato dal degenerare dei debiti eccessivi in insolvenze.

c) Eccesso di liquidità e bolle, bolle, bolle

La terza interpretazione proposta all’”enigma” dei bassi tassi a lunga americani, per certi versi complementare alla seconda, è stata che i tassi si trovavano in uno stato di bolla speculativa. Avevano perso, perciò, ogni capacità di segnalare tanto gli eventuali rischi di deflazione come l’assenza o meno di inflazione.

La politica troppo a lungo espansiva della Federal Reserve aveva finito per inondare di liquidità diversi mercati, da quello immobiliare a quello azionario a quello obbligazionario.

Tali eccessi si erano poi venuti aggravando in conseguenza delle politiche economiche di molti paesi asiatici, Cina in testa, che, dalla crisi valutaria del 1997 in poi, avevano puntato con decisione su una crescita a tappe forzate, tutta basata sull’export.

A sostegno e a rinforzo delle loro politiche mercantilistiche, questi paesi avevano utilizzato le ingenti riserve valutarie

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

… generate dai surplus commerciali (espressi nel grafico qui sotto in percentuale del Pil mondiale)…

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

… per acquistare titoli del debito americano e mantenere in tal modo l’allineamento delle loro valute al dollaro (il grafico qui sotto mostra la percentuale del debito pubblico Usa detenuta da investitori stranieri: come si vede, è andata crescendo in modo esplosivo dal 2001, in larga misura per l’intervento massiccio delle banche centrali, soprattutto asiatiche).


Si era così andato consolidando un processo di mutuo sostegno tra Usa e Asia, ribattezzato Bretton Woods II, perchè in qualche modo riecheggiante gli accordi raggiunti nel 1944 nell’omonima località del New Hampshire, che avevano gettato le basi del sistema monetario, centrato sul dollaro, in vigore fino ai primi anni ’70.

Un simile, informale, rapporto di scambio era funzionale a mantenere elevati i consumi americani e le produzioni ed esportazioni asiatiche. Finiva, però, per scaricare i suoi costi sull’Europa, la cui moneta era l’unica, tra le principali, che tendeva ad apprezzarsi oltre ogni ragionevole misura.

Nel complesso, Bretton Woods II risultava comunque fortemente espansivo per tutta l’economia globale, come lascia ben intendere il grafico che segue:

Sommate assieme, base monetaria e riserve valutarie raggiungevano, a livello globale, tassi di crescita mai visti prima, andando a configurare un’enorme bolla di liquidità, che inondava un mercato dopo l’altro.

In sintesi e semplificando, secondo questa interpretazione, la dinamica sottostante agli sviluppi dell’economia e dei mercati finanziari su scala planetaria è stata, nell’ultimo decennio, la seguente:

a) in America, centro del sistema globale: bassi tassi a breve, ampia liquidità, consumi sostenuti, deficit commerciale, mercati degli asset in crescita, ottimismo e propensione al rischio, ricca e variegata offerta di credito, accumulo di debito, dollaro debole;

b) in Asia, piattaforma produttiva per l’economia globale: forti esportazioni soprattutto verso il mercato Usa, elevati surplus commerciali e accumulo di riserve, acquisto di titoli del debito in dollari per mantenere competitive le valute locali;

c) di nuovo in America e da qui a livello globale: bassi tassi a lunga, sostenuta crescita economica (l’ultimo quinquennio, anche se in Italia non ce ne siamo accorti, ha fatto registrare la più poderosa e prolungata espansione dell’economia mondiale dagli anni ’70).

L’enigma di Greenspan svelato

Delle tre interpretazioni del “conundrum” di Greenspan, è quest’ultima, probabilmente, la più completa.

C’è stato un tacito e informale scambio tra America e Asia, per cui la prima si è gonfiata di debiti che hanno finanziato tanto i consumi interni quanto l’industrializzazione della seconda, e la seconda ha ammassato risparmi che sono stati utilizzati per acquistare i debiti della prima, mantenendone basso il costo e consentendo così ulteriore accumulo di debito e un altro giro di questa giostra.

Si è trattato, per anni, di un processo caratterizzato da uno stabile squilibrio, come l’ha definito Bill Gross di PIMCO.

Stabile” perché mutualmente vantaggioso e implicitamente garantito dalle autorità politiche e monetarie della superpotenza americana e dei paesi emergenti asiatici. Ma “squilibrato” perché tanto l’accumulo di debito in America che quello di riserve in dollari nei paesi asiatici era, a lungo andare, fondamentalmente insostenibile.

Ciò che di recente ha cominciato a manifestarsi è che, sia per i tentativi di “riequilibrare lo squilibrio”, attraverso la leva dei tassi a breve negli Usa e la maggiore diversificazione delle riserve in Asia, sia per la logica implicita allo squilibrio stesso, il processo da “stabile” si è fatto “instabile.”

Per intravedere cosa questo possa comportare, bisognerà prima fare una panoramica di quel che Bretton Woods II, col suo mix incendiario di debito, liquidità, crescita drogata ed eccessiva propensione al rischio, abbia prodotto sui mercati finanziari, in particolare quelli del credito.

Lo vedremo in una terza parte di questa analisi. Per ora, vorrei chiudere con un’osservazione che ci sarà essenziale da qui in avanti.

La liquidità come “stato della mente”

Ho fatto più volte uso del concetto di liquidità, che in finanza non è dei più univoci. Si tratta della disponibilità di moneta, in ultima istanza controllata dalle banche centrali? Sì, anche. E sulla base di questa definizione, ho mostrato graficamente di quale entità sia stata la bolla degli ultimi anni.

Ma questa accezione è diventata sempre più inadeguata nei mercati finanziari del XXI secolo, nei quali sono proliferati nuovi veicoli di credito e d’investimento poco o per niente regolati dalle banche centrali – quello che Paul McCulley di PIMCO ha per primo definito, nel suo complesso, come “shadow banking system” (sistema bancario ombra). Banche d’investimento, Siv (structured investment vehicles) e hedge fund sono i suoi attori protagonisti.

In questo nuovo contesto, cos’è dunque la liquidità? La definizione migliore mi pare sia di nuovo quella di McCulley, che l’ha chiamata uno “stato della mente”.

“Nei mercati dei capitali di oggi, integrati globalmente e regolati in modo leggero, la liquidità ha a che fare con l’appetito per il rischio di prestatori e prenditori di denaro, collettivamente considerati. E’ cioè una funzione della disponibilità da parte degli investitori di sottoscrivere rischio e incertezza con capitali presi a prestito e della disponibilità da parte dei risparmiatori di prestare denaro a investitori che intendono sottoscrivere rischio e incertezza con capitali presi a prestito.”

Vedremo come uno “stato della mente” reso euforico dalle irripetibili opportunità di crescita offerte ai mercati del credito da Bretton Woods II e dalle innovazioni di prodotto frutto di un’ingegneria finanziaria sempre meno frenata dal buon senso e/o dalle autorità, abbia finito per generare “liquidità” (e, per un certo periodo di tempo, profitti) che sfidano la più fervida immaginazione.

Ora che lo “squilibrio” di Bretton Woods II da “stabile” ha cominciato a farsi “instabile” (il mercato della casa americano è stato, in fin dei conti, il punto più debole di una catena planetaria, che avrebbe potuto iniziare a sfilacciarsi anche in altri punti), lo “stato della mente” è diventato ansioso e preoccupato da euforico che era.

Ha così preso avvio un processo inverso di contrazione della “liquidità” (e dei profitti, come dimostrano i tremendi buchi venuti a galla nelle trimestrali delle grandi banche americane) che, a una a una, finirà per afflosciare le tante bolle gonfiatesi in questi anni.

Le banche, i mercati e la bolla del credito I

“Banche, un rischio o di nuovo un affare?” si chiedeva qualche settimana fa Il Mondo in un lungo articolo a firma di Ivan Del Ponte. “Bene”, mi sono detto. “Proprio quello che ci vuole”. Non è infatti possibile comprendere gli scossoni sui mercati finanziari di questo ultimo semestre se non si analizza a fondo la situazione del settore bancario.

Dopo anni di leadership e sovraperformance…

Fonte: Borsa Italiana

 … è dalle banche che ha preso le mosse la correzione globale delle Borse (o bear market?), iniziata sul listino milanese verso la fine di maggio:

Fonte: Borsa Italiana

Purtroppo, a dispetto del titolo, l’articolo de Il Mondo saltava a piè pari ogni valutazione dei rischi.

Si limitava a descrivere come “irrazionali” i comportamenti del mercato che, facendo “di tutta l’erba un fascio”, avrebbe finito per penalizzare senza motivo anche gli istituti di credito italiani per la crisi dei mutui subprime americani.

E sposava la tesi dell’”affare” attribuendo agli “investitori più scaltri” l’idea che “per chi ha un’ottica di investimento superiore all’anno è il momento di fare shopping” tra i titoli bancari del nostro listino.

Quali, in particolare? Intesa Sanpaolo, UniCredit, Banco Popolare…insomma, gli azionisti bancari di RCS, editore de Il Mondo.

Nessuna vera analisi, nessun accenno all’evidente conflitto d’interessi in cui il giornale era andato a ficcarsi (l’intenzione era di proporre buoni consigli ai lettori o fare un favore alla proprietà?): l’articolo aveva tutta l’apparenza di quella che in gergo si chiama “marchetta”, un malcostume che, nei paesi civili, le testate attente alla propria credibilità cercano in ogni modo di evitare (vedi quanto ho scritto nel post Blog e fondamenti del giornalismo).

Cestinato l’indecente servizio de Il Mondo, resta l’interrogativo. Che succede alle banche?

Purtroppo, l’analisi dei nessi tra mondo del credito e mercati non è facile, perché complesse, sin troppo, sono diventate le attività in cui le banche – quelle almeno radicate al cuore del sistema – sono impegnate.

In una battuta, si potrebbe dire che se nelle ultime settimane Chuck Prince e Stan O’Neal, Ceo di due formidabili istituzioni come Citigroup e Merrill Lynch, sono stati di punto in bianco messi alla porta dai loro azionisti è perché non avevano capito, loro per primi, cosa facessero le banche di cui erano alla guida. E se non l’avevano capito loro, potrà essere un compito alla portata di un piccolo investitore qualsiasi?

Non lo so, ma è necessario provarci. Nel seguito di questa analisi mi ci cimenterò usando molti grafici per stare ai fatti e mirando a ricomporre, senza perdermi in dettagli, un contesto in cui sia possibile ridare senso alla grande confusione e incertezza che hanno invaso i mercati da qualche mese a questa parte.

La bolla dei tassi e della liquidità

Il primo problema, cercando di sviscerare un sistema complesso come i mercati, è capire da dove cominciare.

Nel descrivere la crisi palesatasi a partire dall’estate, si è per lo più concentrata l’attenzione sul suo epicentro, i mutui subprime (quelli cioè più rischiosi perché offerti a una clientela che dà scarse garanzie), visti come manifestazione di una tendenza al rilassamento degli standard creditizi e all’eccesso speculativo limitata a una parte del mercato della casa americano.

E’ un approccio interpretativo che è stato incoraggiato, in primo luogo, dalle autorità americane.

Ancora nel giugno scorso, ad esempio, Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve, si esprimeva in termini rassicuranti in un discorso all’annuale Conferenza Monetaria Internazionale, nel quale dichiarava che:

“Fattori fondamentali, tra cui la solida crescita dei redditi e tassi sui mutui relativamente bassi, dovrebbero in ultima istanza sostenere la domanda di case; appare a questo punto improbabile che i problemi nel settore subprime finiscano per avere serie ripercussioni sull’economia nel suo complesso o sul sistema finanziario.”

Dall’estate si è cominciato poi a capire quanto riduttiva fosse quell’interpretazione.

Scrive Charles Kindleberger, nel suo classico Manias, Panics and Crashes, a history of financial crises, che “le manie speculative si gonfiano grazie all’espansione della liquidità e del credito o, in alcuni casi, prendono proprio avvio per effetto di un’iniziale espansione della liquidità e del credito.”

E’ da qui, più che dai mutui subprime, che bisogna partire.

All’origine dei tremori che scuotono oggi i mercati finanziari sta una bolla dei tassi e della liquidità che non ha precedenti e che viene da lontano.

Vediamola, a partire dal grafico che segue, che ci mostra l’evoluzione dei tassi reali a breve negli Usa e nella zona euro (linea rossa) e la deviazione da quella condizione di neutralità della politica monetaria chiamata in gergo Taylor rate (linea blu):

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

Il Taylor rate è dunque un tasso di equilibrio. Definito dall’economista John Taylor sulla base di una formula che tiene conto dell’andamento del ciclo economico e dell’inflazione, fu ampiamente utilizzato dalla Federal Reserve come metro di valutazione negli anni della presidenza di Alan Greenspan.

Appare chiaro come già dalla fine del 1998, negli Usa, e dal 2001 in Europa la politica monetaria diventò espansiva e vi rimase a lungo, prima di tornare verso una condizione di equilibrio solo in tempi recenti. Senza però sortire gli effetti desiderati, come mette in chiaro il grafico che segue:

Un tratto anomalo e importante dell’andamento dei tassi nell’ultimo decennio è stato che, al netto dell’inflazione (in termini cioè “reali”), quelli a lungo termine hanno continuato a flettere, in aggregato, in tutti i paesi del G7, insensibili alla restrizione monetaria messa in atto dalla Federal Reserve a partire dal giugno 2004 e dalla BCE a partire dal dicembre 2005. Siccome molte attività di investimento o di consumo di beni durevoli sono più sensibili ai tassi a lunga che a quelli a breve, l’azione delle banche centrali, tesa a riequilibrare la politica monetaria in presenza di una crescita economica sempre più effervescente, è stata dunque in larga parte frustrata dai mercati (dove vengono liberamente fissati i tassi a lunga).

Questa osservazione è ancora meglio visibile nel grafico seguente, che mette direttamente a confronto i tassi a breve (Fed Funds) con quelli a lunga (T-bond decennale) del mercato americano:

Fonte: Federal Reserve

Come è facile notare, nei cicli passati era sempre accaduto che, nelle fasi di stretta monetaria, ai rialzi dei tassi a breve, decisi dalla Federal Reserve, si accompagnassero anche aumenti dei tassi a lunga.

Nell’ultimo ciclo, dal 2004 al 2007, questo non si è però verificato. Come mai? Lo vedremo nella seconda parte di questa analisi.

Un bear market azionario è forse alle porte?

Che faranno, a questo punto, i mercati azionari? Già in due occasioni, negli ultimi due mesi, ho cercato di combinare analisi tecnica e analisi macroeconomica per arrivare a una risposta – sempre partendo dalla premessa che le Borse, come più volte ho cercato di dimostrare in questo blog, sono in generale sopravvalutate. Per due volte gli studi a cui ho fatto riferimento (non miei, io faccio il giornalista e non l’analista tecnico o l’economista) si sono dimostrati attendibili. E’ comprensibile la tentazione di volerci riprovare, con l’accortezza di tenere ben presente che nessuno ha la sfera di cristallo. E che non è sulle previsioni di breve periodo che si può basare un’accorta gestione del portafoglio.

Vediamo allora cosa ho già scritto e come quel quadro può essere aggiornato.

Due analisi azzeccate

Il 9 ottobre, subito prima che i mercati Usa ripiegassero dai massimi, nel post L’analisi tecnica svela un rally di Borsa sospetto, scrivevo così:

Volume e ampiezza ci raccontano storie simili. Il rally dell’ultimo mese e mezzo appare sospetto, perché ha avuto scarsa partecipazione di investitori (bassi volumi) e di titoli (linea Advance-Decline divergente rispetto ai prezzi).”

Notavo che si trattava di caratteristiche “tipiche di un top di mercato e concludevo: “E’ probabile che molti investitori abbiano deciso di stare alla finestra in attesa delle trimestrali del terzo trimestre […]. In ogni caso, la conclusione da trarre, per ora, è che di questo rally, e della grancassa mediatica che ha salutato i nuovi massimi di Wall Street, è giusto essere scettici.”

Il 21 ottobre, subito dopo il “mini-crash” di venerdì 19 ottobre, scrivevo, dopo aver lasciato la parola a due dei miei analisti preferiti, Brett Steenbarger e Paul Kasriel:

“Il ‘mini-crollo’ di venerdì ha cominciato a ristabilire un clima di mercato meno irrazionale e più rispondente ai fondamentali. I nuovi massimi di molti indici azionari riflettevano scommesse speculative ed eccessi di ottimismo di una parte sempre meno rappresentativa dell’universo degli operatori. In questa fase, è giusto invece essere dubbiosi, incerti e anche un po’ timorosi. E’ possibile, e forse probabile, che i mercati azionari debbano ritestare i minimi di agosto prima di decidere sul serio il loro corso futuro” […]

Al test dei minimi di agosto siamo ora arrivati. E il contesto, sia tecnico che macroeconomico, come ci dicono sempre Steenbarger e Kasriel, si va deteriorando.

Un mercato sempre più fragile

In un post pubblicato mercoledì sul suo blog Traderfeed, Steenbarger osserva come la flessione degli indici nelle ultime settimane sia stata accompagnata da:

a) la continua espansione del numero di titoli che vanno a segnare nuovi minimi a 52 settimane (New Low);

b) l’incessante debolezza dei settori più penalizzati del mercato (l’indice del settore bancario ha perforato i minimi di agosto);

c) l’amplificarsi di segnali di flight to safety, e cioè di avversione al rischio e ricerca della sicurezza, come ad esempio la corsa all’acquisto di titoli di Stato, che ha spinto i rendimenti del T-bond decennale sotto il 4% per la prima volta dal 2005.

Steenbarger ammette che la sua ipotesi interpretativa, a partire dall’estate, era stata che una correzione fosse alle porte, ma non un bear market.

Fino a qualche settimana fa era sua convinzione che il test dei minimi di agosto, da lui previsto, avrebbe potuto risolversi positivamente, grazie alle forti iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali e alla solidità dei titoli a larga capitalizzazione.

Ma ora Steenbarger osserva come l’espansione dei New Low – e la fragilità tecnica che questo indicatore denuncia – riguardi non più solo il NYSE, e cioè la generalità del mercato, ma anche l’S&P 500, ossia le large cap. “Io seguo i miei indicatori e non compro un mercato dove i New Low sono in aumento.”

La conclusione di Steenbarger è che “dalla fine della scorsa settimana, i segnali di debolezza si stanno intensificando, non riducendo, e questo per i Tori (gli ottimisti) deve essere un motivo di preoccupazione.”

Una recessione difficile da evitare

Se il quadro tecnico peggiora, lo stesso si può dire dei fondamentali macroeconomici.

I rischi di recessione, come mettono in chiaro Kasriel e il suo team a Northern Trust, sono in aumento.

E’ di ieri l’ultimo aggiornamento del LEI (o superindice economico, com’è conosciuto in Italia). Dell’importanza di questo indicatore, che ha correttamente predetto, con un trimestre circa di anticipo, tutte le recessioni americane degli ultimi 50 anni, con l’unica eccezione di un falso segnale nel 1966, ho già scritto nel post L’economia Usa e lo spettro della recessione .

Ecco il grafico, che riprendo da Northern Trust (le recessioni sono rappresentate dalle bande grigie):

Come spiega Asha Bangalore, dopo un effimero rimbalzo nel terzo trimestre, il LEI è tornato a spingersi in territorio negativo. E le prospettive sono di ulteriore indebolimento, visto che uno dei pochi elementi di relativa forza nel dato pubblicato ieri è stato l’andamento del mercato azionario a ottobre. Ma sappiamo come Wall Street abbia poi mutato decisamente rotta a novembre.I segnali infausti provenienti dagli Usa sono, peraltro, numerosi, come ci ricorda Paul Kasriel in un’analisi pubblicata all’inizio di questa settimana.

Tra i più preoccupanti c’è l’andamento delle vendite al dettaglio, scese a ottobre, in termini reali (al netto, cioè, dell’inflazione) dell’1,65% annuo. Quello che sta accadendo, dice Kasriel, è che la crisi del mercato della casa sta finalmente inducendo le famiglie americane a moderare i consumi al fine di rimpinguare livelli di risparmio troppo bassi.

L’impennata del tasso di risparmio è una dinamica che si è manifestata subito prima di tutte le recessioni degli ultimi 40 anni, come evidenzia il grafico che segue:

Sulle prospettive del mercato della casa, all’origine del rallentamento dell’economia e dei patemi delle Borse, non c’è poi da illudersi.I prezzi, da qualche trimestre, hanno cominciato a flettere perché l’offerta di immobili supera la domanda. Ma questo squilibrio è destinato ad aumentare nei prossimi mesi. Insolvenze e pignoramenti sono in rapida ascesa, e spingono una massa crescente di immobili sul mercato.

Il risultato è che le scorte di case invendute, in rapporto al numero di case vendute, hanno già superato i livelli toccati nella recessione del 1990-91 e seguitano a impennarsi, come risulta chiaro dal grafico che segue (il quale mostra, per chi non sappia decifrare l’inglese, che al ritmo attuale di vendita occorrerebbero 10,3 mesi per esaurire le scorte di case invendute):

La caduta dei prezzi delle case, conclude Kasriel, è con ogni probabilità destinata ad accelerare nel 2008, con due effetti negativi. Verrà ulteriormente ridotta la capacità delle famiglie Usa di indebitarsi, e sostenere in questo modo i consumi. E diminuirà ancora il valore del collaterale sottostante all’enorme massa di Asset-backed securities (ABS), su cui Wall Street ha costruito negli ultimi anni quella bolla del credito che con fragore sta ora scoppiando.

Per cercare di evitare una recessione, la Federal Reserve dovrebbe per Kasriel portare i Fed funds al 3,5% entro la metà del 2008. Ma c’è da dubitare che sarà in grado di farlo. Con il petrolio a 100 dollari al barile e il dollaro già così debole, ci sono rischi sia di inflazione che di un collasso del biglietto verde.

Quale può essere la conclusione? Un quadro tecnico e fondamentale in peggioramento, e due enormi bolle – quella della casa e quella del credito – che hanno appena iniziato a sgonfiarsi, mi pare che rendano più credibile, almeno per ora, mettere in conto che le soglie di agosto non reggano a lungo.

Qui da noi hanno già ceduto. Ma importa poco. Anche chi investe a Piazza Affari è su Wall Street che deve tenere puntato lo sguardo.

Il triste autunno del mercato della casa

Delusi da rendimenti obbligazionari ai minimi storici e atterriti, dopo i crolli del 2000-2002, dalle escursioni mozzafiato dei mercati azionari, gli italiani, nell’ultimo quinquennio, sono tornati, col trasporto di chi sente di non poter sbagliare, al loro primo amore: l’investimento nella casa. Lo stesso, per la verità, è accaduto anche nel resto d’Europa, con l’unica eccezione della Germania; in tutto il mondo anglosassone, dagli Usa all’Australia; e in Cina e nel resto dell’Asia, tranne che in Giappone.

La corsa all’acquisto di case è stata così diffusa e frenetica, complice un’offerta di mutui generosa come non mai, che già dal 2003 c’è stato chi, come l’Economist, ha lanciato l’allarme sul gonfiarsi della prima bolla globale nella storia dei mercati immobiliari.

Se è una bolla scoppierà

Ora che si è capito che una bolla effettivamente c’era, perché lo scoppio in America è stato tanto fragoroso da avere ripercussioni in tutto il pianeta, ci si comincia a chiedere se anche in Europa e in Italia il fascino del mattone stia per tramontare.

Una risposta meditata l’ha pubblicata in questi giorni Daniel Gros, direttore del prestigioso Centre for European Policy Studies di Bruxelles.

Studiando i prezzi delle case sulle due sponde dell’Atlantico, Gros ha scoperto due cose, entrambe preoccupanti.

La prima è che nel corso degli ultimi 30 anni l’andamento in termini reali (al netto cioè dell’inflazione) del mercato della casa nella zona dell’euro ha seguito da vicino quello americano, con un ritardo temporale che si è aggirato in media attorno agli uno, due anni ma che è andato via via riducendosi.

Siccome i prezzi negli Usa, dalla fine del 2006, hanno preso a scendere, a un tasso annuo che continua ad accelerare e ha toccato di recente il 5%, le implicazioni perl’Europa sono chiare: una discesa, anche ripida, è ormai alle porte.

Il secondo motivo di preoccupazione è che lo stato di sopravvalutazione del mercato europeo, nonostante il movimento in controtendenza della Germania (il cui ciclo, condizionato dal processo di unificazione, è stato del tutto singolare nell’ultimo quindicennio), è analogo a quello del mercato americano.

In entrambi i casi, gli indici si trovano un 40% sopra la media degli ultimi 30 anni. Si tratta dello stesso estremo toccato dal settore immobiliare in Giappone sul finire degli anni ’80, e che lì fu poi seguito da oltre dieci anni di prezzi in costante calo.

Il grafico che segue, tratto dall’articolo di Gros, ne riassume efficacemente le preoccupazioni. Mostra l’andamento dei prezzi reali degli immobili negli Usa (linea blu) e nella zona euro (linea gialla) a partire dal 1971: i secondi seguono i primi.

Aggiunge però Gros: si può obiettare che l’indice dei prezzi reali non sia la misura più giusta per capire il mercato della casa. Gli aumenti dei prezzi potrebbero essere infatti giustificati da un sostenibile aumento della domanda.

Domanda sostenibile o speculazione?

Per capire se e in che misura questo sia il caso, Gros è così andato a verificare cosa sia accaduto in questi anni agli affitti. Aumenti dei prezzi risultanti da una maggiore domanda sostenibile (cioè non di natura speculativa) dovrebbero essere infatti accompagnati da analoghi rialzi degli affitti, in una sostanziale stabilità del rapporto prezzo/affitti.

Stanno così le cose? Niente affatto. Come riassume la tabella che segue, la norma per tutti i paesi dell’Ocse, negli ultimi tre decenni, è stata di un rapporto prezzo/affitti che non si è mai discostato più del 2% dal livello medio.

Ci sono due macroscopiche eccezioni: il Giappone degli anni ’80-‘90, dove il rapporto salì a 1,2, e la situazione che si è creata un po’ dovunque a partire dal 2000. Il ratio, a fine 2006, aveva toccato l’1,36 negli Usa e l’1,24 nella zona euro, indicando dunque una sopravvalutazione dei prezzi medi del 36% e 24% rispettivamente.

Le conclusioni di Gros sono ispirate a un realistico pessimismo:

a) è probabile che i prezzi in Europa comincino presto a scendere, come sta accadendo negli Usa;

b) siccome i cicli del mercato della casa sono molto lunghi – spesso di durata superiore al decennio – e lo stato attuale di sopravvalutazione è superiore a ogni precedente storico, è prevedibile che la discesa dei corsi non sarà di breve durata;

c) l’andamento dei prezzi delle case ha ripercussioni sulla propensione al consumo delle famiglie: è realistico pensare che, sulle due sponde dell’Atlantico, i consumi siano destinati ad attraversare un periodo di “vacche magre”;

d) l’Europa, a differenza degli Usa, non ha il problema dell’ampia diffusione dei mutui sub-prime, ma sarà esposta a tensioni derivanti dal diverso impatto della crisi nelle varie realtà nazionali. All’interno dell’area euro – dove la politica monetaria è unica e quelle fiscali sono soggette a vincoli – le situazioni sono infatti alquanto diversificate: si va dalla Germania, dove il mercato della casa è stato, in anni recenti, per lo più stagnante, ai casi estremi di Spagna e Irlanda, dove gli investimenti in costruzioni sono arrivati a toccare il 18-20% del Pil – un’enormità.

Le fragilità ulteriori del caso italiano

Per l’Italia vorrei aggiungere un’osservazione. Da noi meno che altrove i forti aumenti dei prezzi degli ultimi anni possono essere spiegati con un’espansione sostenibile della domanda.

I due fattori che più governano la domanda di case nel lungo periodo sono infatti l’andamento del reddito reale e la demografia: se aumentano i redditi e aumenta la popolazione, è del tutto conseguente che salgano anche i prezzi delle case.

Ma l’Italia sia per crescita del reddito che per crescita demografica occupa da diversi anni gli ultimi posti delle classifiche mondiali. E le prospettive restano magre.

Il lievitare dei prezzi delle case è stato dunque frutto di una mania collettiva, di natura e dimensioni simili alla bolla azionaria di fine anni ’90. Come quella finirà: sgonfiandosi, anche se nei modi tipici del mercato immobiliare, e cioè con un moto più graduale e di lungo periodo.

Uno sguardo all’America per capire il futuro

Siccome l’Europa segue l’America, come Gros dimostra, per scrutare nel futuro la cosa da fare è osservare cosa stia succedendo oltre Atlantico, dove tra l’altro gli strumenti di rilevazione e di analisi sono molto più sofisticati che da noi.

Partiamo allora con una rapida carrellata di grafici, che meglio delle parole riescono a illustrare lo stato e le prospettive del mercato immobiliare negli Usa.

Gli ultimi dati sulle vendite di case esistenti indicano un crollo del 23% rispetto a un anno fa (il calo peggiore dal luglio 1982) e del 30% rispetto al picco ciclico del settembre 2005 (vedi grafico qui sotto, tratto dalle analisi di Northern Trust).

I prezzi, su base annua, sono scesi del 4,9%, il risultato peggiore di sempre (vedi grafico qui sotto, tratto di nuovo da Northern Trust).

La crisi è però appena agli inizi e il peggio deve ancora venire, a dispetto delle chiacchiere infondate di quanti, interessatamente, non fanno che predire una “stabilizzazione” imminente.Mentre le vendite calano, le scorte di case invendute seguitano a crescere, segno evidente che i prezzi dovranno flettere ancora molto prima che sia raggiunta una condizione di equilibrio tra domanda e offerta (vedi grafico qui sotto, tratto da Calculated Risk).

A pesare sul mercato della casa, oltre ai prezzi eccessivi, è la crisi dei mutui, offerti spesso negli ultimi anni a condizioni “predatorie”, e cioè solo apparentemente vantaggiose, anche a debitori privi di alcun merito e garanzia.Molti di questi mutuatari sprofondano in uno stato d’insolvenza alla scadenza del periodo iniziale, quando il “teaser rate”, ossia un tasso d’ingresso particolarmente allettante, viene rivisto al rialzo, mediamente di un paio di punti percentuali.

Ma come dimostra il grafico qui sotto, l’ondata dei “reset” dai tassi d’ingresso a quelli a regime sta ancora montando e toccherà il punto di massima, per quel che riguarda i mutui sub-prime, i più rischiosi, solo nella prima metà del 2008. Toccherà poi a quelli a tasso variabile.

Insolvenze e pignoramenti sono insomma appena agli inizi e peggioreranno nei prossimi mesi, aggravando le pressioni al ribasso sui prezzi (vedi il grafico qui sotto, a cura di Credit Suisse e tratto dal recente Global Financial Stability Report del FMI).

Che la crisi del mercato della casa sia destinata ad aggravarsi e a durare a lungo non è solo un’ipotesi formulata da molti dei più autorevoli analisti. E’ anche l’indicazione fornita dai contratti future sull’indice dei prezzi delle case, introdotti al Chicago Mercantile Exchange lo scorso anno.Come evidenzia il grafico qui sotto (a cura del New York Times e tratto dal blog The Big Picture di Barry Ritholtz), il mercato dei future sconta che il fondo venga toccato non prima del 2010, a livelli di prezzo del 20% circa inferiori agli attuali.

Una debacle di queste dimensioni non era mai accaduta prima. E resta per questo difficile stimarne le ramificazioni. Ma senza precedenti era stata anche la bolla che aveva posto le premesse della rovinosa inversione del trend a cui andiamo ora incontro, in Europa come in America.Un senso del grado di follia che ha travolto negli ultimi anni ogni ragionevole misura di valore ce lo dà il grafico qui sotto, tratto dall’ultima lettera trimestrale agli investitori di Jeremy Grantham.

Rapportati ai redditi, i prezzi delle case si sono spinti ben tre deviazioni standard oltre la media storica, un livello di sopravvalutazione corrispondente a quello del Nasdaq nel 2000: una bolla di quelle che, in teoria, solo ogni cento anni è dato di incontrare. E il cui scoppio metterà probabilmente fine alla vecchia illusione, comune al 70% degli italiani secondo un sondaggio di Ipsos, per cui a investire in case, tutto sommato, non si può mai sbagliare.

Il mercato delle idee: Cina, dollaro e inflazione

Tra gli articoli degli ultimi giorni che ho trovato d’interesse ce n’è uno che individua delle analogie tra la situazione di oggi e i contesti in cui maturarono i crash del ’29 e dell”87. Questa volta, nel mirino, ci sarebbero i mercati cinesi. Un’altra analisi osserva tre fasi nel declino del dollaro e conclude che la sua svalutazione è destinata a continuare con ricadute negative sull’inflazione negli Usa.

Ecco i link a queste e ad altre storie.

Bolle e crash, come nel ’29 e nell”87

Interessante post su Alphaville, l’ottimo blog del Financial Times, che riprende un articolo di John Plender in cui si analizzano profonde affinità tra il crash del 1929, quello del 1987 e la situazione attuale.

All’origine delle crisi di mercato del ’29 e dell’’87 ci furono cambiamenti nei rapporti di potere tra un grande paese emergente e il centro del sistema economico internazionale, ossia Usa e Gran Bretagna nel ’29 e Giappone e Usa nell’87. Oggi la situazione sembra ripetersi, a grandi linee, nella relazione tra USA e Cina.

In tutti questi casi il perseguimento di politiche protezionistiche da parte della potenza emergente ha portato a crescenti squilibri nelle bilance dei pagamenti. E la manipolazione dei mercati valutari, tesa a limitare il deprezzamento della valuta dominante (la sterlina nel ’29, il dollaro nell’87 e oggi) ha finito per gonfiare enormi bolle speculative nei mercati della potenza emergente (Usa negli anni ’20, Giappone negli anni ’80, la Cina ai nostri giorni).

L’esito di questi processi è stato un crash catastrofico negli Usa degli anni ’30, con profonde ripercussioni sull’economia globale, e nel Giappone degli anni ’90, con conseguenze però in gran misura limitate a quel paese.

La conclusione dell’analisi di Plender è che un crash dei mercati cinesi appare ora l’esito più probabile degli squilibri attuali. Quali però potranno essere le ripercussioni a livello globale resta da capire.

L’insostenibile leggerezza del dollaro

Il destino del dollaro sembra segnato. Lo scrive sul Wall Street Journal Richard Clarida, professore alla Columbia University, ex sottosegretario al Tesoro e ora consulente strategico globale di Pimco, il primo asset manager obbligazionario al mondo. E le opinioni di Clarida sono riprese e condivise da Barry Ritholtz nel suo blog, The Big Picture.

Il declino del biglietto verde, come documenta il grafico che riproduco qui sotto, ha attraversato dal 2001 tre fasi, scandite dagli orientamenti di politica monetaria della Federal Reserve.

Dal 2001 al 2004, con l’economia Usa in anemica ripresa e la Fed impegnata ad allentare drasticamente la leva dei tassi fino all’1%, il dollaro non ha fatto che deprezzarsi. E’ poi seguito un periodo di consolidamento, dall’estate 2004 all’estate 2006, che ha coinciso con l’irrobustirsi dell’espansione economica e la decisione della Fed di dare il via a una serie di “misurati” rialzi dei tassi.

A partire dall’agosto 2006 il dollaro ha però ripreso a deprezzarsi, via via che si manifestava un rallentamento dell’economia e la Fed si orientava prima verso una “pausa” nella stretta monetaria e poi invertiva rotta dando avvio a un nuovo ciclo di tagli.

Scoppio della bolla immobiliare e crisi creditizia forzeranno la Fed a mantenere espansiva la politica monetaria ancora a lungo. Questo servirà, forse, a evitare o quanto meno a rendere meno severa una recessione.

Ma come nota Ritholtz, riprendendo il detto reso famoso da Milton Friedman, in economia “non ci sono pasti gratuiti.” Il prezzo da pagare sarà un dollaro sempre più debole e, almeno negli Usa, il rischio di indesiderate pressioni sui prezzi.

Le probabilità di una recessione? Al 38%

Nel post Mercati predittivi e recessione negli Usa avevo parlato di uno strumento innovativo per monitorare i rischi di recessione negli Usa, un evento che per i mercati globali resta una delle minacce più incombenti.

Si tratta del contratto US.recession.08, scambiato sul mercato predittivo di Intrade. Il contratto segnala, mentre scrivo, una probabilità del 38% che l’economia americana cada in recessione nel prossimo anno.

Come evidenzia il grafico che riproduco qui sotto, le quotazioni hanno subito sensibili oscillazioni nel corso degli ultimi due mesi, in un ampio range tra il 30% e il 60%. I rischi sono comunque elevati, in un contesto che viene percepito dagli investitori come particolarmente volatile e incerto.

Le società più rispettate al mondo

Come ogni anno, Barron’s ha sondato i money manager americani per stilare una classifica delle società “più rispettate” al mondo.

Al primo posto – e mi fa piacere – c’è Berkshire Hathaway del grande Warren Buffett. Seguono Johnson & Johnson, Toyota Motor, Procter & Gamble, General Electric, Microsoft, Nestlé, Apple, Cisco Systems ed ExxonMobil.

Tra le europee, dopo Nestlé, si segnalano Novartis, Nokia, Roche e Royal Bank of Scotland.

E le italiane? Sottorappresentate, ma non del tutto assenti: nella top 100 riescono a entrare Eni (83esima), Unicredito Italiano (86esima) e Intesa Sanpaolo (92esima). Per tutte e tre si tratta di un passo avanti rispetto al ranking dello scorso anno.

C’è, insomma, anche un’Italia che in quanto a credibilità internazionale riesce a fare progressi. La classifica completa è consultabile su MSN Money.

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